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giovedì 30 settembre 2010


Donne e potere nella società celtica

Nell’antica società celtica l’elite intellettuale era composta da druidi e druidesse dalle svariate conoscenze. La loro formazione durava circa vent’anni e consisteva nella memorizzazione di letteratura, poemi, storia, legge e astronomia.
Spesso si è osservato che le fonti antiche non parlano di donne quali sacerdotesse o veggenti, fonti antiche che sono per lo più osservatori romani che paiono non far caso al ruolo delle donne celtiche nel potere tranne che nel caso di Tacito che finalmente nel I° secolo asserisce “i celti non fanno distinzione tra ruoli maschili e femminili”.
Successivamente la leggenda ha mistificato molti dei ruoli femminili nella società celtica antica dando loro poteri mistici e stili di vita talmente straordinari da risultare alla fine troppo eccessivi per essere veri.
Il risultato è che è molto difficile per noi oggi sapere se veramente queste donne avessero del potere o se fossero almeno druidesse.
Donne come Boudica, Onomaris e altre donne di ruolo importante ma senza nome le cui tombe sono state trovate a Vix e Reinham mostrano che la donna celtica poteva avere anche più potere dell’uomo anche se le prove rimangono difficili da decifrare.
E’ comunque accertato che il ruolo della donna era nettamente diverso da quello riservatole, nelle stesse epoche, da altre società. Ricoprivano qualsiasi ruolo, pare che donne-guerriero furono presenti tra i Celti fino al IX secolo poi furono bandite per legge, ma in alcune sepolture sono state trovate armi e armature; inoltre secondo la leggenda a istruire nelle armi Cu Chulainn fu una donna: Scathacht.

La donna poteva ereditare, quindi se aveva possedimenti maggiori del marito diventava automaticamente capo famiglia. Poteva anche avere figli da uomini diversi senza alcun problema dato che la successione era matrilineare.
Oltre all’esempio famosissimo di Boudicca, Plutarco nel “De mulierum virtute” cita altre due donne estremamente combattive: Chiomara e Camma.

Storia di Chiomara regina-guerriera
La regina Chiomara, moglie di Ortagion della tribù degli Tolistoboii è raccontata anche dallo storico Polibio il quale ci dice che la sua tribù era alleata dei galati contro lo strapotere di Roma nel periodo del 189 a. C. circa.
Chiomara durante un combattimentimento venne catturata dai romani e successivamente rapita da un centurione il quale chiese un riscatto a Ortagion, avendo scoperto il rango elevato della donna.
Lo scambio si svolse sulla riva di un fiume, ma mentre il centurione si abbassava per prendere l’oro Chiomara lo decapitò e donò la testa al marito sostenendo che fosse una buona cosa che fosse in vita un solo uomo in intimità con lei. Polibio sostiene di aver avuto una conversazione con lei a Sardis e ne sottolinea il buon senso e l’intelligenza.

Camma bella e virtuosa
Sempre Plutarco ci narra la storia di questa giovane; Camma era la giovane moglie di Sinatos, tetrarca della Galazia, famosa per la sua bellezza e la sua virtù, amava molto il marito e si dedicava completamente a lui. La sua bontà e la sua dolcezza la resero famosa e amata. Ciò che la rendeva ancor più famosa era il fatto che fosse una sacerdotessa di Artemide, divinità molto rispettata e venerata dai galati. Synoirx, lontano parente di Sinatos e tetrarca lui stesso, la vide e se ne invaghì e per poterla avere senza violenza pensò di ucciderle il marito. Senza lasciar passare troppo tempo chiese la mano di Camma che però si chiuse nel tempio a pregare e a pensare a come vendicarsi. Dopo molto tempo, molte preghiere e molte pressioni da parte di parenti e amici, Camma acconsentì a sposare Synorix.
Lo fece chiamare per dichiararsi davanti alla Dea, lo accolse gentilmente e lo accompagnò all’altare dove li attendeva una coppa di idromele per suggellare l’unione; l’idromele però era avvelenato, preparato da lei stessa.
Camma ne bevve una lunga sorsata e invitò Synorix a fare lo stesso e dopo che lui ebbe bevuto scoppiò in una risata isterica e si prostrò davanti alla Dea: “Mi sei testimone, è per vedere questo giorno che sono sopravvissuta alla morte di Sinatos, senza trovare nella vita nulla di buono che non fosse la vendetta. Ora che l’ho avuta, torno dal mio sposo.
Per te, più esecrabile degli uomini invece che il talamo nuziale si preparerà la tomba”.

Altre donne sono passate attraverso i filtri censori dei narratori, ma per lo più relegate nel mito come Fedelma druidessa e consigliera della regina Medb della corte di Connacht, la quale le predisse la vittoria su Cu Chulainn e le confermò i poteri di Scathach colei che aveva addestrato Cu Chulainn alle armi.


L’introduzione della religione cristiana viene indicata dalla professoressa Margaret Minor come la fine dell’egualitarismo della società celtica.
Le donne non poterono più avere alcun ruolo di potere e furono obbligate a “rientrare nei ranghi”
“le donne druido furono ridotte, nelle storie antiche, al rango di figure demoniache simili alle streghe” (Ellis, Celtic women, p.221).

I cimiteri di Lankhills e Winchester contengono resti di donne anziane datati circa 4 sec. d.C.; prima di essere tumulate queste donne venivano decapitate e la testa posta in mezzo alle gambe.

La tomba di Vix
La tomba trovata a Vix in Francia ha scatenato molte discussioni sul ruolo della donna nella società celtica. La tomba è datata tra il VI e il V secolo a.C. e se per alcuni è semplicemente la tomba di una principessa, altri hanno affermato essere una druidessa, è certo comunque, data l’opulenza dei reperti, che in effetti la donna avesse raggiunto alti livelli di autorità all’interno della sua comunità. Molti gioielli d’oro sono stati ritrovati indossati dalla donna e che erano segno, anche per le forze dell’altro mondo, che la persona era di elevato rango sociale. Ed è soprattutto per questa ragione che si potrebbe facilmente sostenere la teoria che fosse anche una druidessa di grande potere, tanto da doverlo esibire anche agli dei in una vita successiva.
Nell’area di Vix successivamente sono stati ritrovati diversi altri tumuli eretti in onore di principesse (es. il tumulo di Sainte-Colombe), tutte riccamente agghindate con importanti gioielli, tanto da far dire al prof. Moscati che in alcuni casi risultano “persino più magnifiche di quelle della maggioranza dei capi guerrieri loro contemporanei” (I Celti – S. Moscati - Bompiani 1991).




La donna celta


Come vivevano le antenate delle attuali donne europee?
Pur essendo quella celtica una civiltà di origine indoeuropea come quelle greca, romana, germanica, slava, trace, iberica, armena, iranica e ittita, e molte altre, il ruolo della donna ed il suo peso sociale all'interno di queste culture era spesso profondamente diverso.
Lontana dall'essere confinata come le sue contemporanee romane nel gineceo o ridotta in schiavitù come in certe civiltà poligame, la donna celta godeva di ampie libertà e i suoi ambiti erano considerati tanto privati che neanche i curiosi storici greci ebbero la possibilità di esservi ammessi. Ma da Diodoro Siculo sappiamo per esempio che esse erano tanto coraggiose e altezzose quanto gli uomini, e Ammiano Marcellino rende ancora meglio questa idea di nobiltà e forza affermando che intere schiere di guerrieri non avrebbero potuto tener testa ad un solo gallo che avesse chiamato in suo aiuto la moglie!
Che le donne celtiche fossero anche temibili regine e guerriere ce lo conferma anche lo storico romano Dione Cassio con la descrizione della celebre Boadicea, che guidò i britanni in una coraggiosa rivolta contro i romani: "Boudicca era alta di statura, con uno sguardo che incuteva paura, una voce roca e una massa di capelli rosso brillante che le scendeva fino alle ginocchia. Portava una collana d'oro dagli anelli intarsiati, una veste variegata e, sopra questa, un manto chiuso da una fibbia. Stringeva nella mano una lunga lancia, che incuteva timore a quanti la osservavano". Boadicea diede filo da torcere agli invasori conquistando diverse oppida romane come Colchester, sede del governatorato, distruggendo Londinum (Londra), occupando Verulasimium (St. Albans nell'Hertshire) e quando le cose girarono al peggio si diede la morte per veleno, negandosi al nemico per entrare nella leggenda.
La donna celta aveva proprietà e domini, che manteneva anche in caso di divorzio (la società celtica di 25 secoli fa già contemplava questa istituzione) e che all'interno del matrimonio le potevano anche permettere di essere l'elemento dominante della coppia. Ciò nonostante era in vigore presso alcune rare popolazioni il sacrificio rituale della sposa in caso di morte del marito, soprattutto se quest'ultimo era di alto rango, allo scopo di condividerne il destino nell'aldilà. Un esempio di questo costume lo si trova nel campo funerario di Hohmichelle, nella Germania meridionale.
Il matrimonio era, infatti, soprattutto un contratto che legava due famiglie o due domini e non una questione di sentimenti, tant'è che nell' irlandese precristiano lo stesso termine che designava sia il matrimonio che il contratto era "caratrad", che significava "amicizia". L'attuale termine "pòsadh" per indicare il matrimonio infatti deriva dal latino "sponsus", mentre il termine utilizzato allora per indicare l'amore era "serg", ovvero "languore", ma anche "malattia" ad indicare una vera e propria affezione dell'animo. Il letto era insomma per la donna celtica non tanto un luogo di piacere quanto quello del dovere coniugale. E' interessante notare che per quanto riguarda il costume del matrimonio, presso i celti non esisteva l'equivalente della "conferreatio" romana e non vi erano esigenze riguardo la purezza, o verginità, della sposa od altre qualità particolari.
Nelle società indo-europee la monogamia era un regola giuridica che non conosceva eccezioni, benché il concubinaggio, che comunque non metteva mai in causa il patrimonio individuale della sposa, e la poliandria, cioè la possibilità per una donna di avere più amanti, erano conosciuti, praticati a volte per per necessità e più o meno tollerati. Ciò in effetti rispondeva soprattutto ad esigenze di sopravvivenza, poiché spesso gli uomini, decimati da guerre continue, erano in numero talmente esiguo che allo scopo di assicurare la continuità di certe famiglie come di certi clann e la sopravvivenza stessa della tribù dovevano in qualche modo adattarsi ed unirsi in matrimonio con più donne, molto spesso vedove.
Mentre la poliandria, di cui si ha qualche traccia storica, sembrava soprattutto un' usanza sociale in vigore presso alcuni popoli, soprattutto sulle isole, essendo motivo di orgoglio e di grande onore per una fanciulla concedersi di sua spontanea volontà ai guerrieri più coraggiosi.
La posizione della donna celta, che a tutti gli effetti era uguale a quella degli uomini, la poneva però anche nell'obbligo di servire come guerriero, ed a quanto riferitoci dagli autori latini e greci che ne parlarono, queste temibilissime guerriere ispirarono o perlomeno rafforzarono il mito greco delle Amazzoni, senza dimenticare che altre donne guerriero, le celebri Valkirie, erano già presenti da molto tempo anche nella mitologia nordica.
Le guerriere celte continuarono per lungo tempo a combattere anche dopo la conquista romana e a dispetto del cristianesimo. In Irlanda per esempio le donne proprietarie di beni fondiari erano obbligate per legge al servizio di leva e tale costume resistette fino alla sua abolizione con l'editto di Tara nel VII secolo.
Nella mitologia celtica e soprattutto in quella irlandese, di cui ci resta più ampia testimonianza, non è azzardato dire che tra i temi più fecondi vi erano quelli che esaltavano la femminilità, e la stessa letteratura latina e greca è ricca di aneddoti sulla fedeltà, devozione, intelligenza e bellezza delle donne celtiche. Persino Cesare, ben conosciuto per la sua misoginia, esaltò il coraggio e la devozione delle donne che durante gli assedi di Avaricum e Bratuspantium, così come in quello più celebre di Alesia, con il petto nudo ed i seni in vista lo supplicavano di risparmiare le loro città.
Insomma, una figura quella della donna celta che se immaginata come vuole la tradizione, libera, sicura di sé, bellissima e armata di lancia o della grande spada celtica, forse oggi potrebbe incutere qualche fondato timore agli uomini moderni, abituati da molti secoli ormai a una donna sottovalutata e subordinata dalle convenzioni e dalla religioni a ruoli sociali di secondo piano.

martedì 28 settembre 2010







Il druido del sacrificio ed i giovani di Acy-romance




Lo strano caso dei giovani di Acy-Romance e il druido sacrificatore
E’ davanti alla grande costruzione, su una vasta spianata, che sono stati scoperti diciannove giovani uomini inumati, “arrotolati a palla”, la testa tra le gambe, in fosse circ olari poco profonde e abbastanza irregolari. Le cause del decesso non sono conosciute a causa del forte danneggiamento delle sepolture e della distruzione dei crani; solo qualcuno era abbastanza ben conservato da poter determinare la posizione del corpo con precisione… E’ così che si è capito che ogni defunto era stato messo in una cassa, poi calato in un pozzo dove ha soggiornato il tempo necessario (certamente definito) per lo scolamento degli “umori” e all’essicazione dei tessuti.

Una volta riportati in superficie hanno verosimilmente subito una fase di essiccazione in una stanza secca e areata, rendendoli fragili; ciò spiega le perdite e le rotture trovate sugli scheletri. La posizione dei corpi, l’assenza totale di viatico e oggetti personali, a tal punto che si immaginano nudi o leggermente vestiti sono particolarità legate a questi defunti.

Lo scheletro di un altro ragazzo, morto in circostanze violente dato che ha ricevuto un colpo d’ascia sulla parte temporale destra mentre aveva le mani legate sulla schiena, è stato ritrovato dissimulato lungo una parete della casa, parzialmente interrato in un silos. Quando è stato ucciso si trovava inginocchiato piegato in avanti…

Altri uomini, tra cui un adulto maturo, hanno ugualmente beneficiato di una sepoltura singolare. Sono tre, seduti in linea a 4 metri uno dall’altro, in fosse quadrangolari di meno di un metro di lato perfettamente tagliato. Senza alcun dubbio sono stati “mummificati” anche in questo caso prima di essere disposti di fronte al sol levante

La perdita totale di un braccio per uno, delle falangi per un altro, testimonia un’esposizione all’aria aperta piuttosto lunga. E’ dunque allo stato secco che sono stati seppelliti e i corpi hanno conservato la posizione nella quale si sono seccati. Non si può che rimanere stupiti per la similitudine delle posture: denunciano il mantenimento della posizione seduta, il tronco evidentemente mantenuto in verticale per evitare che si piegasse in avanti. E’ la posizione del piccolo personaggio dalle grandi trecce, seduto alla turca , rappresentato su una moneta colata di Rèmes, unica rappresentazione con tale motivo del nord della Gallia…

…Cosa possono avere in comune una ventina di giovani adulti arrotolati, inumati su una spianata, davanti a un grande fabbricato comprendente un pozzo quadrato, un altro messo a morte con un colpo d’ascia poi inumato parzialmente in un silo lungo un fabbricato e tre adulti seduti alla turca nel mezzo di un cortile dalla parte del sol levante?

Tutti sono stati inumati in un periodo in cui l’incinerazione era la regola, inoltre si trovano in posture particolari. Risulta inoltre l’essicazione dei corpi, i primi messi in una cassa calata in un fosso e gli ultimi tre messi a sedere…

Gli inumati di Acy-Romance, ventitre in totale in meno di un secolo (uno ogni cinque anni circa), sono stati seppelliti dentro al villaggio dopo specifici trattamenti, in luoghi privilegiati, associati a costruzioni particolari…”

Questo lo stralcio di un articolo di Bernard Lambot sulle tombe trovate all’interno del santuario di Acy-Romance, tombe che hanno suscitato una sequela di interrogativi; abbiamo alcune certezze: per esempio che per motivi prettamente naturali, la messa in opera di queste pratiche è da ricondurre al periodo invernale, così come sappiamo che le inumazioni in posizione seduta sulla spianata si interrompono nel 100 a.C., è del tutto ignoto invece il motivo di tali strane inumazioni, si può solo ipotizzare, vista la posizione del viso verso il sol levante, il sacrificio ad una divinità solare; un altro importante dettaglio è la rarità del sacrificio umano…come ha detto il prof. Lambot uno ogni cinque anni circa, quindi in circostanze speciali che per il momento ci sono ignote.

Sempre ad Acy-Romance è stata trovata la sepoltura di un druido che si suppone sacrificatore nella cui tomba sono stati trovati alcuni strumenti tra cui un’ascia la cui lama si adatta perfettamente al cranio del giovane sacrificato, dei piccoli secchi con motivi di bronzo e ferro che non sono in alcun modo oggetti di utilizzo domestico e quotidiano e anche delle padelle in bronzo, delle anfore per il vino, come anche una completa panoplia da guerriero: spada, lancia, umbone dello scudo, il tutto rigorosamente piegato e martellato come era usanza rituale.

Ciò ci porta all’evidenza archeologica dell’esistenza in epoca gallica, di persone con incarichi specifici che comprendevano azioni importanti e primordiali quali l’offerta di vino e libagioni, e che utilizzavano utensili come armi, asce e coltelli per l’uccisione di animali e, su periodi particolarmente lunghi, persone…in una parola sacrificatori, i quali però modificarono le loro abitudini sostituendo gli animali alle persone, ben prima dell’invasione di Cesare il quale, probabilmente apprese di queste tecniche da un passo di Posedonio di Apamea giunto in Gallia ben prima dell’inizio della guerra e se ne servì per screditare il nemico.

domenica 26 settembre 2010


La leggenda dell’ Ankou
Il rapporto dei Bretoni con la morte è profondamente influenzato dall’eredità celtica e avvolto da vari riti e leggende legate all’idea di trapasso.

L'Ankou è una rappresentazione della morte sottoforma di "figura scheletrica" tipica della cultura bretone. Tale immagine è molto diffusa in tutta la Bretagna.
La parola "Ankou" significa "angoscia", con questo nome viene indicato solitamente il fantasma della notte.


L'Ankou raffigura uno scheletro che sorregge una pala e una falce.
Se se ne avverte il rumore, o peggio, se lo si incontra, la morte è vicina. La porta dell’inferno freddo e nebbioso in cui l’Ankou attende i morti si trova al Yeun Ellez, nei Monti d’Arrée.

LA LEGGENDA:

Una sera di Natale Fanch ar Floch, un onesto artigiano, fu costretto a mandare la moglie e i figli da soli alla messa per poter finire un lavoro.

"Cerca almeno che la campanella dell'Elevazione non ti trovi ancora al lavoro", gli raccomandò la moglie. Ma era tanto il lavoro che il momento passò e l'uomo era ancora all'incudine.

Sopraggiunse allora uno sconosciuto, con un cappello a larghe falde e gli chiese i suoi servigi indicando una falce col manico storto. "Si tratta solo di un chiodo da saldare", insistette lo sconosciuto.
Fanch eseguì il lavoro e in un battibaleno la falce fu riparata.
"Non vi pagherò in denaro - disse allora lo sconosciuto -. Ma eccovi un avvertimento: andate a coricarvi e, quando vostra moglie tornerà, ordinatele di andare in paese a cercare un prete. Il lavoro che mi avete appena fatto è l'ultimo della vostra vita".
Così al canto del gallo Fanch ar Floch rese l'anima a Dio per aver riparato la falce dell'Ankou e lavorato durante l'Elevazione.
Altri racconti popolari raffigurano l'Ankou su una barca (la barca dei defunti). Si dice che è sconsigliabile vagare intorno alle coste del mare, dopo il tramonto, perché ci si potrebbe imbattere nell'Ankou. La figura è simile a quella di Caronte.
Un'altra leggenda identifica l'Ankou come il cocchiere della Morte che compare solo a coloro che perderanno il dono della vita entro l'anno.
Anche nel linguaggio parlato bretone esiste un modo di dire relazionato all'Ankou: "Non essere ancora pronto per l'Ankou" ovvero "essere lontano dal morire".

sabato 25 settembre 2010


la leggenda del monacello

Nella società contadina il monacello serve a spiegare l'improvvisa ricchezza del vicino ("evidentemente ha strappato il berretto al monacello") e il lamento lussurioso della donna a letto ("il monacello si è infilato nel letto e l'ha oppressa mentre dormiva")
Il monacello è l'ultimo ricordo di una figura del folklore di tutti i tempi e di tutti i paesi. Nelle diverse regioni italiane ha diversi nomi: Farfareddu, Lauro, Fantasima, etc...

Durante il vicereame di Spagna, questa singolare figura di folletto fu addirittura istituzionalizzata. In un decreto del 1587, emanato dal Conte de Miranda, allora Viceré di Napoli, l'infestazione è in qualche modo disciplinata sotto il profilo giuridico. La norma prevedeva che un contratto di locazione si potesse sciogliere, senza preavviso, ad opera dell'inquilino, se questo fosse preso da "timor panico" perché convinto "di essere insidiato da quegli spiriti maligni che a Napoli si chiamano monacelli". In questa circostanza veniva consentito l'abbandono dell'immobile "senza il pagamento" del canone. La singolare disposizione non è da valutarsi, al solito, come una "trovata alla napoletana", bensì come un saggio provvedimento che teneva conto di una convinzione fortemente radicata nella cultura popolare. Le superstizioni, solitamente esaltate dalla fervida fantasia del Sud, si ritrovano identiche al Nord. Il monacello lo rivedremo all'opera in Italia settentrionale e persino in Inghilterra.

venerdì 24 settembre 2010


Beato Ermanno il Contratto Monaco di Reichenau

24 settembre

Altshausen, 18 luglio 1013 - 24 settembre 1054






Nacque il 18 luglio 1013 dal conte Wolfrat di Altshausen, forse della famiglia deiBerholdinger; sua madre si chiamava Hiltrerd,proveniva dalla Borgogna e probabilmente eraimparentata coi Welfen. Non si sa se fosse zoppodi nascita o se lo diventò per una paralisi infantile. A sette anni (1021) cominciò ad andare ascuola, secondo il Bucelino, presso i monaci diS. Gallo di cui avrebbe poi vestito l'abito.
Fu sicuramente professore a Reichenau e atrent'anni entrò a far parte di questo monastero,ricevendovi l'ordinazione sacerdotale. Lavorò finoagli ultimi anni di vita nelle materie a cui era stato iniziato dai suoi maestri, l'abate Bernone ei monaci Kerung e Burcardo: astronomia, poesia,storia, musica e liturgia, nella quale poté svilup-pare appieno il suo talento meritando di essereesaltato come miraculum saeculi e il più modernodei musicisti, non solo perché introdusse una nuovadivisione nel sistema delle note, ma anche perchéinventò una nuova scrittura delle note stesse.
Gli vengono attribuite la Salve Regina, l'Alma Redemptoris mater, l'Ufficio di alcuni santi (Gregorio, Afra, Wolfgango, ecc.) e le Sequenze dellaCroce e della Pasqua (Grates, honos, hierarchia eRex regun, Dei agne); alla liturgia si riferisconoanche i trattati De musica e De monochordo;e opere di indole matematica, tutte di interesse liturgico:
Le opere poetico-didattiche furono scritte daErmanno soprattutto a scopo pastorale per i monaci e lesuore della propria abbazia e di altri monasteri, inmodo speciale quella intitolata De octo vitiis principalibus. Egli ebbe inoltre uno spirito aperto edintento a quanto avveniva, vicino e lontano, nellasua patria. Ebbe la stima dell'imperatore Enrico III e di papa Leone IX, che visitarono Reichenau rispettivamente nel 1048 e nel 1049; così ècomprensibile che abbia scritto due libri sulle gestadi Corrado II ed Enrico III, la Cronaca dellaSvevia, probabilmente lavoro giovanile, e in etàmatura la Cronaca Universale, opera che, prendendo le mosse dalla morte di Cristo (contrariamente all'uso fino ad allora seguito di iniziare lastoria con la morte di Abramo), giunge al 1054.In essa Ermanno per primo sfrutta, elaborandolo scientificamente, materiale tratto dagli annali monastici ed imperiali, vite dei santi, liste episcopali ealtre fonti: la sua esposizione è profonda e precisa, oggettiva ed imparziale, semplice e chiara,con un sicuro intuito dell'essenziale e in un latinoelegante.
Sul proprio tempo il beato scrisse in modo moltocircostanziato. E' probabile che, nonostante le sofferenze e il lavoro, egli debba aver viaggiato molto.Dal discepolo Bertoldo, che ne continuò la Cronaca Universale, venne lodato come paziente, pieno di carità, obbediente, puro, savio, sempre dedito al lavoro e alla preghiera, compassionevole,gentile, come un uomo che si ritenne sempre unpeccatore e pensò sempre alla morte. Ancora oggiviene ammirata l'opera da lui compiuta, tanto piùche ebbe una vita breve, poiché morì all'età diquarantun anni, il 24 settembre 1054. Venne sepolto adAltshausen, ma la sua tomba è oggi sconosciuta.Se ne conservano reliquie ad Altshausen, a Zurigoed altrove. Nel calendario benedettino è ricordato come beato, ma è una celebrazione dovuta alBucelino. Il vescovo di Friburgo dichiarò inammissibile il culto pubblico verso Ermanno come beato, mapermise la continuazione del culto nel territorio incui fino allora vigeva.
Rappresentazioni di Ermanno sono nel coro di Zwiefalten e ad Andechs; in un dipinto del soffittodella distrutta chiesa di Montecassino era raffigurato come Doctor marianus.

giovedì 23 settembre 2010


I LOLLARDI:I PREDICATORI POPOLARI

Contro le ricchezze smisurate e gli abusi della chiesa inglese intervennero, nella seconda metà del XIV sec., i cosiddetti Lollardi, predicatori itineranti popolari, seguaci di Wycliffe ma più radicali, in quanto alle accuse antiecclesiastiche univano anche quelle antinobiliari e antimonarchiche. John Ball infatti incitava i contadini (i cosiddetti "villani") a insorgere, ad abbandonare i feudi, il servaggio e a organizzare reparti armati contro i feudatari, i ricchi mercanti, i funzionari del re, e chiedeva ai salariati e ai garzoni delle corporazioni urbane di appoggiarli.

Il nome Lollardo proveniva da un movimento evangelico nato dopo il 1300 in Olanda (lollaerd significava "salmodiante"), come diramazione dei Begardi.

I Lollardi parteciparono alla rivolta contadina del 1381, capeggiata dal conciatetti Wat Tyler, nell'Essex e nel Kent (contee confinanti con Londra), scoppiata in occasione delle nuove tasse straordinarie che re Riccardo II (1377-1399) aveva imposto per riprendere la guerra contro la Francia.

I contadini devastarono le tenute nobiliari e i monasteri, prelevavano bestiame e beni mobili, incendiavano i documenti riguardanti le obbligazioni dei lavoratori, e molti feudatari furono costretti ad abolire la servitù della gleba, le corvées, a diminuire i tributi.

A Londra, con l'appoggio della popolazione povera della città, incendiarono le case dei consiglieri reali e dei ricchi mercanti stranieri, uccidendo i giudici colpevoli di corruzione e aprendo le prigioni.

Presentarono le loro richieste (Programma di Mile-End, sobborgo vicino a Londra) al re Riccardo II, con cui chiedevano l'abolizione del servaggio, delle corvées, la sostituzione di qualunque rendita in natura con piccoli pagamenti in denaro, l'introduzione del libero commercio in tutta l'Inghilterra e l'amnistia per gli insorti.

Il re accettò e i contadini più agiati tornarono ai loro paesi. Quelli meno abbienti invece, capeggiati da Tyler e Ball, chiedevano col Programma di Smithfield (altro sobborgo presso le mura della città) cose più radicali: confisca delle terre dei vescovi, dei monasteri e dei sacerdoti, ripartizione delle terre tra i contadini, soppressione di tutti i privilegi feudali, uguaglianza dei ceti, abolizione delle leggi sui lavoratori, restituzione delle terre comuni rapinate dai feudatari.

Tuttavia, durante le trattative Tyler fu ucciso a tradimento dal sindaco di Londra. Temendo la rivolta, ai contadini vennero fatte ogni sorta di promesse ed essi se ne andarono. Ma il re ordinò ai cavalieri di tutte le contee di inseguirli e di catturarli, vivi o morti: quelli che si arresero furono impiccati. Anche Ball morì e il Programma di Smithfield fu revocato (la rivolta diede comunque il colpo di grazia al servaggio in natura). I Lollardi saranno condannati dal vescovo Buckingham nel 1394, dopodiché furono sterminati dai roghi.

Teorie religiose dei Lollardi

Le teorie dei Lollardi costituiscono il sostrato culturale di quella Riforma protestante che prenderà il nome di "anglicana". Essendo antiecclesiastici per definizione, essi predicavano che la salvezza non si ottiene dalle opere di fede pubblica ma unicamente dall'osservanza delle leggi di Dio e della preghiera privata. Diffondevano l'uso della Bibbia presso le popolazioni incolte.

Erano contrari al primato del papa sull'intera chiesa e contrari al primato della chiesa di Roma su quella europea, nonché a qualunque venerazione di santi e teologi (specie quelli posteriori al Mille) che non avessero messo in discussione i suddetti primati.

Giudicavano "simoniaca" la chiesa romana ed erano contrari alla vendita delle indulgenze, ma anche a qualunque forma di devozione liturgica che utilizzasse mezzi o strumenti religiosi come oggetti magici, aventi cioè proprietà intrinseche, quindi erano contrari all'efficacia oggettiva dei sacramenti e, se vogliamo, a qualunque forma di oblazione connessa all'esercizio dell'amministrazione dei sacramenti. Respingevano il celibato del clero.

In tal senso predicavano la fine della chiesa come società organizzata in maniera istituzionale e politica: ecco perché erano favorevoli al dualismo di cristiano e cittadino (borghese) e alla nascita di piccole comunità autonome in cui fosse scongiurata la politicizzazione della fede. Tali comunità dovevano agire l'una in modo indipendente dall'altra, per ognuna delle quali il motivo dello stare insieme non era solo quello religioso, ma anche quello della tutela di interessi comuni, territoriali. Non accettavano i ruoli istituzionali ipostatizzati, l'inamovibilità delle funzioni, la gerarchizzazione dei ruoli. Non escludevano l'uso della violenza contro le istituzioni, anche se condannavano la guerra e la pena di morte.

Susanna Berti Franceschi

mercoledì 22 settembre 2010


San Lazzaro



Il nome Lazzaro ha all’origine l’ebraico Eleazaro e significa “colui che è assistito da Dio”. Il Lazzaro di cui parliamo è il personaggio della parabola raccontata da Gesù del ricco epulone e del povero mendicante lebbroso.

Questa parabola riportata solo nel Vangelo di San Luca (16, 19-31) è l’unica in cui un personaggio di fantasia abbia un nome: Lazzaro. Ma come è avvenuto per vari personaggi minori, che compaiono nei racconti evangelici e che in seguito nella tradizione cristiana hanno ricevuto un culto, un ricordo perenne, un titolo di santo, anche per Lazzaro, pur essendo un personaggio protagonista di un racconto di fantasia (da non confondere con Lazzaro di Betania resuscitato da Gesù), nel corso del tempo si è instaurata una devozione, come se fosse stato un personaggio realmente esistito.

È chiaro che la parabola di Gesù contiene in sé un insegnamento universale e molto sentito, specie in quei tempi. Essa è raccontata per mostrare, ai farisei e a tutti gli avari, dove portano le ricchezze usate per soddisfare il proprio egoismo.

“Vi era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e ogni giorno faceva splendidi banchetti. Un mendicante di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco e nessuno gliene dava; perfino i cani venivano a leccargli le piaghe. Ora avvenne che il povero Lazzaro morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo.
Morì anche il ricco epulone e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del suo dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura”.
Ma Abramo rispose: “Figlio ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato, mentre tu sei tormentato e per di più fra noi e voi è stato fissato per sempre un grande abisso, di modo che quelli che volessero di qui passare e venire a voi non possono, né da lì si può attraversare fino a noi”.
Allora egli soggiunse: “Ti prego dunque, o padre, di mandarlo a casa del padre mio, perché ho cinque fratelli; li ammonisca perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro”, ma egli insisté: “No, padre Abramo, se però qualcuno dei morti andrà da loro, si ravvederanno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti”.

La celebre parabola, riportata solo da Luca del ricco epulone e del misero Lazzaro, è un’antitesi che da sociale diventa anche religiosa, esaltando la povertà come modello di protezione divina. In essa si considera la figura di Lazzaro, che nel suo umiliante e penoso stato di mendicante e ammalato ha pazienza, anche davanti allo sprezzante trattamento che riceve dal ricco gaudente, pensando al Paradiso (seno di Abramo) che Gesù ha promesso ai poveri di spirito.

Perciò il Signore, che vede l’animo, appena morto lo fa trasportare in trionfo dagli angeli nella beatitudine eterna. Ora questo rivela come egli sopportava il suo stato, con rassegnazione unita alla speranza del Paradiso, fiducioso in Dio, Padre di tutti, che premia i buoni, anche se poveri e mendicanti.

San Giovanni Crisostomo, parlando di Lazzaro esclama: “Chiunque voi siate, o ricchi o poveri, l’avete visto disprezzato nel vestibolo dell’epulone, miratelo ora radiante nel seno di Abramo; l’avete visto quando giaceva attorniato da cani che gli leccavano le piaghe, contemplatelo ora circondato da angeli; l’avete visto nella fame, contemplatelo nell’abbondanza di ogni bene, l’avete visto nella lotta, osservatelo vincitore incoronato, avete visto i suoi travagli, miratene il premio.”

La parabola ci dà lo spunto per tante altre riflessioni che non possiamo qui, per motivi di spazio, approfondire: la sepoltura splendida del ricco, similitudine del seno di Abramo con il Paradiso cristiano, l’esistenza del tormento infernale, l’impossibilità di passare dai morti ai vivi, dalle anime elette alle anime in tormento, private perciò della visione e della beatitudine di Dio, l’incitamento a seguire gli insegnamenti provenienti da persone incaricate da Dio, di trasmettere le Sue volontà e leggi, senza aspettare prove straordinarie per credere.

La figura di Lazzaro e la scena del banchetto ha sempre ispirato la fantasia degli artisti, che in tutti i secoli lo hanno raffigurato, contribuendo così a innalzarlo a un simbolo della povertà e della sofferenza, premiate da Dio, quando accettate con rassegnazione e speranza nella Sua Divina Misericordia.

Per questo Lazzaro venne considerato come un santo, anche se la sua figura era in realtà fantasiosa ma simbolica. Il moderno Martirologio Romano non ne fa più menzione.

Egli è stato considerato il patrono dei lebbrosi quando la lebbra era una malattia molto più diffusa di oggi in tante parti del mondo. Dal suo nome scaturì la denominazione del lazzaretto, sorta di ricovero e cura per i lebbrosi o malati infettivi da tenere in isolamento. Infatti il primo di questi lazzaretti sorse a Venezia nell’isola di San Lazzaro.

Il nome Lazzaro è oggi poco usato e comunque chi lo porta si riferisce certamente ad altro San. Lazzaro (Lazzaro di Betania, oppure il martire principe serbo Lazzaro). In Spagna poi Lazzaro ha finito per assumere un significato peggiorativo come ‘pezzente’, da cui derivò a Napoli il termine ‘lazzarone’ introdotto al tempo dell’occupazione spagnola e di Masaniello, sempre indicante uno straccione, popolano, mascalzone, pezzente.
S.B.F

domenica 19 settembre 2010


Malleus Maleficarum

[Tratto da "L'Inquisizione" di Michael Baigent e Richard Leigh, Marco Tropea Editore, Milano ~]


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Per secoli, la Chiesa conservò un atteggiamento piuttosto confuso nei riguardi della stregoneria.
La maggior parte dei sacerdoti, soprattutto nelle zone rurali, era poco istruita e assai simile ai parrocchiani, dei quali condivideva la fede indiscussa nella realtà della stregoneria, nella possibilità che un'anziana donna del villaggio esercitasse poteri occulti, mandasse in rovina un raccolto, causasse malattie al bestiame e, addirittura, che fosse responsabile di tutte le morii apparentemente senza spiegazione. Che osservassero o no il voto di celibato, non dovevano sapere granché in tema di ginecologia e molti provavano repulsione per quelle che dovevano sembrar loro le impure complicanze del corpo femminile. Per il suo modo di affrontare quei problemi, per la fiducia e la sicurezza che ispirava alle altre donne, l'anziana del villaggio, quasi quotidianamente, metteva il prete di fronte alla prova pratica ed evidente della sua inadeguatezza e inferiorità. Per quei sacerdoti, quindi, la stregoneria era una realtà inconfutabile, una realtà che favoriva rivalità e risentimento.
Per tutto il XV secolo, però, il dogma ufficiale della Chiesa negò la realtà della stregoneria. I raccolti danneggiati, le epidemie di bestiame, le morti inspiegabili potevano essere attribuiti all'opera del diavolo o a cause naturali, ma non a una donna del villaggio. Per quanto riguardava la Chiesa, la stregoneria era una menzogna divulgata dal diavolo. Il peccato, perciò, consisteva non nella stregoneria, ma nel credere a essa e nelle pratiche legate a tale credenza, poiché era a causa di questa che la strega ha abbandonato il cristianesimo, ha rinnegato il battesimo, ha adorato Satana come suo Dio, si è concessa a lui anima e corpo e vive unicamente per essere il suo strumento nel compiere il male [...] che egli può attuare soltanto tramite un agente umano (Lea, H.Ch., A History of the Inquisition of the Middle Ages).
Era dal IX secolo che la Chiesa dichiarava frutto di fantasia i racconti di streghe che volavano durante ì Sabba; tuttavia, chiunque ci credesse, era accusato di allontanarsi dalla fede e, quindi, considerato "infedele e pagano". Questo atteggiamento sarebbe più tardi diventato un articolo della legge canonica: sì riteneva che chi credeva nella stregoneria avesse perso la fede e ceduto a un inganno e dunque doveva essere considerato eretico.
Intorno alla metà del XV secolo la posizione della Chiesa cominciò a cambiare. Nel 1458 un inquisitore, certo Nicholas Jaquerius, sostenne che "la setta delle Streghe" dell'epoca non aveva niente a che vedere con gli eretici citati nei relativi articoli della legge canonica; perché il potere che aveva era concreto, e non doveva essere semplicemente archiviato come una fantasia. Nel 1484 la Chiesa fece un globale, spropositato voltafaccia: una Bolla papale capovolse la posizione precedente e riconobbe ufficialmente la stregoneria come entità reale. Nella Bolla, il pontefice dichiarava:

[...] Recentemente, è infatti arrivato alle nostre orecchie, non senza procurarci grande pena, che in certe regioni della Germania settentrionale, come pure nelle province, città e territori di Magonza, Colonia, Treviri, Salisburgo e Brema, numerose persone dell'uno e dell'altro sesso, incuranti della loro salvezza e deviando dalla fede cattolica, si sono abbandonati a demoni, succubi e incubi, e facendo ricorso ad incantesimi, sortilegi, congiure, altre infami attività superstiziose e pratiche magiche, hanno sgozzato bambini ancora nel grembo della madre, vitellini e bestiame, hanno fatto seccare i raccolti, reso uomini impotenti e donne sterili, di modo che i mariti non potessero andare con le mogli e le mogli non potessero ricevere i loro mariti [...] (Bolla di Innocenzo VIII, "Summis desiderantibus affectibus", 1484).

Sette anni dopo, nel 1491, dall'università di Colonia fu diramato un documento con la notifica che qualunque affermazione contro la realtà della stregoneria, "sarebbe incorsa nella colpa di ostacolare l'Inquisizione".
Con maggiore tortuosità retorica, quella stessa concezione veniva resa, poco tempo dopo, inappellabile dall'inquisitore della città di Como, il quale sosteneva:

Numerose persone sono state arse per aver preso parte al Sabba, la qual cosa non si sarebbe potuta fare senza l'assenso del papa, nel che consiste la bastevole prova che l'eresia era reale, perché la Chiesa punisce soltanto le colpe evidenti (Lea, H.Ch., A History of the Inquisition of the Middle Ages).

Secondo uno storico moderno:

Insoddisfatti delle semplici accuse di stregoneria, e del fatto che a essa si facesse risalire qualsiasi pratica di magia, i giudici volevano ora rappresentare lo stregone come appartenente a una cospirazione demoniaca contro la religione e i suoi fedeli. Lo stregone, dedito a mirate e singole azioni di malvagità rivolte nemici particolari, cedeva il passo a una confraternita di streghe impegnata nella distruzione della cristianità (Kieckhefer, Magic of the Middle Ages).

In passato credere nella stregoneria era un eresia; ora improvvisamente, diventava un'eresia non crederci.
Si era instaurato un meccanismo automatico attraverso il quale per chiunque la Chiesa avesse riconosciuto come nemico non ci sarebbe più stata via di scampo. Si creò un clima generalizzato di sospetto. E potevano essere cercati dei capri espiatori anche per rispondere dei disastri naturali, esonerando in tal modo sia Dio che il diavolo. Data l'accesa misoginia degli inquisitori, quei presunti responsabili erano quasi sempre donne.

Nella Bolla del 1484, che dava ufficialità alla stregoneria papa Innocenzo VIII faceva due nomi:

E anche se i nostri diletti figli, Heinrich Kramer e Johann Sprenger [...] sono stati delegati come inquisitori con lettera apostolica [...] decretiamo che ai suddetti inquisitori venga data potestà di giusta riprensione, incarcerazione e punizione di chiunque, senza permesso e senza limitazione (Bolla di Innocenzo VIII, "Summis desiderantibus affectibus", 1484).

Heinrich Kramer era un domenicano che, intorno al 1474, era già stato nominato inquisitore per il Tirolo e per la città di Salisburgo, dove fu direttore spirituale della chiesa domenicana. Nel 1500 sarebbe stato nominato nunzio apostolico e inquisitore per la Boemia e la Moravia. Il suo collega, Johann Sprenger, anche lui domenicano, era il priore del convento dell'ordine, a Colonia. Nel 1480 divenne preside della facoltà di teologia, un anno più tardi fu nominato inquisitore delle province di Colonia, Magonza e Treviri e, nel 1488, fu messo a capo dell'intera regione.
Intorno al 1486, due anni dopo essere stati citati dal papa, Heinrich Kramer e Johann Sprenger pubblicarono un libro che rappresenta certamente una delle opere più miserabili - nel senso più profondamente morale del termine - e indegne dell'intera storia della civiltà occidentale. Il suo titolo era Malleus Maleficarum (Il maglio delle streghe), in riferimento alla pesante mazza che sarebbe stata usata per schiacciarle e, davvero, con le sue cinquecento e più pagine, il libro rappresenta, anche nell'edizione moderna, un pesantissimo maglio. Nel 1520, appena trentaquattro anni dopo la sua uscita, era ormai talmente popolare, da avere raggiunto la tredicesima edizione; anzi, le ristampe si sono susseguite fino ai giorni nostri e, cosa davvero aberrante, ci sono ancora persone che lo prendono sul serio. Nel 1986 è stato nuovamente tradotto in inglese ed esaltato con un entusiastico panegirico da Montague Summers, un eccentrico aspirante esorcista, autonominatosi esperto di vampiri e di lupi mannari. Secondo Summers, il Malleus è "uno dei più importanti e ponderosi libri del mondo". Nel caso tale lode possa apparire tiepida e modesta, Summers aggiunge:

È un'opera che cattura irresistibilmente l'attenzione di tutti coloro che pensano, vedono, o stanno cercando dì vedere, la realtà ultima che sta alla base degli eventi della materia, del tempo e dello spazio.

Non esitando a entrare nei sinistri e spesso pornografici particolari, il Malleus si incarica di descrivere tutte le supposte manifestazioni di stregoneria, nella pretesa di rappresentare un esaustivo manuale fai-da-te non solo per gli inquisitoli, ma anche per giudici, magistrati e autorità secolari di ogni livello, e, per estensione, per qualunque cittadino abbastanza anormale da trovare una ragione o una "sragione" sufficiente a fargli sospettare la presenza di stregoneria attorno a sé. Ma, in verità, il libro sembra piuttosto rappresentare un compendio di psicopatologia sessuale e l'illuminante descrizione di una sfrenata fantasia deviante. Con un'ossessività che salterebbe immediatamente agli occhi di qualunque psicologo moderno, il testo si concentra o, meglio, si fissa in modo maniacale sulla copulazione con il diavolo, su congiungimenti carnali con incubi e succubi, e su varie altre forme di esperienze erotiche e di attività (o di passività) sessuale, che un'immaginazione malata attribuisce alle forze demoniache. Inoltre, offre tecniche di diagnosi e prognosi delinea procedure terapeutiche e punizioni riabilitatone, fornisce formule e ricette per gli esorcismi, e tutto ciò con classico spirito e ambizione enciclopedici. Effettivamente, per gli inquisitori, e non solo per loro, divenne una specie di surrogato della Bibbia. Come dice Montague Summers - una volta tanto, a ragione - nella sua mal riposta apologia, il Malleus

si trovava sul banco di ogni giudice e sullo scrittoio di ogni magistrato: era l'autorità ultima, irrefutabile, indiscutibile. Veniva riconosciuto non solo dall'assemblea legislativa cattolica ma anche da quella protestante.

Il Malleus inizia affermando esplicitamente:

La credenza che le streghe esistano è una parte talmente essenziale della fede cattolica, che sostenere ostinatamente l'opinione opposta sa manifestamente di eresia.

Si tratta evidentemente di un'eco della Bolla papale del 1484, che rovesciava la precedente opinione della Chiesa riconoscendo ufficialmente l'esistenza della stregoneria.
Avendo esposto le sue premesse di base, il Malleus procede nella sua esposizione:

Questo è ciò che proponiamo: i diavoli, con le loro arti, causano alcuni effetti per mezzo della stregoneria, eppure è vero che senza l'assistenza di un qualche mediatore, non possono fare niente [...] non sosteniamo che possono causare danni senza l'assistenza di un mediatore, ma che per suo tramite possono portare infermità, e qualunque altra pena, e che tutto ciò è reale.

In altre parole, le forze demoniache sono prive di poteri autonomi e possono fare il male solo tramite un agente umano. Di conseguenza, sono gli esseri umani i veri colpevoli delle sventure che prima venivano attribuite o all'imperscrutabile volontà divina, o all'attività della natura, o alla malvagità del demonio; tutte cose al di fuori della portata dell'Inquisizione. Ma ormai, per qualsiasi infortunio nell'ordinato funzionamento dell'esistenza, ci sarebbe stato un colpevole da punire.
Secondo l'ardita logica del Malleus, le streghe al massimo del loro potere possono provocare tempeste di pioggia o di grandine, invocare i fulmini e farli cadere su uomini e animali, causare la peste e uccidere neonati per offrirli in sacrificio alle forze diaboliche. Quando nessuno le vede, possono far cadere i bambini nei corsi d'acqua e farli affogare; possono far impazzire un cavallo mentre ha in groppa il cavaliere, suscitare negli uomini un amore forsennato o un odio furibondo; possono uccidere persone e animali con uno sguardo, il famoso "malocchio"; possono rivelare il futuro e volare "con il corpo o con la mente".
Il Malleus ammette che alcuni inquisitoli si dimostrano eccessivamente prudenti nel punire, per la paura di aggressioni o vendette del demonio contro di loro. Perciò fa un tentativo, in verità debolissimo, per essere rassicurante, affermando che le streghe

non possono causare ingiuria agli inquisitori o ad altri funzionari perché essi sono i dispensatori della pubblica giustizia. Si potrebbero addurre molti esempi come prova, ma il tempo a disposizione non lo permette.

Il tempo era davvero poco: gli autori del Malleus dovevano ancora scrivere cinquecento pagine per sviluppare le loro tesi. Perciò si limitarono a offrire un altro briciolo di rassicurazione:

Ci sono tre classi di uomini benedetti da Dio, a cui quella razza detestabile non può fare del male con la propria arte diabolica. La prima è quella di coloro che amministrano la giustizia contro i mediatori del demonio, e per l'autorità del proprio ufficio li perseguono. La seconda è quella di coloro i quali, secondo i riti tradizionali e santi della Chiesa, fanno legittimo uso del potere e della virtù che la Chiesa tramite il suo esorcismo concede con l'aspersione dell'acqua santa, con l'offerta del sale consacrato, con l'accensione delle candele benedette [...] la terza classe è quella degli uomini che, in modi diversi e innumerevoli, sono benedetti dai santi angeli.

In altre parole, anche la Chiesa si serve di superstizioni, di pratiche e di rituali magici, ma essi sono sostanzialmente rispettabili proprio perché nella Chiesa hanno la loro derivazione. Nei "santi angeli" la Chiesa riconosce i propri misteriosi e incorporei alleati, che sono immensamente più potenti dei misteriosi e incorporei alleati della strega:

Perché gli esorcismi della Chiesa hanno lo scopo preciso, essendo rimedi assolutamente efficaci, di difendere se stessi dalla malvagità delle streghe.

Il Malleus è pragmaticamente, anzi, psicoticamente, misogino. Per quanto coraggiosi potessero mostrarsi nella lotta contro i poteri invisibili, gli autori avevano un terrore delle donne che rasentava la follia; le consideravano intrinsecamente deboli e, per definizione "peccatrici". La donna "è un animale imperfetto, che inganna per natura";"incline a vacillare in materia di fede religiosa", "istintivamente bugiarda", "bella a guardarsi, contaminante a toccarsi e mortale a possedersi"; è biasimevole in tutto, perché "ogni stregoneria deriva dal desiderio carnale, che nella femmina è insaziabile".
Se tutte le donne avvenenti suscitavano un particolare sospetto, lo stesso avveniva per le levatrici, per la loro intima conoscenza ed esperienza di quelli che gli inquisitori consideravano i misteri femminili. Era credenza comune che i bambini nati morti fossero in realtà stati uccisi dalla levatrice come sacrificio al demonio. Anche quelli deformi, sfigurati, malati, o anche solo irrequieti, erano frutto dell'azione magica della levatrice. Grazie alla fiducia che ispirava nelle altre donne, e per la concorrenza che faceva all'autorità del prete, la levatrice era un bersaglio ideale; era proprio su di lei che l'inquisitore poteva fare pratica, poteva affilare e perfezionare impunemente le proprie inclinazioni depravate.
Il Malleus è spietatamente inflessibile con le ragazze sedotte e abbandonate;

Quando una giovane è stata corrotta, ed è stata disdegnata dal suo amante dopo che ha copulato con lui senza pudore nella speranza e con la promessa di matrimonio, e si è ritrovata delusa in tutte le sue speranze e sprezzata da tutti, si rivolge all'aiuto e alla protezione dei diavoli.

Naturalmente, il seduttore non è stigmatizzato in alcun modo e, anzi, fa intendere il Malleus, è una vittima potenziale della stregoneria.
Il libro non esita a interpretare come stregoneria qualunque tipo di comportamento che gli autori non riescano a spiegarsi: gli effetti di una droga, come la cornuta o i "funghi magici", o la masturbazione, o una sensuale esposizione di nudità.

Spesso le streghe sono state viste sdraiate sulla schiena nei prati o nei boschi, nude sino all'ombelico, ed era evidente dalla disposizione degli arti e degli organi relativi alle parti veneree e all'orgasmo, come anche dal movimento delle gambe e delle cosce, che stavano copulando con i demoni noti come Incubi, anche se questi erano invisibili agli astanti.

Il libro offre anche una spiegazione razionale, che deve aver lenito l'orgoglio ferito di molti mariti traditi:

È pur certo che possa essersi verificato quanto segue. Vari mariti hanno effettivamente visto un Incubo accoppiarsi con la propria moglie, anche se in un primo momento hanno ritenuto che non si trattasse di un diavolo ma di un uomo. E quando hanno afferrato un'arma, per cercare di trapassarlo da parte a parte, il diavolo è improvvisamente scomparso, rendendosi invisibile.

Il Malleus cita altre presunte manifestazioni e pratiche stregonesche. Menziona l'uccisione di bambini, con conseguente cottura e consumo delle loro carni. Descrive i vari modi in cui le streghe si legavano alle forze demoniache. Discute della pratica di infilare spilli in immagini di cera. Più volte, con fissazione ossessiva, torna su argomenti sessuali. Non di rado le ossessioni sessuali si trasformano in fantasie farneticanti; per esempio, si racconta di

streghe che [...] raccolgono organi maschili in gran numero, fino a venti o trenta membri insieme, e li mettono nel nido di un uccello, o li chiudono in una scatola, dove si muovono come vivi, e vengono nutriti a orzo e grano.

Immagini come queste vengono attribuite a un'illusione demoniaca, causata "dalla confusione procurata all'organo della vista mediante la trasformazione dell'immaginazione mentale in facoltà visiva", tuttavia, non possiamo fare a meno di chiederci se gli autori dell'opera, anche solo per concepirle, non abbiano fatto uso essi stessi di sostanze allucinogene, oppure se non disponessero di una fantasia persino più tormentata e anomala di quella di Hieronymus Bosch.
Il Malleus è particolarmente ossessionato dai rapporti sessuali con le entità demoniache immateriali: incubi, quelle maschili, e succubi, quelle femminili. Il frutto di queste copule con demoni incorporei erano le polluzioni notturne; di conseguenza, gli autori si preoccupavano molto dello sperma. Usando dettagli clinici, esaminano il problema dell'effettiva materialità dell'atto sessuale dei demoni, cioè se esso "sia sempre accompagnato dall'emissione di sperma". In caso affermativo, si interrogano sulla provenienza dello sperma, se sia di sostanza demoniaca o se sia stato rubato a una creatura mortale. Si passa poi a un attento esame qualitativo: con quale criterio vengono scelti gli uomini a cui trafugare il seme? Lo sperma emesso in una polluzione "innocente" può essere raccolto dai demoni e, per così dire, riciclato? Nessuna possibilità è lasciata senza approfondimento.
Per gli autori del Malleus, la pratica sessuale con entità incorporee era una trasgressione terribilmente grave ed empia, perché rappresentava una blasfema parodia del concepimento di Gesù nel seno di una Vergine, a opera dello Spirito Santo. Quattro secoli dopo, il romanziere Joris-Karl Huysmans sarebbe ritornato sull'oscuro, innominabile e, alla fin fine, imperdonabile "peccato contro lo Spirito Santo'. Quel peccato, per il quale si diceva che non ci fosse possibilità di perdono, e la cui natura era sempre stata scrupolosamente tenuta segreta dalla Chiesa, Huysmans volle identificarlo con la parodia sacrilega della nascita del Bambino dalla Vergine, implicita nell'accoppiamento con un'entità immateriale. Quasi certamente aveva ragione, ma quel terribile segreto poteva, in fondo, non essere tale. Nel Dottor Faust di Marlowe, per esempio, scritto quando il Malleus, pubblicato per la prima volta solo un secolo prima, era ancora largamente in uso, Faust si serve di fattori demoniaci per evocare l'ombra di Elena di Troia, qualificata come succubo. Ed è solo dopo essersi congiunto sessualmente con lei che il suo fato si compie ed egli è irrevocabilmente dannato.
L'Inquisizione, armata del Malleus Maleficarum, instaurò un regno di terrore in tutta l'Europa. Nelle inchieste e negli interrogatori, la regola che veniva applicata alle prove era semplicissima: qualunque fatto su cui giurassero due o tre testimoni veniva accettato come vero e anche come definitivamente provato. Si faceva largo uso di domande trabocchetto, escogitate allo scopo di raggirare sia il sospettato che il testimone. Per esempio, la domanda poteva essere

se credeva o no che esistesse la stregoneria, e che si potessero scatenare tempeste o affatturare uomini e animali. È da notare che, inizialmente, la maggior parte delle streghe affermava di no.

Se la persona imputata negava di crederci, la domanda successiva arrivava con la violenza di una trappola che scatta: «Allora, le streghe bruciate sono state condannate ingiustamente? E il malcapitato, o la malcapitata, era costretto a dare una risposta». E neanche importava quale fosse, perché la colpevolezza era certa, dal momento che non credere nella stregoneria era già di per sé un'eresia.
Quando una strega veniva arrestata, si prendevano complicate precauzioni per neutralizzare i suoi poteri: per negarle il contatto con la terra, e attraverso di essa con le regioni infernali, veniva trasportata tenendola sollevata su un'asse di legno oppure in un cesto; quando si trovava davanti al giudice doveva rimanere voltata di spalle: in tal modo le era impossibile qualunque tentativo di ammaliarlo con lo sguardo; e sia i giudici che il personale coinvolti nel processo, "non dovevano lasciarsi toccare da lei e, particolarmente, dovevano fare in modo di non venire in contatto con le sue braccia o le sue mani nude". Ai giudici veniva anche consigliato di portare al collo, appesi a un laccio o a una catenella, erbe benedette e sale consacrato durante la domenica delle Palme, sigillati in una speciale cera, anch'essa benedetta. Nonostante le ripetute rassicurazioni di immunità, era sempre meglio non correre rischi.
Il processo veniva portato avanti con una conoscenza piuttosto sofisticata della psicologia. Le tecniche impiegate riflettevano la notevole esperienza acquisita nell'ottenere e nell'estorcere informazioni. Gli inquisitori sapevano che la mente dell'indagato spesso era il suo peggior nemico, che la paura nasce nella solitudine e nell'isolamento, e che spesso può produrre risultati soddisfacenti quanto la violenza fisica. Così, la paura della tortura, per citare l'esempio più ovvio, veniva provocata e alimentata fino a che non si trasformava in uno stato talmente parossistico di panico da vanificare la necessità della tortura stessa. Se l'accusato non confessava subito, gli veniva detto che sarebbe seguito un interrogatorio sotto tortura, però solo dopo un certo periodo di tempo. Il Malleus consiglia

che l'accusato sia denudato o, se è femmina, che venga prima condotta nelle celle penali e lì denudata da donne oneste e di buona reputazione.

Successivamente, i giudici potevano "interrogarla con moderazione, senza spargimento di sangue", ma solo

dopo avere tenuto l'accusata in uno stato di attesa, rinviando continuamente il giorno dell'interrogatorio, e usando spesso la persuasione verbale.

L'inquisitore era incoraggiato a utilizzare una strategia che è oggi ben nota, quella di un poliziotto "inflessibile" e di uno "malleabile"

che ordini agli incaricati di legarla con corde a una macchina di tortura; e che essi obbediscano prontamente ma non con gioia, anzi mostrando di essere turbati dal loro compito. Che venga poi liberata di nuovo, portata da un'altra parte, e che si provi ancora a persuaderla; e nel persuaderla, le si dica che può evitare la pena di morte.

Il Malleus consiglia una palese doppiezza: a un'accusata si poteva anche promettere la vita, ma la vita sarebbe stata in carcere, a pane e acqua.

E che non le si dica, quando le si promette la vita, che così sarà messa in prigione; ma venga condotta a credere che le sarà imposta qualche altra penitenza, come l'esilio.

Comunque, per ottenere quelle dubbie concessioni, doveva denunciare e rivelare l'identità di altre streghe. Del resto, si affretta a chiarire il Malleus, la promessa di avere salva la vita non doveva essere davvero mantenuta: non c'era alcun obbligo di rispettare la parola data a una strega. Molti inquisitoli infatti

pensano che, dopo essere stata messa in carcere, la promessa di risparmiarle la vita dovrebbe essere mantenuta per un po', ma dopo un certo periodo la donna dovrebbe essere bruciata.

O, in alternativa,

il giudice può promettere, senza rischi, la vita all'accusata, ma in modo tale da liberarsi dell'incombenza di pronunciare la sentenza di morte, deputandola a un altro giudice al posto suo.

Quando una strega veniva riportata in cella dopo una seduta di tortura, il giudice doveva assicurarsi che

nel tempo di pausa ci [fossero] sempre delle guardie con lei, in modo da non lasciarla mai sola, per paura che il diavolo la [spingesse] a suicidarsi.

In altre parole, anche un suicidio o un tentato suicidio, causato dallo strazio o dal terrore, veniva interpretato come un'ispirazione del demonio, e perciò come un'ulteriore prova di colpevolezza. In tal modo, gli inquisitori discolpavano se stessi. Quando qualche sventurata donna tentava di suicidarsi infilandosi nella testa gli spilloni con cui fermava sui capelli la cuffia, dicevano: "L'abbiamo trovata in questo stato, come se avesse voluto infilarli nelle nostre teste". Anche quei folli atti di disperazione venivano attribuiti a intenzioni malevole e aberranti, al fine di produrre prove di colpevolezza.
I suicidi e i tentati suicidi erano ovviamente piuttosto comuni. Il Malleus riferisce di streghe che "dopo avere confessato i loro crimini sotto tortura, [hanno cercato] di impiccarsi", oppure che "approfittando della disattenzione delle guardie, si sono impiccate con i lacci delle scarpe o con gli abiti".
Se, nonostante la tortura, la strega si rifiutava ancora di confessare, il Malleus consigliava stratagemmi mi più cervellotici. L'accusata, per esempio, poteva essere portata in una casa, i cui proprietari dovevano "fare finta di partire per un lungo viaggio e di lasciarla sola". E poi

Si faccia in modo che qualcuno di sua conoscenza [...] vada a trovarla e le prometta che sarà messa in completa libertà se gli insegnerà come si effettuano certe magie. E il giudice ponga mente che in questo modo molte hanno confessato e sono state condannate.

Come ultima risorsa, il Malleus consiglia il più sfacciato e incredibilmente spudorato imbroglio:

E che, infine, il giudice entri e prometta che avrà misericordia, con la segreta, intima intenzione che ciò che intende è che sarà misericordioso verso se stesso e verso lo Stato; perché tutto quello che viene fatto per lo Stato è un atto di misericordia.

Ai giorni nostri, abbiamo tutti esperienza di come un qualche "timore" collettivo possa crescere progressivamente, come per contagio psicologico, e assumere proporzioni di vera e propria isteria di massa. Durante gli anni cinquanta, negli Stati Uniti, ci fu l'ossessiva crociata del senatore Joseph McCarthy per scovare presunti comunisti. Nel dramma Il crogiolo il commediografo Arthur Miller attaccò la campagna di McCarthy usando, per analogia, la metafora dei processi di stregoneria svoltisi a Salem nel XVII secolo. Grazie all'opera di Miller l'espressione "caccia alle streghe" è diventata un diffuso modo di dire moderno, per indicare qualunque tentativo di snidare presunti nemici instillando e diffondendo la paura collettiva. Ancora più di recente, abbiamo conosciuto altre forme di panico di massa. In seguito alle tensioni con la Libia, sotto la presidenza di Ronald Reagan, parecchi turisti americani hanno modificato i loro progetti di vacanza per evitare, terrorizzati, i voli internazionali. Si è verificato il caso, in Gran Bretagna, di intere comunità di cittadini sospettate di avere compiuto violenza sui minori durante riti satanici, con il risultato che decine e decine di genitori sono stati allontanati dai figli con la forza. Considerati questi esempi, è facile capire come la paura della stregoneria potesse avere raggiunto le proporzioni di una vera e propria epidemia di panico, quando si consideri che era stata diffusa dalla suprema autorità religiosa del tempo; anzi, come fosse potuta diventare, a tutti gli effetti, l'equivalente psicologico della peste. Secondo uno storico:

La paura delle streghe era sostanzialmente una malattia dell'immaginazione, creata ed eccitata dalla persecuzione contro la stregoneria. Dovunque un inquisitore o un magistrato civile si recasse a cancellarla con il fuoco, intorno a lui spuntava una messe di streghe.

Parlando della Chiesa, lo stesso storico osserva:

Qualunque inquisitore decidesse di combattere la stregoneria, diventava, con la propria azione, un missionario che ne diffondeva ancora di più il seme.

La delirante persecuzione contro le streghe cominciò sotto gli auspici dell'Inquisizione, quando la Chiesa esercitava ancora una supremazia indiscussa sulla vita religiosa dell'Europa. L'Inquisizione era talmente

concentrata sulla stregoneria, che ben presto si sarebbe lasciata cogliere del tutto alla sprovvista dall'avvento di una minaccia assai più seria, che avrebbe assunto l'identità di un monaco apostata di nome Martin Lutero. È comunque giusto ricordare che, trent'anni dopo la pubblicazione del Malleus Maleficarum, l'insensata caccia alle streghe avrebbe conquistato anche le giovani Chiese protestanti.
Nella seconda metà del XVI secolo, dunque, sia i cattolici sia i protestanti mandarono al rogo non due o tre, ma centinaia di donne accusate di stregoneria: e questo delirio incendiario sarebbe proseguito per più di un secolo, raggiungendo il suo culmine nella sanguinosa guerra dei Trent'anni, svoltasi fra il 1618 e il 1648. Fra il 1587 e il 1593 l'arcivescovo di Treviri fece giustiziare trecentosessantotto streghe, il che equivale alla media di una e mezzo alla settimana. Nel 1585 due villaggi tedeschi subirono una tale decimazione che in entrambi rimase viva una sola donna. Lungo un arco di tre mesi, cinquecento presunte streghe furono condannate al rogo dal vescovo di Ginevra. Fra il 1623 e il 1633 il principe e arcivescovo di Bamberga ne fece morire tra le fiamme più di seicento. Nei primi anni del XVII secolo novecento persone furono bruciate dal principe e vescovo di Würzburg, tra cui il suo stesso nipote, diciannove sacerdoti, e alcuni bambini accusati di avere avuto rapporti sessuali con il demonio. In Inghilterra, nel periodo del "protettorato", anche Cromwell si servì di un "generale-scova-streghe", il famigerato Matthew Hopkins. Alla fine del Seicento l'isterismo si era propagato anche al di là dell'Atlantico, alle colonie puritane del New England, dando luogo ai tristemente famosi processi di Salem, quelli che avrebbero fornito lo scenario alla commedia di Arthur Miller.
Tuttavia, i peggiori eccessi protestanti non riuscirono mai a uguagliare quelli della Chiesa di Roma, in seno alla quale l'Inquisizione si espresse al massimo delle proprie potenzialità, vantandosi apertamente di avere bruciato, con un calcolo approssimato per difetto, trentamila streghe lungo un arco di centocinquant'anni. La Chiesa aveva sempre manifestato una tutt'altro che piccola tendenza alla misoginia e l'operazione contro la stregoneria le fornì un mandato su larga scala per una crociata contro le donne e tutto ciò che era femminile.

IL PROCESSO E LA CONDANNA A MORTE DI TOMMASO MORO


Dammi la grazia, Signore, che quanto è oggetto delle mie preghiere sia oggetto anche delle mie opere

(dalle Preghiere della Torre)


1 Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) da una famiglia borghese. Ad appena 13 anni nel 1490 divenne paggio di John Morton cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Negli anni dal 1492 al 1500 si dedicò agli studi giuridici e nel 1499 conobbe Erasmo da Rotterdam al quale rimarrà legato da una profonda amicizia. Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni della quale speaker percorrendo nel frattempo i gradi della carriera universitaria divenendo nel 1514 lent reeder del Lincoln’s Inn.

Nel 1515 partecipò ad una missione diplomatica. Seguirono negli anni successivi incarichi pubblici sempre più importanti sinchè nel 1527 seguì il card. Wolsey in una missione sul continente ricevendo l’anno dopo l’incarico di confutare le tesi dei riformati.

Nel 1529 giunse al culmine della carriera divenendo, a seguito della caduta in disgrazia del card. Wolsey cancelliere del regno e ciò dopo avere partecipato alla conferenza di Cambrai.

Tre anni dopo restituì il sigillo di cancelliere adducendo motivi di salute: egli, in realtà, si ritirò a vita privata in quanto non condivide le decisioni di Enrico VIII sul divorzio dalla regina Caterina ed avendo ben compreso a quali conseguenze essa avrebbe portato.

Invitato a prendere posizione sulla questione del divorzio il 13 aprile 1534 si presentò a palazzo Lambeth rifiutando di sottoscrivere, per le sue implicazioni sul piano della fede l’atto di successione votato dai Lords il 23 marzo e viene incarcerato nella Torre il successivo 17 aprile.

Fu sottoposto ad interrogatorio il 30 aprile, il 7 maggio, il 3 ed il 14 giugno 1535 ed il 1 luglio venne condannato a morte per “avere parlato del re in modo malizioso….e diabolico".

Il 6 luglio alle 9 viene decapitato e non impiccato, come avrebbe voluto l’accusa di tradimento, per intercessione del re.

Per condannarlo si dovette ricorrere alla falsa testimonianza di tale Rich che verrà, qualche tempo dopo ricompensato con il titolo di Lord.

Venne provalamato beato da Leone XIII e santo il 19 maggio 1935 da Pio XI.

Con un “motu proprio” del 31 ottobre 2000 Giovanni Paolo II lo ha proclamato protettore dei politici.



2 Di lui Erasmo da Rotterdam ebbe a scrivere: È’ un credente ardentemente ansioso di verace religiosità, quantunque sia agli antipodi di ogni superstizione. Si riserva determinate ore per pregare Dio e onorarlo, non con formule bell'e fatte ma con quelle che gli detta il cuore. Quando discute con gli amici della vita futura, si sente che rivela il fondo della sua anima e che vibra di speranza. Ecco cos'è Moro attivo in piena Corte: dopo di lui qualcuno crede che non si troveranno più cristiani fuori dei conventi.

Giovanni Paolo II nell’Angelus del 5 novembre 2000 ha detto: è spontaneo andare con la mente alla figura luminosa di san Tommaso Moro, esempio straordinario di libertà e di aderenza alla legge della coscienza di fronte a richieste moralmente insostenibili, anche se autorevoli.



3 Pochi giorni essere stato portato nella Tone di Londra, il 17 aprile 1534 egli scrive alla figlia prediletta Margareth: Quando giunsi a Lambeth, fui il primo ad essere chiamato davanti ai Consiglieri, sebbene il Vicario di Croydon e molti altri fossero arrivati in precedenza. Reso edotto del motivo di quella convocazione (di cui mi meravigliai considerando che nessun laico era stato convocato all'infuori di me), chiesi di leggere la formula del giuramento che essi mi mostrarono munita del Gran Sigillo. Poi chiesi di leggere l' Atto di Successione, di cui mi fu consegnato un esemplare stampato. Dopo aver letto in silenzio ed aver riflettuto sulla formula del giuramento, dichiarai ai Consiglieri che non era mio intendimento censurare né l'Atto e chi l'aveva formulato, né il giuramento e chi l'aveva prestato; nè condannare alcuno. La mia coscienza però mi vietava di giurare, non per quanto disposto dall'Atto di Successione, ma perché, prestando il giuramento nella forma in cui era redatto, rischiavo di esporre l’anima mia a dannazione eterna. E se essi pensavano che il mio rifiuto non era determinato da un mero scrupolo di coscienza ma dalla influenza di altra fantasia. ero pronto a rassicurarli in proposito con un giuramento. Se poi a questo essi non erano disposti a credere. a che sarebbe valso un qualsiasi altro mio giuramento? Se invece vi credevano. mi affidavo alla loro generosità affinché desistessero dal sollecitarmi a prestare un giuramento in contrasto con la mia coscienza.

Il Lord Cancelliere espresse rammarico per le mie parole e per il rifiuto. E gli altri Consiglieri aggiunsero che, in fede loro, io ero il primo a rifiutare provocando così nella Maestà del Re gravi sospetti e una violenta indignazione a mio riguardo.

Appare chiaro sin dal primo interrogatorio che Moro è stato incarcerato non per qualcosa che ha fatto ma per non averla fatta e cioè per non essersi piegato alla volontà del sovrano, deciso a rompere con il Papa che non consentiva al divorzio.

Nel 1532 egli restituì il sigillo di cancelliere che per la prima volta era stato concesso ad un laico avendo ben compreso dove avrebbe portato l’infatuazione di Enrico VIII per Anna Bolena.

Non è sufficiente che egli si sia privato, senza esserne stato richiesto, del potere, ma occorre che egli si pieghi alla volontà reale. E’ uomo troppo noto per le cariche che ha ricoperto, per la corrispondenza che egli intrattiene con i grandi del suo tempo, primo tra tutti Erasmo, per la sua attività di avvocato e di giudice perché egli possa riuscire nel suo intento di essere lasciato nella quiete della sua casa di Chelsea. Occorre che egli aderisca alla chiesa che sta staccandosi da Roma.

E più avanti nella stessa lettera egli dice alla figlia di essersi offerto di prestare il giuramento se qualcuno fosse riuscito a confutare tali ragioni in modo da tranquillizzare la mia coscienza.

Il tema della coscienza ritorna più volte nella lettera: ad un certo punto egli dice non riuscii a non dire altro se non che io non potevo farlo perché, secondo la mia coscienza si trattava di un caso in cui ero costretto a non obbedire al mio Re.

In questa posizione Tommaso Moro rimase isolato. Fu letteralmente l’unico laico in tutta l’Inghilterra a non giurare. Nella stessa Chiesa furono pochi coloro che si opposero alla richiesta del re: vi si opposero solo il vescovo di Rochester John Fisher ed alcuni certosini i quali tutti salirono sul patibolo prima di lui: con ogni probabilità si voleva esercitare l’ultima pressione per piegare Moro il cui prestigio in Inghilterra e all’estero era enorme.



4 Ricostruiamo brevemente gli avvenimenti.

Il 23 maggio 1533 il Vescovo Cranmer dichiarò nullo il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona per avere il sovrano sposato la vedova del fratello. La pretestuosità delle argomentazioni usate per sciogliere il vincolo matrimoniale si evince dalla circostanza che lo scioglimento intervenne a ben 24 anni dalla celebrazione del matrimonio. Il 28 lo stesso prelato provvide a dichiarare valido il matrimonio con Anna Bolena che venne incoronata regina il 1 giugno successivo. Il 15 gennaio 1534 venne riconvocato il Parlamento per legalizzare la situazione della discendenza.

Dal punto di vista legale non vi era in effetti alcuna necessità di intervenire dal momento che la bolla papale con la quale era stato riconosciuto il padre del re, Enrico VII, era formulata in termini tali da rendere superflua una modifica. La formula “diretti legittimi discendenti” in essa usata era tale da potersi adattare anche alla figlia nata dalla nuova unione, la futura regina Elisabetta, in realtà si volle dare un ulteriore riconoscimento alla situazione che si era venuta a creare.

Di qui deriva il primo atto di successione (gennaio – marzo 1534) nel quale non solo si provvide a legittimare più chiaramente la futura discendenza del re, ma si affermò che «il vescovo di Roma e la Sede Apostolica, contravvenendo alle auguste e inviolabili prerogative da Dio direttamente conferite agli imperatori, i re e i principi in materia di successione al trono, ha preteso in passato di disporre della successione in altrui regni e domini a suo piacimento: ciò che noi, Vostri umilissimi sudditi sia ecclesiastici che laici [in questo Parlamento], sommamente aborriamo e detestiamo».

Si delinea con chiarezza il distacco da Roma volendosi escludere ogni possibilità per il Papa di deporre il sovrano in virtù di un potere che gli era riconosciuto e del quale, però, dai lontani anni del medioevo si faceva più uso pur non essendo mai intervenuta una formale rinuncia al riguardo.

Anni prima (1521), proprio conversando con Moro, il sovrano non aveva avuto difficoltà nell’ammettere di derivare il suo potere dal Papa.

Prosegue l’atto: [. ..] che il matrimonio precedentemente celebrato tra Vostra Altezza e Lady Caterina, già moglie legittima del Vostro fratello maggiore principe Arturo e da lui carnalmente conosciuta -come è stato debitamente e sufficientemente provato nel corso del regolare procedimento svolto e conclusosi davanti all'arcivescovo Thomas [Cranmer], per benevolenza di Dio attuale arcivescovo di Canterbury e metropolita e primate di questo regno -per delibera di questo Parlamento sia definitivamente, manifestamente e inoppugnabilmente dichiarato, giudicato e sentenziato contrario alle leggi di Dio Onnipotente, e sia inoltre riconosciuto, inteso e considerato privo di alcuna validità ed efficacia e totalmente nullo e abrogato; e che il suo scioglimento, pronunciato dal suddetto arcivescovo, abbia validità ed efficacia a tutti i fini ed effetti, nulli essendo ogni e qualsivoglia licenza, dispensa od altri atti ad esso precedenti o seguenti in qualsiasi modo esprimentisi in senso contrario; e che ogni licenza e dispensa del genere, atto od atti ed ancora quasi che il re si preoccupasse di evitare ad altri il pericolo di cadere nel medesimo errore in cui asseriva di essere incorso lui stesso l’atto prosegue: "[. ..] i quali matrimoni, benché manifestamente vietati e aborriti dalle leggi di Dio, tuttavia hanno avuto talvolta luogo a motivo di presunte dispense accordate dal potere di un uomo: un potere che altro non è se non usurpato, e che di diritto non può essere riconosciuto, accordato o concesso, perché nessun uomo, di qualsiasi stato, grado o condizione ha potere di dispensare dalle leggi di Dio, come confermano e pensano la totalità del clero di questo regno riunito in Convocazione e la maggioranza delle famose Università dell'intera cristianità, e come afferma e ritiene questo Parlamento.

Lo scisma si è, a questo punto, consumato.

Non è consentito secondo l’atto di successione il dissenso in quanto chiunque: “per mezzo di scritti a mano o a stampa, o di qualsiasi azione o attività manifesta, dolosamente promuovano o mettano in atto o facciano promuovere o mettere in atto qualsiasi cosa o cose a pregiudizio della Vostra regale persona; o per mezzo di scritti a mano o a stampa od altra azione o attività diano dolosamente occasione di perturbazione o impedimento nel godimento della corona di questo regno da parte di Vostra Maestà; per mezzo di scritti a mano o a stampa o di qualsiasi altra azione promuovano o mettano in atto o facciano promuovere o mettere in atto qualsiasi cosa o cose a pregiudizio, diffamazione, perturbazione o detrimento del predetto legittimo matrimonio celebrato fra Vostra Maestà e la regina Anna, o a nocumento, diffamazione o destituzione di qualcuno dei discendenti ed eredi di Vostra Altezza…….secondo quanto sopra stabilito dal presente Atto; che dunque colui o coloro che, sudditi di questo regno o in esso residenti, di qualsiasi stato, grado o condizione, si siano resi colpevoli dei predetti delitti, come pure i loro favoreggiatori, istigatori, sostenitori e complici, per qualsiasi dei suddetti crimini siano individualmente giudicati rei di alto tradimento [. ..]

La pena era quella della morte seguita dalla confisca di tutti i beni. Tale pena si applicava anche a chi verbalmente, con qualsiasi parola non scritta nè accompagnata da azioni o attività manifeste, dolosamente e pervicacemente proferiranno, propagheranno o diffonderanno qualsiasi cosa o cose a pregiudizio di Vostra Altezza, o a pregiudizio o diffamazione del matrimonio celebrato fra Vostra Altezza e la suddetta regina Anna [. ..]

Non ritenendosi ciò sufficiente i sudditi erano tenuti a prestare il giuramento secondo quanto si legge nel passo successivo E, al fine che la successione della Vostra regale Maestà sia sancita in maniera ancora più certa, in conformità al tenore e alla forma del presente Atto, per delibera di questo Parlamento sia inoltre decretato che d'oggi in avanti tanto i nobili spirituali e temporali [ = i vescovi e i Lords] quanto tutti gli altri Vostri sudditi viventi attualmente maggiorenni (e in seguito tutti gli altri al compimento della maggiore età), ogni volta e in qualsiasi momento che, per ordine di Vostra Altezza o dei suoi eredi e a loro piacimento, Vostra Altezza o i suoi eredi dispongano, siano tenuti a giurare in forma solenne, alla presenza di Vostra Altezza o dei suoi eredi o di chiunque altro Vostra Maestà o i suoi eredi delegheranno a tal fine, di osservare, adempiere, mantenere, difendere e custodire con tutte le loro forze, capacità e intelligenza, lealmente, fermamente e costantemente, senza frode ne inganno, tutti gli effetti e i contenuti del presente Atto.

Era previsto che l’atto entrasse in vigore il 1 maggio 1534 ma già il 13 aprile il vescovo Fisher che era assente dalla Camera il giorno in cui esso venne promulgato fu convocato a palazzo Lambeth dove lo fu anche Tommaso Moro nonostante che non fosse membro del Parlamento e non rivestisse più alcuna carica pubblica.

Lo zelo dell’ Arcivescovo Cranmer e dei suoi si spinse sino al punto di ampliare la formula approvata dal Parlamento e fu questa versione allargata che fu sottoposta a Fisher e a Moro.

Essa suonava: Giurate di dare fede, fedeltà e obbedienza unicamente alla Maestà del re e ai suoi diretti discendenti così come indicati e definiti nel sopraddetto Statuto di Successione, e a nessun'altra autorità, principe o potentato entro o fuori i confini di questo regno; e di considerare quindi nullo e senza valore qualsiasi eventuale giuramento da voi in qualsiasi momento prestato o da prestarsi a qualsiasi altra persona o persone; e di osservare, custodire, mantenere e difendere con tutte le vostre forze, capacità e intelligenza, senza inganno, frode od altri espedienti illeciti, l' Atto sopra specificato e tutti i suoi contenuti ed effetti -come pure tutti gli altri Atti e Statuti promulgati dall' apertura deI1'attuale Parlamento a sua ratifica o esecuzione o a ratifica o esecuzione di qualunque cosa in esso contenuta -contro qualsiasi persona o persone, di qualsiasi stato, ufficio, grado o condizione; e di non fare o intraprendere in alcuna maniera o, per ciò che è in vostro potere, di non consentire in alcuna maniera che venga fatta o intrapresa, direttamente o indirettamente, in via segreta o manifesta, qualsiasi Cosa o Cose a ostacolo, impedimento, danno o detrimento del predetto Atto o di ' qualsiasi sua parte, con qualsiasi mezzo o per qualsiasi causa o pretesto. Così vi aiutino Dio e tutti i santi.



5 Dell’interrogatorio al quale venne sottoposto Moro fece un resoconto nella vivida lettera inviata qualche giorno (il 17) dopo il suo incarceramento nella Torre alla prediletta figlia Margareth.

Ritenendo che nell’esaminare una vicenda storica occorra riportarsi il più possibile ai documenti in modo da non tradire il pensiero delle persone o travisare i fatti dei quali esse furono protagoniste riporto qui di seguito ampi stralci di una lunga lettera che Tommaso Moro inviò il 5 marzo 1534 dal suo rifugio di Chelsea a Thomas Cromwel .

Essa è molto importante in quanto Tommaso Moro sintetizza in essa il suo pensiero sul matrimonio del re e sul distacco della chiesa d’Inghilterra da Roma.

Egli apparentemente non prende posizione nella disputa ma lascia trasparire chiaramente il suo pensiero in assoluta coerenza a quella che sarà la sua linea di condotta sino alla fine e che abbandonerò solo nel momento in cui sarà chiara la sua sorte.

Questo comportamento non è il frutto di pavidità o di ambiguità , ché, se fosse stato così, egli non avrebbe esitato nemmeno un istante ad accogliere l’invito a prestare il giuramento che gli veniva chiesto da Erasmo da Rotterdam in ansia per le sue sorti o, quello ben più pressante che gli veniva dai suoi stessi familiari.

Quella di Tommaso Moro è una scelta che viene dalla fede, dal desiderio di comprendere quale sia il disegno di Dio su di lui. Un passaggio della sua lettera all’ arcivescovo Cranmer del 5 marzo ce lo fa comprendere.

Egli scrive: Ora, è un fatto che prima del mio viaggio oltremare avevo sentito parlare di certe obiezioni contro la bolla della dispensa, riguardanti le parole del Levitico 2 e del Deuteronomio 3, e secondo le quali la proibizione era de iure divino, ma a quel tempo non mi resi conto se non che le maggiori speranze nella questione stavano in certi vizi trovati nella bolla, per i quali essa doveva considerarsi giuridicamente nulla.

Ma il re non appare pago di questa soluzione ed infatti in proposito c'era tanta fiducia, a quanto sentire per parecchio tempo, che i consiglieri di opposto parere furono ben lieti di accampare un breve che secondo loro doveva porre rimedio a quei vizi; ma il Consiglio del Re sospettava dell'attendibilità di quel breve: di conseguenza si fecero grandi indagini per chiarire quel punto, e cosa ne venisse poi fuori o non l'ho mai saputo o non lo ricordo. Ma Vi richiamo ora queste cose affinché sappiate che la prima volta che sentii parlare della questione, del fatto cioè che il matrimonio era tanto contrario alla legge naturale, fu quando il grazioso Re, come avevo preso a dirvi, me lo disse egli stesso, e mi presentò davanti la Bibbia aperta e vi lesse le parole che inducevano Sua Altezza e molte altre dotte persone a pensarla cosl, e mi chiese poi che cosa ne pensavo io. Allora, pur non aspettandomi di certo che Sua Altezza avesse in ogni modo a prendere quel punto come più o meno chiarito a seconda del mio povero parere su una cosl grave materia, tuttavia com'era mio dovere al suo ordine esposi quale fosse il mio pensiero sulle parole che vi leggevo. …. e questi illustrissimi signori, non ne dubito affatto, hanno riferito e riferiranno a Sua Altezza che non trovarono mai in me animo o modi ostinati, ma una mente tanto aperta e compiacente quanto si può ragionevolmente desiderare in una questione in discussione. Allorchè in seguito Sua Altezza Reale fu informata sia da loro che da me della mia povera opinione sul problema …. prendendo per il verso migliore la buona volontà sulla questione, nella sua benedetta disposizione d'animo ricorse per il proseguimento degli studi sul suo grande problema solo a quelli la cui coscienza egli sapeva bene esser del tutto incline a quella soluzione, e si servl di me e d'ogni altro che Sua Altezza aveva compreso essere di differente avviso, in altri suoi affari, …..

Dunque Tommaso Moro espresse la sua opinione al re che decise di avvalersi di altri consiglieri nella questione ed infatti Dopo di ciò non feci mai più nulla in proposito, non una parola ne scrissi per contrastare la tesi di Sua Grazia, ne prima ne dopo, e nessuno lo fece per mia istigazione, ma disponendo in pace la mia mente a servire Sua Grazia in altre cose,,,,

Appare chiaro dai passaggi da ultimo riportati come egli non abbia approvato la decisione del sovrano pur continuando a servirlo con fedeltà e a professare la sua lealtà nei suoi confronti come del resto farà sin sul patibolo.

Un segnale, a ben guardare, egli comunque lo ha dato nel momento in cui ha ritenuto di non presenziare alle nuove nozze del re.

Quello che gli preme è di non venir meno da un lato a quanto gli detta la coscienza e dall’altro di non venire ai suoi obblighi di fedeltà verso il sovrano.

E più avanti nella stessa lettera egli chiarisce che Oltre a ciò, in varie altre occasioni mantenni una linea di condotta dalla quale, a riparlarne, apparirebbe chiaro che mai verso il matrimonio del Re ho avuto un atteggiamento tale da dargli comunque occasione di indignarsi di me,… Sono io invece uno dei tanti che, sudditi fedeli di Sua Grazia il Re, il quale è padrone del suo matrimonio, e la sua nobile dama una reale Regina, non mormorano ne disputano pur ribadendo che…. in fede mia non ho mai sentito ne letto sulla tesi opposta nulla di così convincente da tranquillizzarmi del tutto la coscienza; anzi, semmai me la sentirei in gran pericolo se seguendo questa tesi dovessi negare che li primato è stato istituito da Dio.

Tommaso Moro, politico e giurista esperto, ha ben compreso sin dall’inizio che non si trattava della nullità o meno della bolla con la quale a suo tempo era stata concessa la dispensa per le precedenti nozze della regina Caterina ma dello scisma essendo divenuto ormai insanabile il contrasto tra il Papa ed Enrico VIII ed infatti egli prosegue: Se noi lo negassimo, come vi dichiarai, non riesco a capire quali vantaggi deriverebbero .da questa negazione, perché il primato è stato per lo meno istituito dal corpo della Cristianità, per la grande e imminente ragione di evitare gli scismi, e corroborato con una successione continua per uno spazio di oltre mille anni, perche tanti ne sono quasi passati dal tempo di san Gregorio. E allora, se tutta la Cristianità è un solo corpo, non riesco a capire come un qualsiasi suo membro potrebbe, senza il generale consenso del corpo, staccarsi dal comune capo….mi pare nella mia povera mente che la causa di Sua Grazia non avrebbe alcun vantaggio…E così io, buon signor Cromwell…. Vi prego per amore di nostro Signore di non essere tanto stanco della mia faticosa supplica da non compiacervi di informare pienamente, per Vostra bontà, Sua Altezza….della mia leale fedeltà…. Non posso infatti trovare nel mio cuore altro da dire se non ciò che mi detta la mia coscienza, e questo non ha mai prodotto nulla che potesse offendere il Re, per ostinazione d'animo o volontà incline al male: è invece una coscienza timorata che può turbarsi per mancanza di miglior consiglio, ma senza mai dimenticare il mio grande dovere verso la Sua nobile Grazia, … Così termino il mio lungo e noioso discorso, supplicando la santa Trinità di mantenervi nella salute del corpo e dell'anima, per la grande bontà che mi dimostrate e il grande conforto che mi date, e di ricompensarvi in cielo. Chelsea, il 5 di marzo. Obbligatissimo Vostro Tho. More, Cav.

Dunque al disopra di tutto viene posta la coscienza che accampa i suoi diritti.

In effetti egli compare innanzi ai suoi giudici essendo chiaro - come scrive alla dolce figlia Margareth nella lettera del 17 aprile 1534 - che giurare era contrario alla mia coscienza.

Il problema non è solo religioso o politico ma attiene alla stessa libertà dell’uomo per interessare alla fine il fondamentale diritto a non prestare ossequio ad una legge che interferisca con la sfera interna dell’individuo. Posta in questi termini la questione il processo a Tommaso Moro cessa di essere un momento della storia inglese per assumere una dimensione universale.

Nell’atto di supremazia approvato nel novembre del 1534 era stabilito che il re nostro sovrano, come pure i suoi eredi e successori re di questo regno, sia riconosciuto, accettato e reputato quale solo e supremo capo della Chiesa inglese, o Anglicana Ecclesia, sopra la terra. Il documento prosegue conferendo al sovrano poteri illimitati per quanto concerneva ogni aspetto della vita religiosa e gli attribuiva in sostanza poteri sostanzialmente identici a quelli spettanti al Papa sulla Chiesa universale.



6 Nel 1535 entra in vigore l’atto sui tradimenti in virtù del quale chiunque dolosamente -da solo od in concorso con altri con parole o con scritti intenda, si proponga o desideri, o di fatto progetti, trami, tenti o perpetri alcunché inteso a recare fisicamente danno alla regale persona del Re, della Regina o dei loro legittimi eredi, od a privarli, o a privare qualsivoglia di loro, della dignità, il titolo o gli appellativi della loro regale condizione; o calunniosamente e dolosamente propagandi o asseveri esplicitamente con parole o con scritti che il Re nostro sovrano e signore è eretico, scismatico, tiranno, fedifrago o usurpatore della corona; che dunque, a partire dal predetto 10 febbraio [1535 n.d.a.], chiunque, da solo od in concorso con altri, incorra in qualsiasi dei su elencati delitti….come pure i suoi complici, conniventi, istigatori e favoreggiatori -sia giudicato reo di tradimento; e che qualunque dei reati sopra indicati perpetrato o commesso dopo il detto lo febbraio sia considerato, riconosciuto e giudicato alto tradimento; e che i rei….. abbiano a ricevere e subire la pena di morte…..nelle forme e i modi stabiliti e consueti nei casi di alto tradimento.

I passaggi fondamentali che porteranno Tommaso Moro sul patibolo sono sostanzialmente due: la privazione anche della regina della dignità e la calunniosità, tra l’altro, delle accuse al re di essere fedifrago dalle quali si coglie appieno quali siano le motivazioni di fondo che spingono il re e l’intera chiesa d’Inghilterra allo scisma.

Per ben due volte nell’atto si dice che anche le parole possano integrare gli estremi del tradimento.

Nei confronti di Moro e del vescovo Fisher, nominato cardinale alla vigilia dell’esecuzione durante la sua prigionia nella Torre, si andò oltre l’atto sui tradimenti facendosi ricorso alla procedura della proscrizione che consentiva un processo senza prove legali e ciò per evitare che emergesse che in realtà i due non si erano macchiati di nessun reato.

Il 28 giugno 1535 la commissione di inchiesta dell’alta corte di giustizia dichiarò legittima l’accusa nei confronti dell’ex cancelliere e lo rinviò a giudizio per il 1 luglio.

L’atto di accusa si conclude con una condanna anticipata: Per questi motivi, la predetta Commissione inquirente dichiara che <>.

All’epoca si partiva dal presupposto della colpevolezza dell’imputato, gli si negava l’assistenza di un difensore o di portare prove a suo discarico e di prendere visione di cosa era accusato, fatto questo che apprendeva solo con la lettura dell’imputazione. Quanto all’indipendenza dei giudici erano prassi costante le pressioni perché emanassero verdetti graditi al re.

Quanto fossero indipendenti i giudici lo dimostra questo passo della Paris News Letter uno dei resoconti dell’epoca: Messer Tommaso Moro, già Lord Cancelliere d'lnghilterra, venne condotto il lo luglio 1535 davanti ai giudici delegati dal re. E dopo che in sua presenza venne data lettura delle imputazioni e delle allegazioni a suo carico, il Lord Cancelliere e il duca di Norfolk gli si rivolsero con queste parole: «Messer Moro, vedete bene che siete colpevole di un grave delitto di lesa Maestà; tuttavia, la generosità e la clemenza del re sono tali da indurci a confidare che, se vorrete pentirvi e ritrattare la caparbia opinione (emerge qui ancora una volta come quello attribuito a Tommaso Moro fosse un reato di opinione) in cui avete così temerariamente persistito, potrete ottenere il suo grazioso perdono».

Per quanto è dato dedurre dagli atti e dai resoconti che ci sono pervenuti la linea di difesa che Moro assunse fu quella di rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.

Risposi che secondo la mia coscienza, quello era un caso in cui io non ero tenuto a obbedire al sovrano, dal momento che qualunque cosa ne pensassero gli altri (la cui coscienza e dottrina io non volevo condannare ne pretendevo di giudicare) per la mia coscienza la verità sembrava stare dall'altra parte. E la mia coscienza in materia io non me l'ero formata precipitosamente o alla leggera, ma attraverso un lungo arco di tempo e un minuzioso esame della questione.

L’offerta del perdono rientrava nella prassi giudiziaria dell’epoca e ad essa Moro rispose «Signori vi ringrazio di cuore della vostra benevolenza. Tuttavia, prego Dio Onnipotente che voglia man- tenermi fermo in questa mia giusta opinione cosi che io possa perseverarvi fino alla morte. Quanto ai reati di cui mi fate carico, i capi d'imputazione sono cosi lunghi e prolissi che io temo che, anche a causa della lunga incarcerazione e della grave malattia e spossatezza di cui soffro attualmente, non avrò ne prontezza, ne memoria, ne voce atte a darvi delle risposte esaurienti ».

La vicenda del divorzio è stata la causa principale della condanna a morte dell’ex cancelliere dal momento che l’atto sulla supremazia ne costituisce la naturale e logica conclusione.

In effetti essa sorge in un momento nel quale Moro non riveste ancora la carica di cancelliere, come egli stesso scrive in una lettera del 1534 diretta a Cromwel. Il primo colloqui sul punto risale al settembre del 1527 al ritorno da un’ambasceria a Calais dove si era recato al seguito del Cardinale Wolsey, suo predecessore nella carica.

Apparentemente questo primo colloquio, al pari di altri che seguiranno, si conclude in una maniera che non lascia presagire il drammatico epilogo della vicenda: Enrico VIII aprì la Bibbia e lesse i passi che, a suo avviso, confortavano la sua tesi ottenendo questa risposta, stando alla lettera a Cranmer, Allora io, pur non essendo certo così presuntuoso da credere che Sua Altezza dovesse prendere il mio povero giudizio in una materia tanto grave a prova della fondatezza o meno di quella tesi, tuttavia, ritenendo mio dovere ubbidirgli, gli esposi il mio pensiero sui passi che mi aveva fatto leggere. Sua Altezza ascoltò benevolmente quella mia improvvisata e non approfondita risposta, e mi ordinò di consultarmi con messer Fox da poco nominato suo Elemosiniere, e di leggere con lui un libro che si stava allora scrivendo sull'argomento.

Quanto al merito della questione egli, due anni dopo, ebbe modo di precisare di non avere titolo per esprimersi sul punto dato che si trattava di un ordinario processo canonico.

Questa precisazione da parte di un esperto giurista, quale era Moro, chiarisce il perché il divorzio costituisca l’antecedente dell’atto di supremazia.

Visto il continuo tornare sul punto da parte del re Tommaso Moro, che nel frattempo era divenuto cancelliere, si tenne al difuori della questione non ritenendo di poter mutare avviso come testimonia quest’altro passaggio della lettera a Cromwel Da allora, io non ebbi più alcuna parte nella questione; nè mai ho scritto nè prima nè dopo una sola parola in argomento che fosse contraria alla tesi di Sua Grazia, ne ho mai istigato alcuno a farlo; ed anzi, disponendomi con tranquillità d'animo a servire Sua Grazia negli altri compiti da lui affidatimi, non ho più voluto neppure guardare o tenere scientemente davanti a me nessun libro della tesi contraria, non facendo invece nessuna difficoltà a leggerne vari altri che vennero scritti a favore della sua tesi.

Davanti alla Corte Tommaso Moro ritiene di doversi difendere unicamente sul punto del silenzio da lui tenuto dichiarando: E in primo luogo -quanto all'accusa che, interrogato da monsignore il Segretario del re e dall'onorevole Consiglio di Sua Maestà su quel che io pensassi di quello Statuto, non ho voluto rispondere se non che, essendo ormai morto al mondo, non pensavo piu a quelle cose ma soltanto alla Passione di Gesù Cristo - io vi dico che per quel mio silenzio il vostro Statuto non può condannarmi a morte: perché ne il vostro Statuto ne alcun'altra legge al mondo può condannare qualcuno se non per le sue parole o i suoi atti, e non per il suo silenzio.

Non essendogli stato mai contestato di avere cercato di fare proseliti o di avere mai incitato alcuno ad assumere posizioni contrarie a quelle del re appare chiaro che quello che si intendeva fare era negargli, in ragione della propria notorietà, il proprio diritto al dissenso che, però, non si era mai tradotto in azioni o in parole restando confinato nel chiuso della propria coscienza.

Lo dimostra la lettura del passo seguente nel quale si legge che E, conclusi, ormai ho decisamente allontanato dalla mia mente tutte quelle questioni e non ho alcuna intenzione di rimettermi a discutere sulle prerogative del re o su quelle del papa; e tuttavia sono e sarò sempre un suddito fedele del re, e ogni giorno prego per lui e per tutti i suoi, e per tutti voi che formate il suo nobile Consiglio, e per tutto il suo regno. E quanto al resto, non desidero piu in alcun modo occuparmene. Messer Segretario replicò che era convinto che il re non si sarebbe ritenuto pago e soddisfatto di una simile risposta, e che non avrebbe mancato di esigerne una piu precisa [...].E quanto all'oggetto del loro interrogatorio, ripetei più o meno quel che avevo già detto: che avevo fatto proposito con me stesso di non dedicarmi ne mischiarmi più alle cose del mondo, e che d'ora in poi il mio unico pensiero sarebbe stato la Passione di Cristo e il mio passaggio da questa terra. Aggiungendo: io vi dico che, in materia di coscienza, il suddito leale è tenuto, più che a ogni altra cosa al mondo, alla propria coscienza e alla propria anima: sempre che la sua coscienza, come la mia, non sia promotrice di diffamazione o di sedizioni contro il suo principe: ed io vi assicuro che la mia coscienza io non l'ho rivelata a persona vivente.

Addirittura egli rivendica questo suo diritto inizialmente con la prediletta figlia Margareth scrivendole quei punti non li posso trattare senza svelare la mia coscienza.



7 Per giungere alla condanna si ricorse alla falsa testimonianza.

Nel momento di maggior debolezza per Tommaso Moro e cioè nel momento in cui egli viene privato dei libri, dopo gli era stata preclusa la possibilità di vedere i suoi, si fece in modo da far entrare nelle sua cella Richard Rich il quale cercò di farlo cadere in trappola fingendo di intrattenere con il prigioniero una conversazione sui poteri del re e sull’atto di supremazia. Il contenuto di questa conversazione venne riferito ai giudici in maniera distorta. Riferisce sul punto John Roper, genero dell’imputato per averne sposato la figlia Margareth ed autore della prima sua biografia: Allora, per provare ai giurati che sir Tommaso Moro era colpevole di tradimento, fu chiamato messer Rich perche ne rendesse testimonianza sotto giuramento. Egli lo fece; ma, a confutazione delle sue parole, sir Tommaso Moro dichiarò: «Signori, se io fossi un uomo che dà poco peso a un giuramento, voi lo sapete, non sarei costretto a trovarmi qui, ora, in questo processo, sul banco degli accusati. E se il vostro giuramento, messer Rich, risponde a verità, allora io prego Dio che mi sia negato in eterno di contemplare il Suo volto: ciò che altri- menti non direi, dovesse valermi la conquista del mondo ». Poi, riferii alla Corte tutta la conversazione avuta con Rich alla Torre, cosi come si era svolta realmente.

Questo è il resoconto fatto, appunto da Roper che aggiunge: Qualche tempo dopo. messer Rich (piu tardi lord Rich). che era stato da poco nominato Procuratore generale. sir Richard Southwell e un certo messer Palmer, uomo di fiducia del Segretario [Cromwell], furono mandati da sir Tommaso Moro alla Torre con l'incarico di togliergli i lihri." E mentre sir Richard Southwell e messer Palmer erano occupati a radunarli. messer Rich. mostrando di voler conversare amichevolmente con sir Tommaso Moro. ma in realtà obbedendo a un suo piano ben preciso, in via di discorso gli disse: -Dato che voi, messer Moro, siete universalmente conosciuto per la vostra saggezza e la vostra cultura, profondissima sia nelle leggi del nostro paese che in ogni altro campo, permettetemi di essere cosI ardito da osare di sottoporvi questo quesito: supponendo che per un Atto del Parlamento tutta la nazione dovesse riconoscermi re, voi, messer Moro, non mi riconoscereste quale vostro sovrano? -SI, signore -rispose sir Tommaso Moro -vi riconoscerei senz'altro. -Allora -continuò messer Rich -vi proporrò un altro caso: che per un Atto del Parlamento tutta la nazione dovesse riconoscermi papa. In tal caso voi, messer Moro, non mi riconoscereste come papa? -In risposta aI- vostro primo quesito, signore, -precisò sir Tommaso Moro -vi dirò che il Parlamento è nel suo diritto a intromettersi nelle questioni che riguardano il potere politico dei principi; ma in risposta al vostro secondo quesito, a mia volta ve ne proporrò un altro. Supponete che il Parlamento stabilisca per legge che Dio non sia Dio. In tal caso, voi, messer Rich, dichiarereste che Dio non è Dio? -No, signore -fu la sua risposta -non lo farei, perché nessun Parlamento ha il potere di emanare una legge simile.-E neppure -replicò sir Tommaso Moro avrebbe il potere di costituire il re capo supremo della Chiesa.

Quest’ultima parte, stando a quanto risulta dalle fonti, venne aggiunta da Rich, che in seguito venne ricompensato con il titolo di lord, provocando la reazione dell’accusato della quale si è detto a fronte di quella che nella forma e nella sostanza era una vera e propria falsa testimonianza.

La deposizione resa da Rich non trovò conferma in quelle rese dagli altri presenti i quali, con varie sfumature, dichiararono di non avere prestato attenzione a quanto si erano detti i due..

Venne quindi chiamata la giuria che in breve tempo emise il verdetto.



8 A questo punto la procedura vigente all’epoca avrebbe voluto che si fosse data la parola all’accusato perché potesse portare elementi a sua discolpa. Il Lord Cancelliere, desideroso di chiudere tutto in fretta stava già pronunciando la sentenza quando fu interrotto da Tommaso Moro il quale dichiarò: Vedendo che (Dio sa in qual modo) avete deciso di condannarmi, desidero adempiere alla mia coscienza e dire chiaro e aperto il mio pensiero riguardo la mia incriminazione e il vostro Statuto. L 'incriminazione è basata su un Atto del Parlamento che contrasta direttamente con le leggi di Dio e della sua Chiesa, in quanto la suprema giurisdizione della Chiesa o di una sua parte non può venire avocata a se, con nessuna legge, da nessun principe temporale, appartenendo di diritto alla Sede di Roma per quel primato spirituale trasmesso per singolare privilegio a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi di quella Sede, dalla parola stessa di Cristo nostro Salvatore al tempo della Sua presenza su questa terra. Esso manca dunque di fondamento giuridico per far incriminare un cristiano da parte di altri cristiani. E a prova di ciò, fra altre argomentazioni e citazioni, spiegò che il regno d'lnghilterra, non essendo che una piccola parte e un singolo membro del corpo della Chiesa, non può promulgare una legge particolare in contrasto con la legge generale della Chiesa cattolica, l'uni- versale Chiesa di Cristo…… E ancora disse che tutto ciò era contrario alle leggi e agli Statuti del nostro paese -che mai erano stati abrogati -come si può chiaramente rilevare nella Magna Charta, là dove sta scritto: «Quod Ecclesia Anglicana libera sit et habeat omnia iura sua integra et libertates suas illaesas»; e che per di piu era in contrasto col sacro giuramento con cui il re, come ogni altro principe cristiano, si impegna solennemente all'atto dell'incoronazione. E aggiunse inoltre che il regno d'lnghilterra non potrebbe mai rifiutare obbedienza alla Sede di Roma, così come un figlio non può rifiutare obbedienza al proprio padre naturale.

Le fonti delle quali disponiamo (tra tutte il racconto del genero J. Roper e la Paris News Letter) concordano sul punto, salvo che su qualche dettaglio di poco conto, per cui possiamo ritenere attendibile la ricostruzione delle dichiarazioni di Tommaso Moro.

E’ evidente che questi ha abbandonato la linea del silenzio che aveva seguito sino a quel momento.

Ormai il suo destino è certo. La volontà divina gli è chiara e non v’è più ragione di persistere nell’atteggiamento tenuto sino a quel momento.

Con grande serenità egli si rivolse ai suoi giudici per l’ultima volta dicendo loro: No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli -san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Cos{, io fermamente confido - e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere -che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza. E allo stesso modo io prego Dio Onnipotente di proteggere e difendere la Maestà del re e di concedergli il suo buon consiglio. Sin sul patibolo egli ebbe parole di ossequio verso il sovrano

Allorchè il duca di Norfolk gli contestò che con tali parole egli dava la prova del suo dolo Moro rispose:-No, no è la pura e semplice necessità che mi impone di parlare cosi a lungo, per adempiere alla mia coscienza. E ne chiamo Dio a testimone, il cui sguardo, e solo il suo, sa penetrare nel profondo del cuore degli uomini. Del resto, non è tanto per questa Supremazia che voi esigete il mio sangue, quanto perché non ho voluto consentire al matrimonio del re.

Tommaso Moro intese riaffermare da un lato il primato del Papa e con esso l’unione con la Chiesa romana ponendo in risalto come anni di studio del problema lo avessero condotto alla conclusione che nulla autorizzava a ritenere che il re potesse invadere sfere non sue e dall’altro quali fosse la causa prima della sua condanna.

Tuttavia egli rimase sino all’ultimo fedele al suo re e ritenne che nulla autorizzasse il venir meno all’obbligo di fedeltà cui era tenuto ogni suddito ed evitò sempre di fare o dire qualsiasi cosa che potesse suonare incitamento, diretto od indiretto, a violare tale obbligo.



9 Rispose ai suoi inquisitori gli chiedevano perché, visto che mi era indifferente continuare a vivere, come avevo affermato, non dichiarassi apertamente che lo Statuto era illegale. In ciò era implicito che, nonostante le mie dichiarazioni, io avevo paura della morte. Quindi risposi, secondo verità, che non ero un uomo di cosi santa vita da potermi offrire arditamente alla morte, senza temere che Dio, per punire la mia presunzione, potesse permettere ch ' io mi arrendessi. Ed era per questo che non avanzavo, ma indietreggiavo. Ma che se fosse Dio stesso a chiamarmi, mi sarei affidato alla Sua grande misericordia per ottenere la grazia e la forza necessarie. (lettera del 3 giugno 1535 alla figlia Margareth

Non è possibile comprendere il comportamento di Tommaso Moro nella vicenda che lo condusse sul patibolo se non leggendo il libro che egli scrisse allorché era già detenuto nella Torre e che rimase incompiuto allorché gli furono tolti i libri e i mezzi di scrittura: Nell’orto degli Ulivi il cui sottotitolo è Expositio passionis domini.

In tale opera egli ripercorre la passione del Cristo e dice quale debba essere l’atteggiamento del cristiano dinanzi alle persecuzioni ed alla morte.

Ma qui forse qualcuno potrebbe obiettare che ci si stupisce non tanto che Egli abbia potuto provare quei sentimenti, quanto che l'abbia voluto. Proprio Lui, che aveva insegnato ai discepoli a non temere coloro che possono uccidere il corpo , ma oltre a ciò non hanno alcun potere, proprio Lui ora se ne mostrava atterrito, benché sapesse che nessun potere i suoi nemici avrebbero avuto sul suo corpo se non fosse stato Lui stesso a permetterlo? …. Proprio Lui, che in tutte le altre cose, prima che con le parole aveva insegnato con l'esempio, non avrebbe dovuto farsi modello agli altri soprattutto in questo frangente, perché imparassero da Lui a subire intrepidamente la morte in nome della verità ? Con quella sua debolezza dava invece un pretesto a quanti avessero esitato e vacillato da- vanti alla morte per la fede, autorizzandoli a sentirsi giustificati dall'esempio del loro stesso Maestro….Egli non chiedeva loro di non averne affatto, ma di non averne in misura tale da fuggire la morte che dura un solo istante per precipitare, rinnegando la fede, nella morte eterna. …..Così il nostro Salvatore Cristo, anche se ci comanda -quando sia ciò inevitabile -di essere pronti a morire piuttosto che separarci da Lui per paura della morte (e ci separiamo da Lui se ne rinneghiamo pubblicamente la fede), tuttavia è tanto lontano dal comandarci di far violenza alla natura e di non temere affatto la morte, che, quando ciò sia possibile senza tradire la - fede, ci dà facoltà di fuggire il supplizio: Quando vi perseguiteranno in una città -dice -fuggite in un'altra. In virtù di questo indulgente consiglio di ragionevole prudenza del nostro Maestro, quasi nessuno degli Apostoli, quasi nessuno dei più illustri martiri nel corso dei secoli, non preferì in qualche caso salvarsi la vita preservandola, con grande vantaggio spirituale proprio e di altri, fino a quando non venne il momento che Dio, nella sua arcana provvidenza, ritenne opportuno.

L’ulteriore passaggio del pensiero di Tommaso Moro, quello che lascia comprendere le ragioni che lo determinarono ad esplicitare il suo pensiero e ad abbandonare la linea di condotta tenuta sino a quel momento è costituito dal richiamo di alcuni brani di Paolo di Tarso. Eppure, proprio Paolo, questo fortissimo atleta che la speranza e l'amore di Cristo avevano portato alla certezza del premio celeste, tanto da dire « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa [...] .Ed ora mi attende la corona della gloria »; e che desiderava così intensamente quella corona da dire: « Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno » e « Non desidero che di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo » proprio quello stesso Paolo si destreggiò, ricorrendo prima al tribuno romano e appellandosi poi all'imperatore, per sfuggire una prima e una seconda volta alle insidie dei giudei; mise in campo la propria cittadinanza romana per liberarsi dal carcere; si fece calare lungo le mura entro una cesta per sottrarsi alle mani sacrileghe del re Areta……Che il suo fortissimo animo non sia stato immune dalla paura lo dice Paolo stesso scrivendo ai Corinzi: « Da quando sono giunto in Macedonia, non ho conosciuto tregua, ma ho patito sofferenze di ogni genere: battaglie all'esterno, timori al di dentro ». E in un'altra lettera: « Sono venuto in mezzo a voi con la mia fragilità e con molto timore e trèpidazione ». E ancora: « Non voglio che voi, fratelli, ignoriate le immense difficoltà che ho incontrate in Asia, dove sono stato provato al di sopra delle mie forze, tanto che non desideravo più vivere »

La conclusione del pensiero di Moro e, dunque, la spiegazione conclusiva la si rinviene nel passo, sempre dell’Expositio passionis domini nel quale dice lasciò che si rialzassero (gli armati venuti a catturarlo) perché potessero compiere ciò che Egli permetteva che fosse compiuto.

Ormai Tommaso Moro è certo di conoscere la volontà divina e l’accetta.

Ormai egli è certo che è stato Dio stesso a chiamarlo e si affida alla sua misericordia per ottenere la forza e la grazia necessarie come ebbe a scrivere il 3 giugno alla figlia esprimendo Il senso dell’abbandono alla volontà divina: sarei addolorato se la mia attesa dovesse protrarsi oltre domani, che è la vigilia di San Tommaso e l'Ottava di San Pietro, perché io desidero ardentemente andare a Dio in un giorno così propizio e adatto per me.

La data alla quale Moro fa riferimento è quella dell’anniversario della traslazione della spoglie di Tommaso Becket l’arcivescovo fatto assassinare da un altro re di nome Enrico del quale era stato ministro.

Al termine del processo che aveva affrontato chiedendo Dammi la grazia, Signore di non dare più ascolto alle voci del mondo egli si congedò dai suoi giudici augurando loro di trovarsi tutti insieme a far festa in Paradiso.

O.D Gattola