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giovedì 7 ottobre 2010


La basilica di Santa Giustina a Padova

Il poeta Venanzio Fortunato, vescovo di Tours, scriveva questi versi nella seconda metà del VI secolo d. C. nel suo poema "Vita sancti Martiri", e ricordava agli uomini del suo tempo, ma anche ai posteri, l'esistenza di un illustre monumento eretto nell'antica Patavium in ricordo della giovane martire.
Erano ormai passati più di due lunghi secoli da quel 313 d. C. quando l'imperatore Costantino aveva concesso ai cristiani di professare liberamente la loro fede nella buona novella venuta dal figlio di Dio, da quell'Uomo Dio che aveva risposto agli aneliti di speranza dell'umanità sconfitta dal peccato.
A Padova l'annuncio della nuova religione era giunto in tempi che è giusto ritenere assai precoci. Contrastata come nelle altre parti dell'Impero, certamente risultava affermata nel quarto decennio del secolo se conosciamo il nome di un vescovo, Crispino, che già occupava la cattedra episcopale di Patavium nel 356.

Che cosa la città volle e poté costruire in memoria della martire Giustina, nel luogo della sua sepoltura, non appena le leggi dell'Impero lo permisero, noi non sappiamo. La tradizione, fondata sul documento della Passio, e suffragata anche dalle ampie testimonianze della diffusione del suo culto, narra che la giovane fu martirizzata nel Campo Marzio durante la persecuzione dell'imperatore Massimiano degli anni 303-304 d.C. Sepolta nella limitrofa zona cimiteriale, a sud della città, è plausibile pensare che pellegrini devoti giungessero per pregare presso la sua tomba e per consegnare a lei, testimone di fede con la vita, pietose richieste di intercessione. Il cimitero, in quanto luogo di sepoltura dei martiri, divenne nell'alto medioevo la meta privilegiata del pellegrinaggio e della funzione religiosa. La chiesa, il monastero e lo xenodochium per l'ospitalità del forestiero, permisero la nascita di vere e proprie cittadelle cristiane e monastiche che, nella continuità del culto, manifestavano la forza della tradizione religiosa e il permanere di una coscienza civile.
Quanto di più antico l'archeologia ci ha restituito a testimonianza del culto tributato a santa Giustina risale però soltanto al VI secolo. A quell'epoca infatti il "vir clarissimus" Opilione fece costruire "basilicam vel oratorium in honore sanctae Iustinae martiris", come attesta l'iscrizione incisa nel timpano in marmo greco oggi conservato nel nartece dell'oratorio di San Prosdocimo. Questo reperto, databile intorno al terzo decennio del VI sec. d.C., assieme ai lacerti di mosaico visibili al livello della pavimentazione del sacello, rappresenta la testimonianza dell'esistenza, in epoca paleocristiana, di un doppio edificio eretto in onore e memoria di santa Giustina. Questo piccolo luogo di preghiera che dell'antico complesso è giunto fino a noi, si palesa oggi con l'intatta evidenza trasmessa attraverso i secoli, e resta, assieme alla testimonianza di Venanzio Fortunato, il segno della veridicità di un culto cristiano che rimane il più antico e glorioso di Padova.

Nulla invece possiamo sapere sull'aspetto di quella prima basilica, che affiancava il sacello, né sulla sua facciata che accoglieva il fedele in visita alla sepoltura di santa Giustina. Ci assiste, nel figurarla, soltanto la conoscenza, dei monumenti cristiani coevi per pensare ad una probabile analogia di forme e stili. Di semplici mattoni, senz'altro rivestimento prezioso, forse riservava l'abbellimento più ricco all'interno, realizzato, come sappiamo, in mosaici risplendenti.
L'autore della "Leggenda di san Daniele", che è presumibile scrivesse verso la fine dell'undicesimo secolo, ma prima del 1117, anno in cui la basilica crollò per il terremoto, ci ha lasciato questa suggestiva descrizione: "Questa basilica sostenuta da colonne di marmo e rivestita in gran parte da lastre marmoree decorata nel suo interno mandava raggi come le stelle. Né questo può meravigliare, poiché quella chiesa l'aveva fatta costruire un uomo chiarissimo e illustre prefetto del pretorio di nome Opilione, con immensa ricchezza. ... Oltre questa basilica, in un bellissimo secessu che guarda a mezzogiorno sorge un oratorio o tempietto di meravigliosa bellezza, eretto in onore di Dio e della beata Maria sempre Vergine, di molti Apostoli, nel quale giace tumulato il corpo di san Prosdocimo. Le pareti sin da terra in giro tutt'attorno sono rivestite di tavole marmoree variamente, mentre la parete superiore, coperta da una cupola, dovunque rifulge d'oro, ed è ornata di mosaici raffiguranti il palazzo celeste e i verdi prati del Paradiso. Dalla suddetta basilica si protende un piccolo atrio abbastanza bello ed elegante, per il quale ora si offre più facile accesso al detto tempio". La decorazione a mosaico parlava al credente attraverso le sue forme narrative e simboliche, lo istruiva nella comprensione del messaggio evangelico e contribuiva alla meditazione ed alla preghiera. La basilica, il luogo di riunione della comunità dei fedeli, si affiancava al teatro romano che sorgeva nello spazio esterno alla basilica: il mondo romano, ormai alla fine delle sue vicende, cedeva il testimone al credo cristiano, destinato a dare nuovo significato alla storia dell'uomo e a durare nei secoli.

Allora l'edificio intitolato a Santa Giustina iniziò la sua lunga storia, ricca di significati se si interpreta ciò che esso dovette rappresentare. Geloso custode fin dall'antichità di sacre reliquie, divenne meta di pellegrinaggio per molti fedeli, ma anche luogo di addio alla sicurezza della città per chi iniziava, dalle strade vicine, un lungo cammino, faro che accoglieva chi arrivava, segno di civiltà e testimonianza di un credo gravido di speranza. Tutto questo fu Santa Giustina nei secoli, in un crescendo di significati che il progredire in grandezza e magnificenza dell'edificio aiutava a palesare. Proprio negli anni in cui "basilica et oratorium" erano innalzati al culto, terre lontane vedevano fiorire la rigogliosa pianta dell'ordine benedettino, che sarebbe divenuto luce propizia per un'umanità che si apprestava a vivere alcuni dei secoli più bui della sua storia. Santa Giustina crebbe con il contributo imprescindibile di una comunità benedettina che vi s'insediò. Non sappiamo con precisione come e quando, ma conosciamo bene quello che seppe divenire nei secoli per la città e per l'ordine.
La storia, in parte oscura, della basilica nei suoi primi secoli di vita, è emblematicamente espressa nel pensiero di un uomo di cultura del XV secolo, Giovan Francesco Capodilista: "La chiesa di Santa Giustina decadde e fu riedificata solennemente dal patrizio romano Opilione, poi dalla rabbia degli infedeli fu distrutta e riedificata dal vescovo di Padova Orso, infine, distrutta dai longobardi, fu riedificata da Gauslino". Dietro l'obiettivo encomiastico diretto a Gauslino dei Transelgardi, e pur nella inesattezza della cronologia degli eventi, appare la consapevolezza del susseguirsi di traumatiche distruzioni e di pietose ricostruzioni, quasi che la storia della città, nei suoi momenti più difficili, trovi un simbolico parallelo nella storia della sua antica basilica.

Con la fine del primo millennio, si concludeva anche per Padova un secolo di profonda crisi che, dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente, aveva assistito impotente alla distruzione dei segni della sua passata grandezza da parte dei Longobardi di Agilulfo nel 602 e degli Ungari nell'899. Secoli bui anche per le nostre conoscenze nella scarsezza di fonti attendibili cui fare riferimento. Quel che è certo è che l'antica basilica paleocristiana, con l'annesso sacello, sopravvisse probabilmente come ultimo e strenuo baluardo di civiltà in secoli in cui si registra una profonda crisi della stessa istituzione episcopale. Dopo lunghi decenni di silenzio, quando incontriamo nuovamente Santa Giustina alle soglie dell'anno mille, essa si presenta come una comunità in grado di svolgere un ruolo di primissimo piano nella realtà religiosa, sociale, culturale e civile del tempo.
Appare certo che il monastero abitato da monaci benedettini esistesse già nel X secolo, e ben presto riusciamo a conoscere, attraverso la lettura delle fonti, il lento espandersi delle sue proprietà e delle sue competenze. Le acquisizioni nel territorio padovano e nello spazio cittadino circostante individuano parallelamente il suo crescere in importanza e prestigio.
Fin dal decimo secolo il monastero si presenta operoso e vivace quando riesce ad ottenere dal vescovo della città una concessione per l'utilizzo di porzioni di acque del vicino fiume, iniziativa mirata ad intensificare lo svolgimento di attività economiche vitali, come la macina dei cereali. Nel 1077 un placito, emanato il 26 febbraio, aveva sentenziato che il Prato della Valle, assieme a molti altri beni nelle vicinanze, appartenevano all'abbazia di Santa Giustina; la grande piazza accoglieva annualmente anche il mercato che si teneva in occasione delle solennità dei santi patroni, Giustina il 7 ottobre e Prosdocimo il 7 novembre, cosicché la ritualità della festa si accompagnò spesso nella mente dei padovani alla familiarità con il loro tempio religioso più antico. Fra il 1228 e il 1229, con il consenso del comune, il monastero, dopo operazioni di esproprio e lavori di scavo, realizzò il fossatum che, deviando le acque del Bacchiglione a Santa Croce, avrebbe lambito tutta l'area monastica saldandosi a nord con il fiumicello di Pontecorvo. Da questo fossato la comunità avrebbe potuto deviare le acque per farle giungere all'interno del monastero stesso, costruire mulini e servirsene per la pesca: diritti che il comune stesso si impegnava a difendere. La ripresa che animava la vita della città coinvolgeva in primis l'antichissima istituzione religiosa.

L'area del Prato della Valle si era intanto arricchita di nuovi edifici religiosi, in un processo che difficilmente si potrebbe spiegare senza la presenza qualificante del monastero. Nel gennaio 1076 il vescovo di Padova, Olderico, faceva dono al monastero della piccola chiesa di San Daniele, il cui corpo era stato ritrovato solo qualche mese prima in Santa Giustina, e poi traslato nella cattedrale della città. A pochi metri soltanto dall'antica basilica, nel luogo dell'attuale piazza Ytzhak Rabin, viveva la comunità monastica femminile di Santa Maria della Misericordia, di leggendaria fondazione; dirimpetto, divisa dallo spazio del Prato, era situata Santa Maria di Betlemme, ricordata, assieme al suo "spedale", nel 1180 in un contratto di livello perpetuo concesso dal monastero. Allo sbocco dell'omonima via (ora Briosco), sorgeva San Leonino, dapprima semplice chiesa, arricchita agli inizi del XV secolo da un ospedale per volere di Benvenuto de' Bazioli: istituzioni costantemente soggette a Santa Giustina.

In questo processo di espansione, il monastero dovette fare i conti anche con disastrose calamità naturali. Quando, nel 1117, il terribile terremoto distrusse l'antica basilica, lasciando miracolosamente intatto il sacello paleocristiano, il Prato e la città ebbero un nuovo tempio, le cui forme ci restano quasi del tutto sconosciute. Si sa che la comunità benedettina provvide immediatamente alla costruzione di una nuova basilica, anche utilizzando pietre e materiale costruttivo dell'antico teatro romano. Dotata con ogni probabilità di un quadriportico, secondo forme architettoniche in uso a quel tempo, essa occupava uno spazio più arretrato rispetto alla basilica attuale. Così il nuovo edificio, moderno nello stile e nel gusto, veniva ad occupare spazi e ruoli che da tempo erano stati propri del più antico tempio intitolato alla santa martire. Restano, come uniche testimonianze importanti di quella costruzione, una parte dell'ambiente, che ospita il coro vecchio, la cappella di San Luca, la base del campanile e i resti del portale che fu costruito, a ben interpretarne gli indizi stilistici, negli anni a cavallo tra il XII e il XIII secolo. Oggi essi sono conservati nei locali adiacenti alla sacrestia e sono sicura testimonianza della cura ed attenzione che la comunità benedettina volle riservare alla porta del nuovo tempio, in un dialogo teologicamente impegnato con l'osservatore. Credenti e non credenti, viandanti frettolosi e fedeli, potevano ammirare e meditare su questo vero gioiello che arricchiva la recente costruzione.

Il periodo che aveva avuto inizio con il secondo millennio e che si protrasse per circa tre secoli, fu una stagione di radiosa espansione per la comunità di Santa Giustina e per il monachesimo padovano tutto, per altezza di spiritualità e di cultura, per potenza politica e ricchezza di patrimonio. Ma sarebbe seguito a quell'epoca d'oro un periodo di profonda crisi durante il XIV secolo, motivata dalla pesante ingerenza della signoria dei Carraresi sull'abbazia, ma anche da altre e diverse congiunture sfavorevoli. La forza per la rinascita, il vigore necessario per attuare una riforma resasi ormai necessaria, si concretizzò con la nomina da parte del pontefice Gregorio XII nel 1408 di un nuovo abate, Ludovico Barbo. Giovane di venti sette anni, ma ricco di un' esperienza religiosa maturata nella sua città, Venezia, egli fu l'uomo nuovo che riuscì a portare linfa vitale e feconda, in un ritrovato spirito di osservanza alla Regola del fondatore e al Vangelo.
La svolta radicale da lui impressa in seno all'ordine e, primariamente, nel monastero padovano, trovava anelito in una devotio che meglio interpretava le esigenze spirituali e ascetiche dell'uomo del tempo; a questa spinta rinnovatrice in campo spirituale si accompagnò anche una profonda opera riformatrice e di controllo sulle proprietà dell'abbazia e sull' organizzazione del cenobio. Lo stato di abbandono denunciato dal Barbo coinvolgeva tutta la struUura del monastero e le sue proprietà fondiarie. Esse vennero riorganizzate in un programma globale tendente a vivificare anche le attività econo miche dell'abbazia; nel contempo, un progetto di rinnovamento straordinario avveniva all'interno del monastero. Una particolare attenzione fu riservata ai locali dove la comunità benedettina quotidianamente viveva, ai luoghi della sua meditazione: erano rinnovati ed ampliati i chiostri, realizzata una nuova sacrestia e un nuovo presbiterio. Con attenzione fervida al mondo umanistico rinascimentale, si provvide alla decorazione pittorica della cappella di San Luca tra il 1436 e il 1441 e del chiostro Maggiore fra il 1492 e il 1496, mentre Andrea Mantegna, tra il 1453 e il 1455, si impegnava nella realizzazione del polittico di San Luca, nello spirito dell'umanesimo religioso che si respirava nell'ambiente monastico. Trascorsi pochi decenni dall'arrivo della dominazione veneziana, Santa Giustina si presentava forte della rinnovata autorità in campo spirituale e riferimento vivissimo per la vita culturale della città.

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