Pagine

mercoledì 19 ottobre 2011


Zanzotto, la poesia
che vedeva in anticipo

Andrea Zanzotto, nel giorno del suo 90/mo compleanno del poeta, in una foto d'archivio del 10 ottobre 2011 a Pieve di Soligo (Treviso).
+ Morto Zanzotto, il cantore del tempo
+ L'ultima intervista a La Stampa MARCO ALFIERI
E' morto ieri a 90 anni, festeggiati appena pochi giorni fa. Si confrontava con la tradizione, ma nella piena apertura al rischio della sperimentazione
MAURIZIO CUCCHI

Ha lasciato che il mondo lo festeggiasse per i suoi novant’anni, e poi, così rapidamente, si è congedato per sempre. Andrea Zanzotto ha scavato in profondità per tutta la vita, è stato una figura di intellettuale apertissima e capace di spaziare liberamente nelle più diverse forme del pensiero e dell’arte. Ma certo, è stato soprattutto un grande poeta, e lo è stato, in effetti, fin da subito, fino dagli esordi dei primi Anni Cinquanta. Possiamo tranquillamente affermare che la sua opera, nel panorama della nostra poesia del secondo Novecento, ha un valore di centralità assoluta.

Fino dai suoi esordi, promossi tra l’altro da figure ormai storiche di primissimo piano, tra le quali Giuseppe Ungaretti, l’intensità verticale della sua lirica - sempre caratterizzata, peraltro, da forti strappi interni, da vistose increspature - era stata ampiamente riconosciuta. Dopo Dietro il paesaggio (del ’51), con un libro come Vocativo (’57), Zanzotto aveva già scritto uno dei capitoli più sicuri della nostra poesia del secolo scorso, dimostrando, tra l’altro, una virtù che è dei grandi ma solo dei grandi: quella, cioè, di antivedere, di cogliere in sensibile anticipo i mutamenti storici. Poiché Zanzotto, considerato spesso scrittore arduo e poeta del significante, è soprattutto un grande poeta della complessità, un poeta di pensiero e di contenuti forti, un poeta nettamente immerso nella condizione del proprio tempo, nei suoi disagi e nelle sue contraddizioni. Cosa che ha spesso evidenziato nelle dichiarazioni pubbliche, nelle prese di posizione anche negli ultimi anni.

Ed è stato un anticipatore - da straordinario inventore di linguaggio quale era - di alcune delle principali tendenze della nostra poesia recente. Come l’uso del dialetto, tanto che con Filò, nel ’76 (un poemetto scritto su commissione di Federico Fellini per il Casanova), aveva riscoperto in poesia, tra i primissimi, le virtù di una lingua essenzialmente orale, legata al territorio - nel suo caso il Veneto, essendo nato e vissuto a Pieve di Soligo (Treviso). E questo suo forte legame con il territorio, e con quanto nel corso della storia il territorio ha saputo assorbire e progressivamente, in parte, cedere, è visibilissimo nella sua opera.

Ma Zanzotto è stato anche il primo a promuovere, in senso antiframmentistico, la necessità di un progetto ampio in poesia, e dunque di un’articolazione poematica, realizzata nella sua trilogia, da lui definita con sublime understatement «pseudo-trilogia», composta dal Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma (tra il ’78 e l’86). Nel primo di questi tre libri, forse uno dei punti più alti della sua ricerca (termine da lui prevalentemente usato per indicare il proprio lavoro poetico) si è cimentato magistralmente con la forma chiusa, scrivendo l’Ipersonetto, una serie concatenata di sonetti, che suonava come un definitivo, personale addio a una struttura classica, forse la più nobile e amata, poi ripresa in seguito da numerosi altri poeti delle generazioni più giovani.

«Tradizionista a sera / all’alba novatore», aveva già in precedenza detto ironicamente di se stesso, nelle IX Ecloghe. E infatti, uno degli elementi chiave della sua grandezza è stato nella capacità di confrontarsi sempre con l’amata tradizione della nostra lirica, ma nella piena apertura al rischio indispensabile del nuovo e dunque alla sperimentazione, come è evidente in uno dei suoi libri più apprezzati, La Beltà, del ’68. Dentro il suo animo era incancellabile il rimpianto per un perduto tempo della poesia elegiaca, per una quieta «normalità» semplice del suo amato paesaggio. Ma nella piena, per quanto dolorosa, consapevolezza che nulla sarebbe potuto ormai tornare com’era stato per secoli. Così come nulla avrebbe potuto riportare il senso della poesia alla sua classica dimensione, a quella degli amatissimi Virgilio e Petrarca.

Per chi lo ha conosciuto e lo ha ascoltato nel corso dei decenni, ha sempre meravigliato la vitalità formidabile e brillante della sua intelligenza, la scioltezza vivacissima di affabulatore creativo e critico nei confronti dei vari orrori della contemporaneità. Ho avuto la fortuna di incontrarlo quarant’anni fa, e l’onore di laurearmi sulla sua poesia. Mi si perdoni questa nota personale, ma anche la sua geniale semplicità umana è stata in grado di alimentare chi ha potuto frequentarlo.

A novant’anni, il pensiero poetico di Zanzotto si era conservato ben attivo. Ho qui tra le mani un suo volumetto di nove poesie, Il vero tema (Biblioteca Nazionale Marciana/Cento amici del libro), dal quale voglio citare, per concludere, questi versi: «Non c’è bruscolo di tempo / né di spazio / che non meriti per sé infiniti poemi / che già in sé non li sia».

Nessun commento:

Posta un commento