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domenica 13 febbraio 2011




Jozefina Dautbegović

«Non annotare niente lasciare la pagina vuota /senza data / Se dò un nome a un giorno si penserà che abbia contribuito a qualcosa / o che sia colpevole Dio non voglia di qualcosa», scrive Jozefina Dautbegovic´ in ”Provare a ricordare” - e con queste parole compie un inconsapevole gesto di ribellione a una consuetudine che negli ultimi tempi è andata cristallizzandosi nella sua poesia: ricordare il quotidiano, legando la propria parola poetica al tempo e allo spazio. Le vicende personali di questa autrice si trovano molto probabilmente alla radice di una simile scelta espressiva. La sua biografia è caratterizzata da molti spostamenti, avviati in quella che ancora si chiamava Jugoslavia. Nata nel 1948 e cresciuta a Šušnjarinei pressi della città di Derventa (Bosnia-Erzegovina), si trasferì ancora giovanissima in Croazia, precisamente nella città di SlavonskiBrod, per proseguire gli studi superiori e universitari. Terminati gli anni della formazione e conseguita una laurea in lettere e storia,tornò in Bosnia-Erzegovina, a Doboj, dove scrisse e pubblicò isuoi primi tre libri di poesia (Cˇ emerike, 1979; Uznešenje, 1985; OdRima do Kapue, 1990) e lavorò come insegnante, bibliotecaria e curatrice di riviste letterarie, partecipando attivamente alla vita culturale della città. Tuttavia, la Bosnia-Erzegovina non divenne neppure questa volta la sua dimora fissa e i tristemente noti eventi bellici dell’ex Jugoslavia la costrinsero negli anni Novanta ad abbandonare ancora la terra natale e cercare nuovamente una dimora in Croazia. Nel 1992, con l’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina, lasciò Doboj per stabilirsi a Zagabria, dove ha vissuto e lavorato fino al momento della morte come archivista presso il Centro di documentazione museale. I primi anni dell’esilio croato si possono considerare decisiviper la sua produzione poetica. Tra il 1994 e il 1997 dà alla luce isuoi libri di poesie più incisivi come Rucˇak s Poncijem, 1994 e Prizoris podnog mozaika, 1997, distinguendosi nel panorama della poesia croata per una scrittura che intreccia il fisico con il metafisico in una tonalità quotidiana e colloquiale, guadagnandosi il positivo giudizio della critica. La raccolta Il tempo degli spaventapasseri, oltre la produzione poetica più recente, ospita i versi degli anni dell’esordio artistico, che permettono di riconoscere la sua evoluzione. Segnata dagli spostamenti sino dalla giovanissima età, Dautbegovic´, anche quando all’inizio scriveva una poesia intimista caratterizzatada un ricorrente uso del linguaggio simbolico, che occultavai suoi referenti nel reale o, come ha detto qualcuno, «ermeticamente» chiuso perché privo di «conferme empiriche», sentiva già l’esigenza di collocare le proprie parole poetiche, di fermarle nel tempo e nello spazio. Nelle poesie delle sue prime tre raccolte, come anche in quelle degli anni Ottanta e dei primi Novanta che troviamo nella selezione presente (ad esempio “Uno spettacolo difficile”, “La casa”, “Il grande riposo”, “Attese”, “La belva e il cacciatore di frodo”, “Il frumento e la malerba” e “Armate solo d’occhi con le pupille bianche”), Dautbegovic´ annotava gli anni e i luoghi delle proprie parole, come se volesse suggerirci il legame segreto, esclusivo con i contenuti poetici. Tutto ci induce a pensare che la quotidianità avesse già allora rappresentato un importante punto di riferimento e che la riflessione poetica di quei primi anni, nonostante la mancanza di un legame esplicito con quella quotidianità, avesse tra gli obiettivi la memoria di ciò che in essa veniva vissuto benché abilmente taciuto. L’importanza del quotidiano nella sua prima produzione poetica tuttavia non è sempre stata occultata, come emerge dalla poesia “Armate solo d’occhi con le pupille bianche”. La straziante, dolorosa realtà del vissuto femminile è qui tematizzata. In pochi versi è narrato il dramma delle donne che dietro di loro lasciano l’aria della propria stanchezza «come dietro una candela appena spenta», perché impossibilitate a esprimere ciò che le tormenta intimamente, costrette a vivere nel mondo delle apparenze («Il rossetto sul bordo della tazzina non è per nulla una prova / loro imitano se stesse»). E anche se i versi hanno riferimenti comuni, ricordandoci che in molte società europee oggi il silenzio è la condizione piùdiffusa della donna, siamo propensi a intendere il richiamo di questa poesia a quella data - «1990» - e a quel luogo - «Doboj». Molto ci induce infatti a pensare che l’autrice in quell’anno e in quel luogo, parlando della comunicazione femminile in termini generici, in realtà si riferiva anche al silenzio della sua parola poetica («In un silenzio molto sospetto / del quale si circondano come di un diversivo / depositano parole non rivolte a nessuno»); un silenzio che, come abbiamo ricordato, aveva caratterizzato la sua poesia giovanile, occultante i referenti nel reale, ma che scomparirà nella produzione più recente, quando troverà nella terribile realtà segnata dalla guerra il suo contesto predominante. Quello che rappresenta il tratto distintivo e originale della recente scrittura poetica di Dautbegovic´, una chiara volontà di ricordare ciò che l’io poetico vive nell’immediato, si trovava in fieri già nei suoi primi componimenti. Tuttavia, le vicende legate all’esilio della poetessa sono sicuramente da considerarsi tra le cause prime che hanno fatto emergere questo aspetto peculiare della sua poesia attuale: la consapevolezza di trovarsi, dopo lo scoppio delle guerre degli anni Novanta, in una nuova condizione esistenziale, che Brodskij ha definito «metafisica», determinata dal cambiamento del luogo di dimora, e la necessità di offrirsi come testimone nel quotidiano. Ma come ci ricorda la poetessa stessa, in una intervista rilasciata in occasione di un importante premio: «L’uomo non può creare per puro diletto, qualcosa lo deve stimolare, deve dapprima vivere un’esperienza per essere in grado di concepire qualcosa di nuovo». Che proprio le date e i luoghi rappresentino un referente importante, senza il quale le poesie di Dautbegovic´ non sarebbero le portatrici degli stessi valori poetici, emerge anche dai versi più recentidella raccolta Il tempo degli spaventapasseri. Come se si trattasse di scrittura diaristica, di un «diario in versi», molte poesie di quest’opera trovano la loro collocazione negli ultimi due decenni nella città di Zagabria, e si ha la sensazione che, quando ciò non avviene, l’autrice, spezzando i legami tra il quotidiano e la parola poetica, voglia nascondere qualcosa accaduto in un luogo e uno spazio determinati, mentre sa che in questo potrà aiutarla l’inarrestabile corso del tempo. E ricorda ai suoi lettori come i tragici eventi della ex Jugoslavia e in modo particolare la vita trascorsa in esilio a Zagabria siano centrali per comprendere l’ultima sua produzione poetica, segnata dalle esperienze della guerra. Il mondo «alterato» con il quale entriamo in contatto leggendo le poesie di Jozefina Dautbegovic´ mostra un io poetico ferito, che però non si chiude autisticamente in se stesso, bensì presta generosamente la propria voce a chi è più debole, al «subalterno» che non può parlare ma che ha la necessità di far sentire le proprie urla di dolore. Il mondo intimo delle sue poesie diventa il mondo di tutti coloro che hanno visto la propria vita invasa prepotentemente dalla guerra, da ciò che la guerra circonda o accompagna e che ad essa consegue. Quello che ci comunica l’io poetico «dislocato», che vive, come veniamo a sapere da uno dei titoli delle sue poesie, “Al valico di frontiera”, diventa la voce poetica di un’intera comunità segnata dagli eventi degli anni Novanta, dalla distruzione causata dalla guerra ai popoli della ex Jugoslavia. Se l’esilio è sicuramente tra i temi più presenti in questa raccolta, in quanto testimonia la condizione della poetessa, esso non ha la priorità sulle altre tematiche legate al destino di distruzione e di sofferenza di questi popoli. Incontriamo in queste poesie la morte violenta, le fosse comuni, la perdita della quotidianità, i crimini di guerra, la fragilità di un’intera comunità incapace di emarginare la realtà bellica, che prepotentemente si è imposta sulla vita e per sempre l’ha cambiata. Anche quando Dautbegovic´ ci propone versi in prima persona, pare di sentire l’eco di questa comunità: La scena che dovrebbe suonare consolatoria A me in realtà non è successo niente sono riuscita a uscire dalla città prima che catturassero la mia camicetta gialla di seta prima che con la baionetta accorciassero le mie gonne troppo lunghe che comunque non amavi perché nascondevano le ginocchia Dico che non mi è successo niente Ma io ancora tremo a piedi nudi sul cemento bagnato di un qualche lager e nessuno mi troverà mai più Lontana da tutto svolgo attività quotidiane completamente libera Ma in ogni sogno mi catturano di nuovo mentre mi difendo tento di fuggire piango mi fa male tutto così tanto che in stato di veglia non ho coraggio di muovermi Quando nessuno guarda tastando cerco i gonfiori e conto le unghie sulle dita mentre stringo la maniglia nel tram Parlo normalmente rido scrivo poesie d’amore mangio con gusto e regolarmente Ma io in realtà raggomitolata nell’angolo di un qualche lager sul cemento bagnato piango Quando le previsioni del tempo alla TV annunciano l’abbassamento della temperatura il vento del nord e la neve sui monti io stretta ad un termosifone caldo tremo perché sono a piedi nudi sopra la fossa al freddo secco e aspetto che mi chiamino Mentre ti telefono e fisso l’appuntamento per il caffè che mi rende felice disegno con grande precisione le sbarre sulla carta Nessuno mi potrà mai più liberare mentre mi dici dormi non è successo niente.Zagabria, 17/XI/1995 da Prizori s podnog mozaika (Scene da un mosaico)

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