domenica 12 settembre 2010


Brilla ancora l'armatura
del principe assassino


 

«Carlo Gesualdo, sorretto da San Carlo Borromeo, riceve il perdono dei suoi peccati» di Giovanni Balducci in Santa Maria delle

Fu il dono di nozze di Eleonora d'Este a Carlo Gesualdo da Venosa. Lui era musicista, ma aveva già ucciso per onore la prima moglie e il suo amante

ALBERTO MATTIOLI

I musei sono luoghi pieni di storia, ma anche di storie. In questa serie proviamo a raccontarle a partire da un oggetto, foss'anche un piccolo pezzo che pochi guardano. Basta lasciarlo parlare.

KONOPISTE
Se un giorno d'estate un viaggiatore si trovasse a passare dal castello di Konopiste, 50 chilometri a Sud-Est di Praga, farebbe una curiosa scoperta. Il castello è un pesante rifacimento ottocentesco, con gallerie tappezzate delle corna di migliaia di cervi che ebbero la sventura di trovarsi dalla parte sbagliata di una canna di fucile e soffocanti salotti e salottini vittoriani arredati all'insegna del più ce n'è e meglio è. Della grande attrazione bellépochiana del castello, i celebri roseti, resta poco. Ma, in mezzo al bric-à-brac, il turista avvertito troverà ciò che vale il viaggio. Si tratta di un'armatura «per giostrare alla palanca» che fu realizzata a fine Cinquecento da un grande artista, l'armoraro milanese Pompeo della Cesa (1537 circa - 1610) per un altro, il musicista Carlo Gesualdo (1566-1613). Che cosa ci faccia in un castello boemo è l'oggetto di questa storia, in cui compaiono un principe assassino, un altro assassinato, un delitto d'onore e uno politico, molti madrigali, un grande matrimonio, la nascita dell'Italia unita e quella della Cecoslovacchia. Il protagonista è Carlo Gesualdo, principe di Venosa, grande nobiltà meridionale, nipote di San Carlo Borromeo. E, soprattutto, uno dei massimi musicisti italiani della sua epoca e non solo di quella. Nei suoi madrigali, l'ultima grande stagione della polifonia sprofonda in complessità abissali, audacie armoniche, cromatismi allucinatori. Gesualdo è un musicista «da musicisti», forse, più che da grande pubblico. Ma, senza dubbio, un grandissimo musicista.

Tant'è: per tutti, rimane il principe assassino del delitto del secolo, protagonista cattivo di una storia d'amore e di morte cantata dal Tasso («Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto / Di beltà, di virtù l'oscuro occaso / E in lutto l'armonia rivolga il canto») ma anche nei lamenti popolari. Fra la prima moglie di Gesualdo, Maria d'Avalos, e Fabrizio Carafa, duca d'Andria, giovani bellissimi e innamoratissimi, nacque la più clamorosa relazione extraconiugale del secolo. Finché, un brutto giorno, il 16 ottobre 1590, il marito cornuto, che non poteva più fingere di non vedere, simulò di partire per la caccia, lasciò che la moglie ricevesse l'amante e, in una notte di tregenda, li fece sorprendere dai suoi bravi e trucidare in un lago di sangue. Fra i compianti cantati dalla plebe napoletana, sempre sentimentale, fiorirono le leggende: come quella dei due amanti che sanno di dover morire e aspettano i colpi abbracciati pregando insieme Dio di perdonare e di perdonarli; o quella del principe che ucciderli non vorrebbe, ma viene costretto dalle pressioni della famiglia ferita nell'onore. Mistero. Quel ch'è certo è che nel day after Carlo Gesualdo andò a confessare dal viceré spagnolo Miranda, che gli consigliò di lasciare Napoli per sfuggire non alla giustizia, poiché ovviamente il suo delitto era nel suo diritto, ma alla vendetta delle famiglie degli uccisi.

Però la politica, anche quella matrimoniale, ha le sue ragioni. Quattro anni dopo, il 21 febbraio 1594, Carlo Gesualdo sposò Eleonora d'Este, nipote di Alfonso II, duca di Ferrara. Il regalo di lei a lui è, appunto, l'armatura di Konopiste. La sua decorazione all'acquaforte è lussureggiante. Ci sono grifoni, delfini, putti, leoni, sfingi, sirene, faretre, frecce, personaggi mitologici e personificazioni di virtù e grazie, come se l'Iconologia di Cesare Ripa, breviario dell'allegoria barocca, fosse stampata sull'acciaio. Alla passione di Carlo alludono trombe, tromboni, tamburi, arpe e liuti, risuonanti a maggior gloria del «Musicorum Princeps», il principe dei musici. In più, c'è un rebus musicale per iniziati, un piccolo pentagramma con due sole note. Sono un mi e un sol: nella notazione alfabetica, una «e» ed una «g». Come Este e Gesualdo, le casate unite dall'amore. O almeno dal matrimonio.

Carlo passò gli ultimi anni nel suo feudo meridionale a scrivere madrigali e fondare conventi. Per la famiglia della moglie non furono tempi facili. Nel 1598, dopo l'estinzione del ramo principale degli Este, il tosto pontefice Clemente VIII Aldobrandini, quello che mandò al rogo Giordano Bruno e al patibolo Beatrice Cenci, rivendicò Ferrara, feudo ecclesiastico. Gli Este dovettero traslocare a Modena, feudo imperiale, con le loro favolose collezioni. Qui regnarono fino al Risorgimento. Nel frattempo, erano diventati Absburgo-Este da quando l'ultima erede della famiglia sposò uno degli innumerevoli figli di Maria Teresa, mentre le collezioni erano un po' meno favolose dopo la sciagurata vendita dei quadri migliori all'elettore di Sassonia. Quando, nel 1859, arrivarono i piemontesi, l'ultimo duca, Francesco V (1819-1875) se ne andò in esilio, ovviamente in Austria, portandosi dietro tutto quel che poté, compresa l'armatura di Carlo.

Senza eredi maschi, decise di lasciare tutto a un altro Absburgo, l'arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, con un complicatissimo testamento nel quale condizionava l'eredità al fatto che l'arciduca assumesse il nome di Absburgo-Este. Francesco Ferdinando titubò, perché nella hit parade dei suoi odii, dopo gli arcidetestatissimi ungheresi, venivano subito gli italiani, che chiamava spregiativamente «Katzelmacher», fabbricanti di mestoli. Ma il patrimonio era ingente e comprendeva, oltre a un bel palazzo viennese, appunto Palazzo Modena, che oggi ospita il ministero degli Interni austriaco, anche le collezioni.

Così Francesco Ferdinando accettò, si chiamò Absburgo-Este, comprò Konopiste e ci portò gli objets d'art degli Este, armatura di Gesualdo compresa. Nel castello si dedicava a due delle sue tre passioni, la caccia e le rose. La terza era ovviamente la moglie, una contessa Sophie Chotek, nobile sì, ma non abbastanza per poter regnare con lui. Comunque il problema non si pose perché, come sanno perfino i liceali italiani, Francesco Ferdinando fu assassinato a Sarajevo il 28 giugno 1914, scatenando la Prima guerra mondiale al termine della quale la neonata Cecoslovacchia debuttò sequestrando subito i beni dell'ex famiglia regnante. Incluso Konopiste e tutto quel che c'era dentro. Oggi è morta anche la Cecoslovacchia. Ma l'armatura realizzata a Milano per un principe napoletano che si sposava a Ferrara è sempre lì, in un castello boemo, nel suo incanto scintillante. A dirci che la storia passa, le dinastie tramontano, i regni cadono, ma la bellezza resta. O almeno speriamo.

La Stampa Cultura

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