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giovedì 31 marzo 2011
La badessa Ottilia
Le notizie cronologiche sono scarse; Odilia o Ottilia, figlia del duca Adalrico di Alsazia, regione della Francia orientale, ma che nei secoli passati fu più volte della Francia o della Germania; nacque dunque in Alsazia nel secolo VII, cieca dalla nascita e secondo la leggenda, il padre l’affidò ad una domestica.
Costei condusse la bambina al monastero di Balma (Baume-les-Dames) e si racconta che nel momento in cui il vescovo s. Erardo la battezzava, riacquistò la vista. Restò a Balma per un certo tempo, poi Odilia fu ricondotta a casa da suo fratello Ugo; il padre Alderico fondò per lei il monastero di Hohenbourg in Alsazia di cui divenne la prima badessa e lì visse santamente.
Sempre secondo la leggenda, lei stessa fondò il monastero di Niedemunster. Morì il 13 dicembre di un anno della fine del secolo VII. La badessa e il monastero di Hohenbourg sono menzionati in una donazione fatta alla badessa Adela nel 783; la prima ‘Vita’ di s. Odilia fu scritta agli inizi del secolo X da un cappellano di Hohenbourg, per la maggior parte leggendaria.
La regola osservata nel monastero fu quella benedettina, integrata da altre particolarità, questo sembra dipendere dalla parentela fra Adalrico e sua figlia Odilia con Leodegaro, il grande diffusore del monachesimo benedettino.
La santa badessa fu sepolta ad Hohenbourg nella chiesa di S. Giovanni, questa chiesa e la tomba furono nominate per la prima volta da papa Leone IX il 17 dicembre 1050. Le reliquie hanno una storia a sé, alcune vennero trasferite in altri posti, l’imperatore Carlo IV il 4 maggio 1353 ricevette il braccio destro, oggi conservato a Praga.
Altre che erano ad Odilienberg furono salvate dalla rivoluzione francese nel 1795, anche se il sarcofago perse allora il suo rivestimento di marmo, nel 1842 furono deposte in un cofano sotto l’altare.
Le reliquie invece che furono portate ad Einsiedeln nel sec. XVII, furono distrutte dai rivoluzionari nel 1798. Il culto per s. Odilia fu molto diffuso per tutto il Medioevo, in tutte le abbazie germaniche e in alcune regioni francesi; ancora oggi è molto venerata nelle diocesi di Monaco, Meissen, Strasburgo e nelle abbazie benedettine femminili austriache.
Il Martirologio Romano seguendo l’antica celebrazione del sec. XII a San Gallo, la ricorda al 13 dicembre.
S. Odilia dal 1807 è patrona dell’Alsazia, dove riceve un grande culto popolare, il Mont-Sainte-Odile è un luogo di pellegrinaggio assai frequentato, dove viene celebrata il giorno dell’anniversario della traslazione, avvenuta il 7 luglio 1842.
Cappelle in suo onore sono costruite su colline e montagne, è invocata specialmente per la guarigione degli occhi, delle orecchie o dei mali di testa, infatti essa è rappresentata in vesti di badessa, con un libro aperto su cui posano due occhi.
A volte è raffigurata mentre libera dal Purgatorio l’anima di suo padre Alderico, inoltre a volte porta in mano un calice, che si riferisce ad un episodio della ‘Vita’ per cui Odilia gravemente malata e poi morta senza aver ricevuto il Viatico, grazie alle preghiere delle sue consorelle addolorate, risuscitò e fattosi portare il calice con le particole, si comunicò da se stessa, morendo subito dopo.
Il suo nome è Odilia ma dal sec. XV in Baviera e poi in Alsazia fu adottata la versione Ottilia
mercoledì 30 marzo 2011
Ancora sulla grandissima Plath
Vita di Sylvia Plath
Una psichiatria nosografizzante e catalogante troverebbe senza difficolta’ diverse definizioni per inquadrare la dinamica personologica di Sylvia, inserendola ora nei disturbi dell’umore e ora in quelli della personalita’, a seconda che prevalga una lettura piu’ centrata sulla polarita’ affettiva (umore basso, umore alto) o piu’ centrata sullo stile del carattere(che diventa cosi’ borderline, istrionico, e via dicendo).Una psicologia che prenda come cardine la relazione, rintraccerebbe con relativa facilita’ le tracce di un dolore antico nella precoce perdita dell’adorato padre Otto, quando Sylvia ha nove anni, ne’ si puo’ ignorare la difficile e timorosa relazione con la madre, la severa Aurelia, a cui Syliva non vuole dispiacere in nulla, cosi’ che nel tragico matrimonio con Hughes non potevano che ripetersi, secondo il misero schema della coazione a ripetere, il bisogno e la ferita antica, ambedue mai sopiti e mai risolti. Come spesso accade per la vita dei poeti e dei creativi, tutti I tentativi di lettura psicologizzanti — o, ancor peggio, psichiatrizzanti — non dicono nulla dell’animo del poeta, e anzi ancor piu’ ne immiseriscono il talento collocandolo nelle maglie sempre strette e mai esaustive degli inquadramenti forniti dalle scienze alle sofferenze e alle contraddizioni dell’uomo.
Chi è stata Sylvia Plath ?
Una donna americana molto legata alla madre, ossessionata dalla morte del padre scomparso quando lei aveva otto anni, che tenta per la prima volta il suicidio a 21 anni, sposa un promettente e bellissimo poeta inglese, ha due bambini, il marito la lascia, e muore suicida a 30 anni.
Scrive poesie da sempre.
Genitori di Sylvia
Sylvia Plath nasce il 27 ottobre del 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston. Suo padre Otto Emil Plath, figlio di genitori tedeschi, si trasferisce in America a 16 anni dietro invito dei nonni, emigrati negli Stati Uniti, i quali offrirono di pagargli gli studi a patto che il ragazzo entrasse negli ordini come pastore luterano. Otto, compiuti gli studi, dopo una breve esperienza in seminario, rinunciò a prendere gli ordini e ruppe i rapporti con tutta la famiglia; in seguito diventerà uno stimato entomologo, oltreché un eccellente linguista. La mamma di Sylvia, Aurelia Schober apparteneva ad una famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts, abituata in casa a parlare solo tedesco, da bambina incontrò grandi difficoltà di inserimento, e, crescendo, trovò sfogo e consolazione nei suoi interessi letterari. Nel 1929, durante in corso di tedesco alla Boston University, conosce Otto Plath, di ventun anni più anziano, con il quale si sposerà nel gennaio del 1932. Aurelia, così, smise di insegnare tedesco nelle scuole superiori, per seguire il marito nelle sue ricerche che culminarono in una tesi sulle api. Questa passione paterna diventerà un elemento ricorrente in molte poesia di Sylvia. Alla sua nascita, il padre disse ai colleghi che dopo due anni e mezzo avrebbe voluto un maschio e, quando nacque Warren Joseph, il 27 aprile 1935, Otto Plath si conquistò la fama di uomo che ottiene ciò che vuole. A quell’epoca pur accusando gravi disturbi di salute, Otto Plath si rifiuta di consultare il medico, continua ad insegnare ma si ritira in casa, in un silenzio oppressivo e doloroso. Più tardi i suoi gemiti ed i suoi furori saranno un tratto dominante delle poesie di Sylvia e della sua condizione. Solo nel 1940 il padre decide finalmente di sottoporsi alle cure mediche, in seguito alle quali, a causa di un diabete mellito in stadio avanzato, gli viene amputata una gamba, ma l’intervento tardivo si rivela inutile ed Otto muore il 5 novembre di embolia polmonare. Sylvia dirà che questa data segna la fine della sua infanzia e di ogni felicità.
Adolescenza
Sylvia nel grembo della madre, una donna forte, colta, aperta, deve depositare successi scolastici, successi letterari, una vita perfetta da figlia americana perfetta. La madre amatissima e dalla quale ovviamente si sentiva oppressa. Ma lei è straniera, come del resto i genitori di origine tedesca. Sylvia è l’espatriata, la donna che con dolore ha strappato le sue radici. Sylvia impara da subito, ancora bambina, a comporre versi. Il marito in seguito racconterà che scriveva molto lentamente, attenta ad ogni parola, consultava febbrilmente dizionari, ossessionata dagli schemi metrici elaborati e complessi. La sua aspirazione è la perfezione. Le sue poesie sono limate e curate fino all’inverosimile. Ha una fantasia ricca e surreale: “Vuole sprofondare fin là dove tra le parole si rivelano legami magici, veri e propri vincoli” (Nadia Fusini).
A 12 anni entra nella Philips Junior High School, incomincia a pubblicare le sue poesie nella rivista scolastica ed a compilare il diario.
1950-Diciottenne, dopo 49 rifiuti pubblica finalmente un racconto: E l’estate non tornerà di nuovo (And summer shall not come again) e nel settembre dello stesso anno ha inizio il carteggio con la madre Aurelia.
New York
Tre anni dopo, grazie ad un racconto, Domenica dai Minton (Sunday at the Mintons), vince una borsa di studio ed un soggiorno di un mese a New York come redattore inviato (guest editor) della rivista femminile “Mademoiselle” che aveva ospitato il racconto.
Su questa esperienza si aprirà il suo unico romanzo bellissimo romanzo, La campana di vetro(The Bell Jar)., un’esperienza autobiografica, dove narra con alto stile e semplicità gli assurdi cliché dell’America anni cinquanta, gli anni di una caccia alle streghe culminata con la condanna a morte dei Rosenberg, esprime il suo rifiuto estremo e sofferto ad ogni codice di comportamento, alle istituzioni di una middle-class di cui lei stessa faceva parte, l’ossessione della morte, che traspare sin dalla visita alla tomba del padre, intesa come fatale potenza della volontà, come espressione massima e liberatoria del sé. La sua vita e la sua poesia seguivano percorsi paralleli e così, arrivarono insieme al loro compimento. L’impatto con la mondanità newyorkese ebbe effetti devastanti nelle sensibilità di Sylvia, in quelle frequentazioni avvertiva il peso dell’ipocrisia di una middle-class americana negli anni maccartisti, la stessa che è proiettata nella figura di Buddy Willard.
1953- Estate. Aveva 21 anni. Sylvia è a Boston, a casa di sua madre. Ha avuto una piccola delusione, non è stata ammessa ad un importante corso di scrittura. Passa le giornate dormendo, poi subentra l’insonnia. Non si lava, a volte sembra catatonica. Un giorno la madre nota dei segni rossi sulle sue gambe. Alla madre terrorizzata Sylvia disse: “Oh, mamma, il mondo fa schifo! Voglio morire! Moriamo insieme!”.
Una mattina si sdraia a prendere il sole in giardino e a leggere, come amava fare, ma non riesce a concentrarsi su quello che legge, l’Ulisse di Joyce. Non riesce a seguire le frasi. Che succede? Vuole morire. La madre la porta da uno psichiatra, le viene prescritto un ciclo di elettroshock. L’elettroshock glielo fanno in ambulatorio e senza anestesia. Lo descrive nel romanzo La campana di vetro, con immagini che torneranno nei suoi versi: “Poi qualcosa calò dall’alto, mi afferrò e mi scosse con violenza disumana. Uiii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un’aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finché fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due. Che cosa terribile avevo mai fatto, mi chiesi”.
Ma il dolore non passa, semmai aumenta; le sembra di essere diventata “quella cosa completamente bruciata”. Un giorno resta sola in casa. Prende una coperta, un bicchiere d’acqua, un flacone con cinquanta pillole, e lascia un biglietto: “Vado a fare una lunga passeggiata. Tornerò domani”. Scende in cantina, con una catasta di legna forma una minuscola cella e vi si richiude dentro, al buio, al fresco, all’umido. Rimane tre giorni sottoterra, nella caverna-cantina. Questa è stata la sua morte simbolica. Una morte cercata e mancata che l’ha comunque battezzata. Lei è un’iniziata.
La ritrovano dopo tre giorni di ricerca disperata. Il fratello sente dei lamenti provenire dalla cantina e si precipita. Ha inghiottito troppe pillole, ha vomitato, non morirà.
La cura una psichiatra donna, molto sensibile, comprende che Sylvia ha un quoziente di intelligenza altissimo, ma allo stesso tempo è fragile. Non parla, è catatonica, non riconosce più le parole. Poi si altera, si sovreccita. La terapia non funziona, paradossalmente ne verrà fuori con un nuovo ciclo di elettroshock. La psichiatra dirà: “Era come se volesse essere punita”.
Gran Bretagna
1954- Torna allo Smith per laurearsi sulla duplice identità nei personaggi di Dostoevskij.
Vince poco dopo una borsa di studio per Cambridge. Si trasferisce in Inghilterra. Conosce il poeta britannico Ted Hughes con cui decide di sposarsi segretamente a Londra. Il sogno di un sodalizio letterario, l’estasi dell’incontro trascina progetti di felicità e produttività, seppur il loro “far poesia” partisse da assiomi opposti, Ted curerà in seguito le pubblicazioni di sua moglie. Di fronte alla dirompente ispirazione poetica, Sylvia, tuttavia, vive drammaticamente le privazioni di una vita domestica.
La madre approva, il matrimonio, ma dentro di lei resta un buco nero che non riesce a colmare.
Stati Uniti:
La docenza, l`assistenza in psichiatria, Ann Sexton
1957-Le viene offerto, a 25 anni, un incarico di insegnamento allo Smith, e così nel giugno dello stesso anno torna negli Stati Uniti con Ted.
L’esperimento dell’insegnamento mette in luce da un lato le straordinarie capacità didattiche e di analisi letteraria di Sylvia, ma l’impegno le toglie il tempo e l’energia per produrre. In conseguenza di ciò, rifiuterà l’incarico per l’anno successivo. Sarà questa una scelta molto difficile dal momento che né Ted né Sylvia disponevano di un lavoro sicuro, ciò susciterà la forte perplessità da parte dei conoscenti che non riusciranno a comprendere il senso della decisione. Ma con il totale sostegno di Ted, da questo momento in avanti Sylvia porrà la poesia al di sopra di tutte le scelte.
1958- Lavora come aiuto psichiatra in un ospedale del Massachusetts, tenendo contemporaneamente in diario di numerosi casi clinici, nello stesso periodo segue le lezioni di poesia alla Boston University, dove conosce Ann Sexton.
Tra Sylvia ed Ann si sviluppa da subito una forte amicizia sorretta da sconcertanti analogie. Ann riferisce dei loro incontri nel suo lussuoso appartamento al Ritz, dove le due poetesse amavano trascorrere il tempo a raccontarsi le reciproche fantasie suicide.
Ritorno in Gran Bretagna:La separazione dal marito.
1960- Con Poem for a Birthday, sette poesie scritte all’avvicinarsi dei suoi 27 anni, incinta di quattro mesi, fa i conti con i tre giorni che è rimasta chiusa nella caverna-cantina a casa della madre a Boston e con l’esperienza del manicomio. Perché voleva morire? Cosa le era preso? Forse qualcuno la chiamava…Chi la chiamava? Il padre morto? La morte? Ha vissuto una morte rituale, alla quale è seguita una rinascita biologica (ora aspetta il suo primo bambino) e artistica (ha ritrovato la capacità di scrivere).
Voleva morire, ma è stata salvata ed è risorta.
“Presto, presto la carne/che il severo sepolcro ha divorato/tornerà al suo posto su di me,/e sarò una donna sorridente./Ho 30 trent’anni soltanto./E come i gatti ho nove volte per morire.
Il marito dirà: “Sembrava un’invalida, tanto era priva di protezioni interiori”.
Ted e Sylvia tornano in Inghilterra dove nasce la prima figlia: Frieda Rebecca. Ma Sylvia è ancora in piena crisi. Le sue poesie non sono vere, sono nate morte, non “respirano”. Comincia una lotta terribile contro il suo demone. La morte appare quasi ad ogni strofa, è una presenza sinistra. Adesso deve vivere accanto ad un io assassino che lei conosce bene e cerca di tenere a bada: “Ho un buon io che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo”.
Lei stessa è sgomenta dalle immagini forti delle sue nuove poesie, dopo che il demone è lasciato quasi libero. Ma è anche difficile, con un tale compagno che le alita sul collo “creare una voce tutta mia, una visione tutta mia”. Nell’ottobre uscirà Il colosso (The Colossus).
1962- Dopo un aborto avvenuto l’anno prima, nasce il secondogenito: Nicholas Farrar, nella casa di campagna del Devon. La tensione familiare, tra Ted e Sylvia, ormai irrefrenabile, culminerà nell’adulterio di Ted con Assia Gutman e la loro definita separazione. Rimane sola con due bimbi piccoli nella casa di campagna del Devon, dove si era trasferita con Ted, prima della nascita del secondo bambino, e dove era perfino diventata apicultrice; ma il triste inverno inglese la angosciava da tempo: “Come sogno la primavera! Mi manca la neve americana, che se non altro fa dell’inverno una stagione pulita, eccitante, invece di questi sei mesi di seppellimento tra il tempo umido, la pioggia, e il buio; come i sei mesi che Persefone doveva passare con Plutone”, scrive nel suo diario.
Scrive febbrilmente, all’alba, lo racconta lei stessa, “in quell’ora azzurra, silenziosa, quasi eterna che precede il canto del gallo, il grido del bambino, la musica tintinnante del lattaio che posa le bottiglie”.
La sua vita è nel caos, eppure ora scrive una poesia al giorno e sono tutte “poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita da casalinga mi avesse soffocata”. Scrive ad un’amica: “Quando facevo vita domestica felice mi sentivo come un tappo in gola. Ora che la mia vita domestica è nel caos, faccio vita spartana, scrivo con addosso la febbre alta e tiro fuori cose che avevo chiuse dentro da anni, mi sento sbalordita e molto fortunata”.
Ma non è facile: “Sto bene nella mente e nello spirito ma sono logorata e malata nella carne”. Dopo la separazione dal marito precipita in una disperata solitudine che rafforza i suoi toni mistici. Quando la rivede, qualche tempo dopo la separazione, Ted riconosce in lei qualcosa della chiaroveggente, sensazione rafforzata dalla lettura delle sue ultime poesie: “Sylvia è il poeta sciamano. In poesia penetra fino a profondità riservate in passato ai sacerdoti dell’estasi, agli sciamani, ai santoni”.
Si fanno più forti in lei il gusto del macabro e della violenza. Anche il tema del doppio, dello specchio, del sosia, le rimane sempre molto caro anche il mare – ama l’Oceano – la valenza simbolica dell’acqua, ricorrono spesso nei suoi versi.
Vorrebbe celebrare ancora il mito della propria rinascita, ma ormai costruisce solo la sua effigie funebre.
Vorrebbe staccarsi dal Ted, ma non riesce a superare lo strazio dell’abbandono.
La madre è preoccupata, grazie ad un’amica trova un’infermiera pediatrica che aiuterà Sylvia ad occuparsi dei bambini. La giovane madre-poetessa ritrova coraggio e scrive con rabbia alla madre: “Non venirmi a dire che il mondo ha bisogno di storie allegre! Quello che vuole una persona uscita viva da Belsen – fisico o psicologico – è non sentirsi dire che gli uccellini fanno sempre cip-cip e sapere invece che qualcun altro è stato laggiù e ha conosciuto il peggio, esattamente per quello che è. Mi è di molto aiuto, ad esempio, sapere che c’è gente che divorzia e fa una vita d’inferno che non sentire di matrimoni felici”.Le difese di Sylvia si spezzano e decide di trasferirsi di nuovo a Londra. Questi mesi sono segnati da un’intensa ripresa letteraria, in cui vengono scritte la maggior parte delle poesie di Ariel e di Winter Trees.
Rapporto con i figli
Sylvia Plath ha scritto saggi, racconti, articoli, un unico romanzo pubblicato quando era ancora in vita e, naturalmente, poesie. Ma ha scritto anche tre leggere, allegre e simpatiche storie per bambini.
“Mia madre, Silvia Plath, voleva scrivere. Non c’è dubbio che per lei questa fosse la cosa più importante”, scrive la figlia Frieda Hughes nell’introduzione a “3 storie per bambini”, raccolte di recente da Mondadori in un volume riccamente illustrato. Con commovente stupore la figlia racconta come la madre, nella sua brevissima vita, abbia fatto in tempo a scrivere anche un denso diario e tre storie per bambini: A letto, bambini!, Max e il vestito color zafferano; Folletti in cucina.
In queste storie non c’è traccia dell’angoscia, del senso di morte, delle ossessioni “notturne” che hanno fatto di Sylvia Plath una grandissima artista: qui la vita quotidiana è serena e perfettamente vivibile. Ancora Frieda: “Mentre le poesie testimoniano il suo grande talento e le sue doti intellettuali, mentre il diario descrive la sua battaglia personale quotidiana, le sue speranze e le sue paure, queste tre storie mostrano un lato della sua personalità che desiderava un mondo semplice e felice, dove i problemi possono risolversi facilmente e dove ogni vicenda si risolve con il lieto fine”.
Bianca Pitzorno ha curato l’edizione italiana delle storie per bambini di Sylvia Plath. Scrive: “Non ero preparata ai versi ironici e leggeri di A letto bambini!, e alla prosa semplice, dolcemente ironica, da racconto della buonanotte, delle due storie successive. Sapevo che dal matrimonio di Sylvia Plath e Ted Hughes erano nati due bambini che non avevano fatto quasi in tempo a conoscere la madre, morta suicida quando Nicholas non aveva ancora un anno e Frieda ne aveva solo tre. Eppure per loro, per quando sarebbero stati in grado di leggere o almeno di ascoltare, questa madre disperata, questa artista così sensibile da non tollerare lo strazio della vita quotidiana, aveva fatto in tempo a scrivere una filastrocca esilarante, piena di sorprese e giochi di parole, e due storie semplici e affettuose, piene di serenità familiare”.
“Forse – si chiede Bianca Pitzorno, la più grande scrittrice italiana di libri per ragazzi – era questa l’infanzia che disperatamente immaginava per i suoi figli”.
Londra
1963- Decide di tornare a vivere a Londra, il peso dell’ isolamento nel Devon si è fatto angosciante. Esce sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas The Bell Jar.
E Sylvia sembra aver riacquistato forza e fiducia: “Vivere separata da Ted è meraviglioso, non sono più nella sua ombra ed è fantastico essere apprezzata per me stessa e sapere quello che voglio. Magari chiederò anche in prestito un tavolo per il mio appartamento all’amica di Ted…I miei bambini e scrivere sono la mia vita, e che loro si godano pure le loro storie d’amore e i loro party, pfui!”.
A Londra, nel mese di gennaio del 1963, Sylvia, come gli altri londinesi, sta vivendo il gennaio più freddo degli ultimi 150 anni. Scaldarsi, lavarsi e cucinare è un’impresa. Le sta vicino il dottor Horder, preoccupato per la perdita di peso di Sylvia. Può contare su qualche amico, ed anche il marito va a trovarla spesso nel nuovo appartamento. Prende degli antidepressivi. Scrive alla madre, in una delle ultime lettere: “Adesso vedo com’è tutto definitivo, ed essere catapultata dalla felicità mucchesca della maternità nella solitudine e nei problemi non è certo allegro”.
Fa progetti per il futuro: “Adesso i bambini hanno più che mai bisogno di me e per i prossimi due o tre anni andrò avanti a scrivere la mattina, a passare con loro il pomeriggio e vedere amici o studiare e leggere di sera”.
Ma il dottor Horder, che la segue assiduamente, è molto preoccupato per le sue evidenti condizioni di esaurimento psico-fisico e sta cercando di organizzare un ricovero in ospedale. Sylvia al mattino si alza all 4,30 per comporre le sue poesie, dopo aver portato la colazione(pane e latte) nella stanza dei figli, spalanca la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo ed un asciugamano.
Va in cucina, anche qui sigilla tutte le fessure, poi infila la testa dentro il forno e accende il gas. Ha lasciato solo un breve messaggio, scritto su un foglietto appuntato sulla carrozzina del figlio: “Per favore, chiamate il signor Horder”.Horder è stata l’ultima persona a vederla viva, insieme ad un vicino di casa.
Cronologia opere
La Biografia di Sylvia Plath è stata tratta da Iceblues; sito: www.fuorispazio.net e da una scheda a cura di Luisa Nieddu, per il sito www.girodivite.it/antenati.
Poetica
Hughes si occupò dei beni personali e letterari di Sylvia Plath. Distrusse l’ultimo volume del diario di Sylvia, che descriveva il periodo che avevano trascorso insieme. Nel 1982, Sylvia Plath divenne la prima poetessa che vinse il Premio Pulitzer dopo la propria morte (per The Collected Poems).
Molti critici, spesso femministi, accusarono Hughes di aver tentato di controllare le pubblicazioni per scopi personali. Hughes negò ciò, anche se si accordò con la madre di Sylvia, Aurelia, quando questa cercò di bloccare la pubblicazione delle opere più controverse di sua figlia negli Stati Uniti. Nella sua ultima raccolta, Birthday Letters, Hughes ruppe il suo silenzio su Sylvia. La copertina fu disegnata da Frieda. Mentre i critici all’inizio risposero in modo favorevole al primo libro della poetessa, The Colossus, questo è stato descritto anche come convenzionale e mancante del pathos delle composizioni successive. Il peso dell’influenza di Hughes è stato oggetto di un grande dibattito. I versi di Sylvia Plath possiedono una voce propria e le somiglianze fra i due poeti sono superficiali.
I componimenti di Ariel segnano una svolta da quelli precedenti verso un’area della poesia più confidenziale. È probabile che gli insegnamenti di Lowell giocarono un qualche ruolo in questo cambiamento. L’impatto di Ariel fu sorprendente, a cause delle sue schiette descrizioni di malattia in poesie autobiografiche come Daddy. L’opera di Sylvia Plath è stata associata ad Anne Sexton. Nonostante critiche e biografie pubblicate dopo la sua morte il dibattito sul corpus dei componimenti di Sylvia sembra una lotta tra i lettori schierati con lei e quelli schierati con Hughes. L’ostilità dei sostenitori dell’autrice nei confronti del compagno ha raggiunto il suo culmine quando le lettere del nome “Hughes” sono state cancellate dalla lapide di Sylvia.
martedì 22 marzo 2011
Donne scandalose: Marie Duplessis (1824-1847), la vera storia de "La Signora delle Camelie”
“Qualcuno potrebbe credere che Marie fosse Giovanna d’Arco, qualcun altro un’eroina nazionale, così profonda era la tristezza generale”, lo scrisse Dickens dopo essersi trovato tra la folla che partecipò all’asta degli ambiti beni venduti per risarcire i numerosi creditori. Marie Duplessis, pseudomino di Rose Alphonsine Plessis, è stata una famosa cortigiana francese, amante di molti uomini di spicco e facoltosi, e musa ispiratrice per la Margherite Gautier del giovane Alexandre Dumas, anch’egli tra le vittime dell’affascinante “Signora delle Camelie”.
La vita di questa donna ha ispirato numerose opere letterarie, teatrali e cinematografiche, e tra le più famose, oltre al romanzo di Dumas, la celeberrima opera lirica di Giuseppe Verdi “La Traviata”. Ed è così che attraverso questi due capolavori, la vita breve ma intensa di Marie Duplessis viene consegnata all’eternità.
Nata in Normandia in una famiglia estremamente povera. Sua nonna paterna era una prostituta e suo nonno un sacerdote. Suo padre, proprietario di un negozio di tessuti, era un alcolizzato e violento. Al contrario, la mamma, Marie-Louise Deshayes, proveniva da una famiglia rispettabile. Ben presto il matrimonio finisce e Rose - appena adolescente- inizia a lavorare prima come cameriera in un albergo, poi in una fabbrica di ombrelli a Gacé, sempre nelle vicinanze del paese d’origine. Successivamente si trasferisce a Parigi in cerca di fortuna, dove continua a mantenersi con lavori umili. Divenuta l’amante di un commerciante, inizia un percorso che la porterà a diventare, a soli sedici anni, una protagonista della vita mondana della Parigi di metà ‘800. Bellissima donna, longilinea e piccolina di statura, carnagione chiara, occhi ipnotizzanti e sorriso ammaliante. Seduttrice naturale, spontanea, temperamento passionale e intrigante. Dotata di una notevole intelligenza, si dedica alla lettura, impara a suonare discretamente il piano e riesce a formarsi una vasta cultura da autodidatta, il tutto con ritmi rapidissimi.
Uno dopo l’altro cadono ai suoi piedi, rapiti dalla sua particolare bellezza, freschezza, vivacità e soprattutto spirito, uomini di spicco dell’epoca. E’ in questo momento che Rose Alphonsine cambia nome assumendo quello più aristocratico di Marie Duplessis. Omnipresente nei salotti più chiacchierati della Parigi di inizio ‘900, destò scandalo la sua relazione con Agénor Gramont, duca di Guiche, rampollo di una nobile famiglia destinato a diventare uomo di primo piano nella Francia di Napoleone III. La liaison provocò talmente tanti pettegolezzi che la famiglia intervenne allontanando il delfino dalla capitale. La situazione era stata resa insostenibile a causa del comportamento di Agénor che voleva al suo fianco Marie in ogni apparizione pubblica, ed è proprio questo abbandono che la ferisce e umilia.
Ma il duca non era il solo a frequentare la Duplessis, anzi, contemporaneamente erano sette gli amanti che si contendevano le gioie del letto. Finalmente nel 1844, all’età di 20 anni, Marie consacra il passaggio dal demi-monde alla ricchezza. Casa regale, rarità, arazzi, libri, mobili, gioielli, argenterie, un intero guardaroba con capi lussuosi, carrozza e cavalli. Amanti e conoscenze privilegiate. Si annoverano tra gli spasimanti, il conte Edoardo de Perregaux, il conte svedese von Stackelberg, l’ambasciatore russo a Vienna dell’epoca, e in particolare il compositore Franz Liszt, che tenterà di far dimenticare la relazione con Dumas, troncata improvvisamente da una lettera in cui lo scrittore prende le distanze più che dalla donna “Dal dolore che una vicenda così coinvolgente non poteva non provocare”.
Dopo Liszt, Marie sposa il conte de Perrégaux nel 1846, ma l’unione finisce ancor prima di iniziare. Così rientra a Parigi e, imperterrita, continua la sua vita a perdere in tumulti e disordini, preludio di una malattia inesorabile impossibile da esorcizzare. Quando la sua esistenza inizia a scivolarle via dalle mani, Marie si ritira in privato e il 3 febbraio 1847 muore di tisi. Alla sua morte erano presenti solo due dei suoi infiniti amanti, il conte von Stackelberg e il marito fuggiasco conte De Perrégaux. Ai suoi funerali ci fu un’enorme partecipazione di folla, e la vendita all’asta di tutti i suoi beni disposta per risarcire i creditori, vedrà i partecipanti strapparsi di mano ogni singolo oggetto.
La “Signora delle Camelie”, chiamata così perché tutti i giorni aveva in mano un mazzo di camelie bianche tranne cinque giorni al mese che le aveva rosse, riposa in una piccola tomba del cimitero parigino di Montmartre, lo stesso in cui si trova Dumas, ed è tuttora meta di pellegrinaggio in cui la figura di Marie è divenuta un’eterna icona romantica.
lunedì 21 marzo 2011
L' ARABIA PREISLAMICA e la cultura beduina
Gran parte del territorio della penisola arabica e' costituito da deserti, tra i piu' vasti ed aridi della terra, in passato solcati da piste carovaniere che mettevano in comunicazione l'estremo sud della penisola con l'area siro-palestinese a nord, sul Mediterraneo, e punteggiate da oasi nei pressi delle quali sorgevano gli unici insediamenti umani possibili. La fascia costiera della penisola arabica era abitata da popolazioni stanziali di agricoltori e mercanti, mentre l'interno, quell'infuocato quadrilatero di sabbia che oggi costituisce l'Arabia Saudita, da popolazioni nomadi che vivevano di pastorizia e razzie, I beduini, o figli del vento. Le uniche citta', Mecca e Yathrib (Medina), sorgevano nei pressi di oasi, sulle confluenze di piste carovaniere ed erano percio' abitate da popolazioni sedentarie che vivevano soprattutto di commercio.
Nel deserto di Rub-al-khali I beduini vivevano spostandosi continuamente da un'oasi all'altra, alla perenne ricerca d'acqua, avanzando tra due infiniti, la sabbia ed il cielo. La loro societa' era la piu' dura nella quale gli uomini potevano vivere, ma, secondo il poeta, dopo aver attraversato il deserto d'Arabia ed aver vissuto nella societa' piu' dura che si possa immaginare, il nomade ne esce purificato e superiore al resto dell'umanita'. Nel deserto la dura lotta per la sopravvivenza porta a una selezione fondata non solo sulle attitudini fisiche ma anche su quelle morali. Per poter vivere nel deserto occorre un elevato senso della solidarieta', insieme alla capacita' di rispettare e valutare il valore degli uomini. Il codice di vita beduino era semplice e cavalleresco insieme: popolazione straordinaria, centrifuga ed anarchica, aveva il culto dell'ospitalita' e del coraggio e l'amore per le "qaside", i versi dei poeti del deserto, inneggianti alle doti guerresche, alla nobilta' della propria stirpe ed alle virtu' sensuali della propria donna. Essi si consideravano i figli del vento, gli unici uomini liberi, che vivevano come si augurava il poeta: "Vorrei non dovermi mai coricare la' dove mi sono destato", e possedevano solo cammelli e le immense tende grigie. Nel momento in cui I cammellieri diventavano proprietari anche di pecore, scendevano di un gradino nella gerarchia del deserto. Diventavano meno mobili, dunque meno liberi. Meno nobili. La pastorizia e la guerra erano le loro principali occupazioni, il cammello e il cavallo I compagni quotidiani, le armi lo strumento necessario, le virtu' piu' pregiate la prodezza in guerra e la liberalita' verso gli ospiti ed i bisognosi, virtu' indispensabili nella dura lotta quotidiana per l'esistenza in una natura inclemente. La loro struttura societaria prevedeva una fondamentale unita' tribale, sottodivisa in clan e nuclei familiari, obbedienti senza servilismi all'autorita' di un capo (Sceikh) liberamente riconosciuto e fedeli alla solidarieta' di sangue, che costituiva la legge fondamentale del deserto. La loro religiosita' era semplice, di tipo animistico e superstizioso. I loro idoli erano venerati nel santuario della Ka'aba, fondato dal patriarca Abramo e da suo figlio Ismaele, progenitore di tutti gli arabi, nella citta' mercantile della Mecca. Un mese all'anno, le varie tribu' beduine stabilivano una tregua che li distoglieva dalle loro perenni attivita' bellicose, e si recavano a rendere culto agli idoli custoditi nella Ka'aba. Spesso si recavano anche alla fiera di Ukaz, nella regione della Mecca, dove grandi poeti si sfidavano a colpi di qaside. La poesia ed il poeta avevano, presso gli Arabi, un posto del tutto particolare. Come dichiarava il poeta Ka'b ibn Zuhair: "L'uomo vale per la sua lingua ed il suo cuore. Il resto non e' che un miserabile involucro di carne irrorato dal sangue". La parola e' l'oro degli Arabi, il dono piu' prezioso accordatogli da Dio, oltre al cavallo, alla tenda, alla spada. I poeti arabi erano, in genere, I duri della loro razza, gli indomabili. Alla ricerca dell'assoluto, come gli hanif, gli anacoreti del deserto, si scontravano con le ferree leggi della tribu' e della societa' nomade.
Vivevano da fuorilegge, spostandosi nel deserto in piena liberta', ed il loro orgoglio era infinito. Alla fiera di Ukaz essi si affrontavano, per la gioia delle tribu' beduine. Ciascun poeta faceva l'elogio degli antenati e del clan, reclamando il diritto al titolo di piu' nobile tra gli arabi, oppure uno di essi attaccava ferocemente i suoi nemici, facendo nascere delle singolari tenzoni a colpi di verso. Il vincitore della sfida, acclamato dalla folla, vedeva i versi da lui composti trascritti su seta nera a caratteri dorati e appesi nel recinto del santuario di Mecca per un intero anno, affinche' fossero letti da tutti. La fiera di Ukaz e la visita alla Mecca erano le uniche occasioni durante le quali gli Arabi nomadi e quelli sedentari venivano a contatto. Gli oligarchi della Mecca, che costituivano la classe dominante in citta', formata da ricchi e potenti mercanti, traevano grande vantaggio dalle visite annuali delle tribu' beduine e la citta' era un fiorente centro commerciale e religioso.
Fuori dal puro ambiente beduino, ai confini con le evolute societa' sedentarie della Siria, della Palestina e della Persia, vi erano veri e propri stati-cuscinetto, costituti dai Ghassanidi e dai Lakhmidi che rappresentavano il trapasso dalle civilta' bizantina e sassanide all'anarchica vita del deserto. Le piste carovaniere che attraversavano il deserto beduino servivano a trasportare prodotti preziosi d'ogni genere, spezie, oro, perle, tessuti pregiati ed incenso dall'estremo sud della penisola arabica, lo Yemen, sede di fiorenti, civili ed antichissimi regni, al nord, verso le grandi citta' dell'area bizantina come Damasco, Gerusalemme, Costantinopoli.
Se si escludono piccole comunita' di ebrei e di cristiani ed un certo numero di hanif, eremiti che praticavano una sorta di monoteismo semplice e personale, la quasi totalita' degli abitanti dell'Arabia era idolatra e animista. In questo popolo dalla vita austera, frugale, insofferente e fiera, fece la sua comparsa il profeta Mohammad, nel 570 d.C. In poco meno di un secolo avviene un miracolo straordinario: gli Arabi diventano un popolo, e, illuminati dalla luce dell'Islam compiono un'impresa storica, umana, civile che ha dell'incredibile, trasformandosi, da una rozza stirpe col culto della vendetta, in una comunita' che raggiunge le piu' alte vette nel campo dello studio, della ricerca scientifica, dell'arte, della filosofia, dando al mondo quella che e' ricordata col nome di "civilta' islamica". In un breve lasso di tempo, questo popolo anarchico riesce a scrivere una delle piu' belle, incisive ed affascinanti pagine di storia, in cui l'antico valore umano si coniuga con le nuove e grandi virtu' etiche dell'Islam per dare origine ad una serie di figure eccezionali, capaci di mutare, per sempre, il corso della civilta' umana.
domenica 20 marzo 2011
POCAHONTAS
Pocahontas (Virginia, c. 1595 – Gravesend, 21 marzo 1617) fu una donna, indiana d'america che sposò un uomo inglese, John Rolfe, e a Londra, sul finire della sua vita, divenne una celebrità.
Era la figlia di Wahunsunacock (conosciuto anche come Powhatan), che governò su un'area che comprendeva praticamente tutte le tribù vicine alla regione Tidewater della Virginia (chiamata Tenakomakah a quel tempo). I suoi nomi formali erano Matoaka e Amonute; Pocahontas era un soprannome infantile che faceva riferimento alla sua natura vivace (nella lingua Powhatan significa "piccola svergognata", secondo William Strachey). Dopo aver ricevuto il battesimo, cambiò nome in Rebecca, ed in seguito al matrimonio, Rebecca Rolfe.
Il suo rapporto con John Smith
Pocahontas salva la vita a Smith in un'illustrazione del XIX secolo.Nell'aprile del 1607, quando i coloni Inglesi arrivarono in Virginia e cominciarono a costruire degli insediamenti, Pocahontas aveva tra i 10 ed i 12 anni,e suo padre era il leader della Confederazione Powhatan. Uno dei capi dei coloni, John Smith di Jamestown, raccontò di esser stato catturato da un gruppo di cacciatori Powhatan e portato a Werowocomoco, uno dei villaggi principali dell'Impero Powathan. Stando al suo resoconto, egli venne messo a morte di fronte ad una pietra, ma intervenne Pocahontas che gli si parò davanti:al momento dell'esecuzione, lei rischiò la sua stessa testa per salvare la mia; e non fece solo quello, ma persuase così tanto suo padre che fui condotto sano e salvo a Jamestown.Pocahontas si guadagnò così il rispetto delle altre persone e degli insediamenti inglesi.
La versione dell'episodio di John Smith è la sola fonte, e a partire dal 1860, crebbe lo scetticismo sulla sua veridicità. Una delle ragioni per dubitare del suo resoconto fu data dalla mancanza di riferimenti all'evento nei due libri sulla Virginia che Smith pubblicò ben prima di descrivere il suo salvataggio nel 1616 (quasi dieci anni dopo), in una lettera in cui supplicava la Regina Anna di trattare Pocahontas con dignità. Il ritardo con cui rese pubblico l'episodio fa crescere la probabilità che Smith potesse aver volutamente esagerato o inventato l'evento per migliorare l'immagine di Pocahontas; tuttavia J.A.O. Lemay, in un recente libro, mette in risalto il fatto che i primi scritti di Smith fossero principalmente a carattere etnico e geografico e non menzionavano affatto le sue esperienze personali: quindi non ci sarebbe stata nessuna ragione da parte di Smith di far conoscere l'episodio.
Alcuni esperti hanno suggerito che sebbene Smith avesse creduto di essere "salvato", di fatto fosse stato coinvolto in un rituale teso a simboleggiare la sua morte e la rinascita come membro della tribù.Tuttavia, in "Love and Hate in Jamestown", David A. Price fa notare quanto queste teorie siano solo delle congetture, data la scarsa conoscenza dei rituali Powhatan e la mancanza di prove di rituali simili in altre tribù Nordamericane.
Qualunque cosa sia accaduta davvero, quell'incontro diede inizio ad un'amichevole relazione tra la colonia di Smith e gli indiani, e Pocahontas visitò spesso l'insediamento. Durante un periodo di carestia della colonia, "subito, in quattro o cinque giorni, Pocahontas ed i suoi servitori gli portarono (a Smith, n.d.r.) così tante provviste che salvarono la vita dei molti che stavano morendo di fame".
Con la successiva espansione dei coloni, tuttavia, alcuni dei Nativi Americani temettero per le loro terre, ed i conflitti riapparvero.
Nel 1608, Pocahontas dovette salvare la vita di Smith una seconda volta. Smith e altri coloni furono invitati amichevolmente a Werowocomoco da Capo Powathan. Erano stati trattati gentilmente e avevano commerciato con gli Indiani, ma si attardarono e dovettero trattenersi per trascorrere la notte. Quella stessa notte, Pocahontas andò alla capanna di Smith per avvertirlo che suo padre aveva in mente di inviare degli uomini con del cibo i quali, deposte le armi per mangiare, li avrebbero uccisi. Riferì che le era anche stato intimato di non dir nulla e pregò quindi Smith di allontanarsi. Essendo stati avvertiti, gli Inglesi tennero le armi pronte persino durante il pasto, e non avvenne alcun attacco.
Nel 1609, una ferita dovuta ad un'esplosione di polvere da sparo costrinse Smith a rientrare in Inghilterra per curarsi. Gli Inglesi dissero ai nativi che Smith era morto, catturato da una nave pirata francese che aveva fatto naufragio sulle coste della Bretagna.Pocahontas lo credette morto fino a parecchi anni dopo, quandò arrivò in Inghilterra come moglie di John Rolfe.
Secondo William Strachey, Pocahontas sposò un guerriero Powhatan chiamato Kocoum prima del 1612; nient'altro si conosce su questo matrimonio.
Non ci sono evidenze in nessun documento storico riguardo al fatto che Smith e Pocahontas fossero amanti. Questa versione romantica della storia appare solo in versioni romanzate della loro relazione, come nel film Disney Pocahontas.
Nel marzo del 1613, Pocahontas risiedeva a Passapatanzy, un villaggio dei Patawomeck, una tribù che commerciava coi Powhatan. Smith scrive nella sua Generall Historie che era sotto la tutela del capo Patawec, Japazaws (o Japazeus), dal 1611 o 1612.
Due coloni Inglesi, che avevano stabilito rapporti commerciali coi Patawomec, scoprirono la presenza di Pocahontas e, con l'aiuto di Japazaws, la catturarono. Il loro intento, come spiegarono in una lettera, era di riscattarla con alcuni prigionieri Inglesi presi da Capo Powathan, insieme a varie armi ed utensili che i Powhatan avevano rubato.Powhatan rimise in libertà i prigionieri, ma l'insoddisfazione dei coloni, per le poche armi e utensili restitute, ne fece seguire un lungo braccio di ferro.
Durante l'attesa di un anno, Pocahontas fu trattenuta a Henricus, l'odierna Chesterfield County. Si sa poco della sua vita lì, benché il colono Ralph Hamor scrisse che fu trattata con "modi straordinariamente cortesi".Un pastore Inglese, Alexander Whitaker, la introdusse alla cristianità e la aiutò a migliorare il suo inglese. Dopo che fu battezzata, il suo nome fu cambiato in Rebecca.
Nel marzo del 1614, il braccio di ferro sfociò in un violento scontro tra centinaia di Inglesi e uomini Powhatan sul fiume Pamunkey. Nella città Powhatan di Matchcot, gli Inglesi incontrarono un gruppo che includeva alcuni dei leader anziani Powhatan (ma non il Capo, che era fuori dalla città). Gli Inglesi permisero a Pocahontas di parlare ai suoi conterranei; tuttavia, secondo il vicegovernatore Thomas Dale, Pocahontas rimproverò suo padre assente per averla valutata "meno di vecchie spade, pistole, o asce" e disse loro che preferiva vivere con gli Inglesi.
Il matrimonio con Rolfe
John Gadsby Chapman, The Baptism of Pocahontas (1840)Durante il suo soggiorno a Henricus, Pocahontas incontrò John Rolfe, che si innamorò di lei. Rolfe, vedovo di una donna inglese, aveva coltivato con successo in Virginia una nuova varietà di tabacco e dedicava molto del suo tempo a prendersi cura del raccolto. Era un uomo religioso, angosciato dalle potenziali ripercussioni morali che potevano derivargli dallo sposare una pagana. In una lunga lettera al governatore, in cui chiedeva il permesso al matrimonio, espresse l'amore che nutriva per Pocahontas unito alla fiducia di poterle salvare l'anima. Dichiarò di non essere motivato "dallo sfrenato desiderio carnale, ma dal bene della sua piantagione, dall'onore del suo Paese, dalla Gloria di Dio, dalla mia personale salvezza... chiamata Pocahontas", a cui egli dedicava i suoi "migliori e cordiali pensieri, che sono stati così impigliati e affascinati in un labirinto così intricato che fui financo stanco di districarmene fuori."
I sentimenti di Pocahontas su Rolfe e quel matrimonio sono invece sconosciuti.
Si sposarono il 5 aprile 1614 e Pocahontas fu battezzata col nome di Lady Rebecca. Per pochi anni dopo il matrimonio, la coppia visse insieme nella piantagione di Rolfe, posta, rispetto alla nuova comunità di Henricus, dalla parte opposta del fiume James. Ebbero un bambino, Thomas Rolfe, nato il 30 gennaio 1615.
Il loro matrimonio non riuscì a far liberare i prigionieri Inglesi, ma creò tra i coloni di Jamestown e la tribù Powathan un clima di pace che durò parecchi anni; nel 1615, Ralph Hamor scrisse come da quel matrimonio fossero nati "rapporti commerciali e scambi amichevoli non solo con i Powathan ma anche con gli altri vicini a noi".
Il viaggio in Inghilterra e la morte
I promotori della Virginia coloniale trovarono difficile portare nuovi coloni ed investitori a Jamestown. Usarono quindi Pocahontas come incentivo e come prova di come i nativi del Nuovo Mondo potevano essere addomesticati, e di come la colonia fosse un posto sicuro.Nel 1616, i Rolfe viaggiarono in Inghilterra, arrivando nel porto di Plymouth il 12 giugno e successivamente a Londra in carrozza. Erano accompagnati da un gruppo di undici nativi Powhatan incluso Tomocomo, un sant'uomo.John Smith all'epoca viveva a Londra e a Plymouth, Pocahontas seppe quindi che era ancora vivo.Smith non la incontrò allora, ma scrisse una lettera alla Regina Anna esortandola a trattare Pocahontas col rispetto dovuto ad un visitatore reale, perché trattandola male, il suo "attuale amore per noi e per la cristianità potrebbe tramutarsi in...disprezzo e ira", e l'Inghilterra potrebbe perdere l'occasione di "guadagnarsi un Regno per suo tramite".
Pocahontas si divertì in varie riunioni del bel mondo. Il 5 gennaio del 1617 fu portata insieme a Tomocomo nel Palazzo di Whitehall, al cospetto del Re, per assistere ad una masque di Ben Jonson, The Vision of Delight. Secondo Smith, Re Giacomo era così poco attraente agli occhi di entrambi i Nativi che solo dopo capirono chi avevano incontrato, grazie a qualcuno che glielo spiegò.
Pocahontas e Rolfe vissero per un breve lasso di tempo nella periferia di Brentford. All'inizio del 1617, Smith visitò entrambi in una riunione di amici. Secondo Smith, quando Pocahontas lo vide, "senza dir nulla, si girò intorno, scura in volto, non sembrando così contenta" e fu lasciata sola per due o tre ore.
Successivamente i due si parlarono e la testimonianza di Smith su ciò che ella gli disse è frammentaria ed enigmatica. Pocahontas gli ricordò delle "cortesie che aveva fatto" e "avevi promesso a Powathan che ciò che era vostro sarebbe stato suo, e lui fece altrettanto con te". Quinid lo spiazzò chiamandolo "padre", spiegando a Smith che lui aveva chiamato Powhatan "padre" quando era uno straniero in Virginia, "e per la stessa ragione devo fare lo stesso con te". Smith non accettò questa formula di cortesia, perché da "figlia di Re" lo gratificava di un titolo non suo.
In seguito Pocahontas, "con una forte espressione", disse
« Non hai avuto timore di venire nel Paese di mio padre e causare paura a lui e a tutta la sua gente (eccetto me) ed hai paura che io ti definisca qui 'padre'? Ti dico che lo farò, e tu dovresti chiamarmi figlia, e così sarò per sempre una tua conterranea. »
Infine gli spiegò che i nativi lo avevano creduto morto ma suo padre aveva comunque detto a Tomocomo di cercarlo "perché i tuoi conterranei mentivano molto".
Nel marzo del 1617, Rolfe e Pocahontas si imbarcarono su una nave di ritorno in Virginia. Tuttavia, la nave non arrivò nemmeno a Gravesend, sul Tamigi, che Pocahontas si ammalò. La natura della sua malattia è sconosciuta, ma dato che era sempre stata descritta come sensibile all'aria fumosa di Londra, fu ipotizzata una polmonite o una tubercolosi, sebbene si sia pensato anche al vaiolo. Fu sbarcata e lì morì. Stando a Rolfe le sue ultime parole furono "tutti dobbiamo morire, a me basta che mio figlio mi sopravviva".Il funerale avvenne il 21 marzo del 1617 nella parrocchia di San Giorgio. Il luogo di sepoltura è sconosciuto, ma in sua memoria fu eretta una statua di bronzo a grandezza naturale nella Chiesa di San Giorgio a Gravesend.
lunedì 14 marzo 2011
BRIGADOON, L'ALTROMONDO E LA MADRE UNIVERSALE MORRIGAN
Queste categorie così differenti di esseri Sidhe combaciano con le testimonianze di chi ha visto - e classifica - i Sidhe in spiriti del legno, spiriti dell’acqua, dell’aria e così via, spiriti elementali per ogni luogo. Lough Gur, a County Limerick, è un posto veramente magico, dove si possono incontrare molti dei re e delle regine Sidhe d’Irlanda. Il lago si trova all’interno di un cerchio di colline, ma una volta ogni sette anni appare come una terra asciutta, dove si può trovare un’entrata alla "Terra della Giovinezza". Strano ma vero, anche nel musical americano "Brigadoon" (di Vincente Minnelli, MGM, 1954) si parla di un luogo fatato che appare un giorno ogni cento anni terrestri tra le nebbie scozzesi. Coincidenza? Tutte le popolazioni che sono succedute ai Tuatha De Danann hanno pensato che i loro monumenti megalitici fossero passaggi per "l’Altromondo". Nel ciclo mitologico si dice che in quell’epoca le persone avessero poca paura della morte in quanto veniva loro insegnato che l’anima non moriva, ma andava in altri luoghi, sempre in fiore, ricchi di cibo e di bevande in abbondanza e dove la gioventù e la salute erano assicurate. È normale che per una popolazione spiritualmente avanzata come quella dei Danann non mancassero controparti femminili a tutte le grandi divinità maschili. La principale era Dana: per coloro che seguono la fede celtica irlandese Faerica, Dana (Danu) è l’aspetto primario del divino, superiore a tutti gli altri dei. È un’energia femminile ma contiene il maschile. È sia una dea che un dio. Dana è la grande Madre di tutti gli dei e le dee del Pantheon celtico, la Rossa Madre di Tutti, la madre ancestrale dei Celti irlandesi, che probabilmente esisteva sull’isola in una forma precedente chiamata Anu, la Madre Universale. C’è chi vede un parallelo tra la dea Dana irlandese e la Llys Don gallese, termine con cui comunemente si indicava la costellazione di Cassiopea. La Morrigan rappresentava invece l’aspetto oscuro della triplice Dea. Una strega con un sorriso demoniaco, composta da tre parti: Danu, Badb, che prendeva la forma di uccello, con la bocca cremisi, e decideva delle battaglie con la sua magia, con una grande brama per gli uomini; Macha, il Corvo, che si nutre delle teste dei nemici uccisi e domina i suoi uomini tramite l’astuzia e a volte con la forza. Altri aspetti della Morrigan: Medb, che acceca i nemici con la sua sola presenza e ha bisogno di trenta uomini al giorno per calmare il suo appetito sessuale e Scathach, "Colei che incute timore", dea delle arti marziali e della profezia. Questo era l’aspetto distruttivo della Dea Oscura, grande guerriera e maestra di spada, nativa dell’isola di Skye, istruttrice di Cuchullain. Qualità che confermano il motivo per cui i Celti adoravano questi esseri, in quanto non solo divini. Un gran bel popolo i Tuatha De Danann: abili guerrieri, tanto che anche i loro discendenti (Celti irlandesi e scozzesi) hanno mantenuto la fama (meritatissima!) di combattenti imbattibili e sanguinari e allo stesso tempo difensori della Natura in quanto Madre, sciamani, maghi e druidi in grado di interagire con gli Elementi.
UNA RAZZA ALIENA VENUTA AD AIUTARCI
Secondo i primi Celti, tutte le forme di vita esistevano su tre diversi livelli, come tre esseri integrati ma separati che coabitavano in un singolo essere: i reami della mente e del corpo erano collegati alla forza vitale che tutto pervade, lo Spirito. I Celti subivano anche il fascino di quei luoghi magici in mezzo, quali porte, linee di coste, guadi, posti che non erano mai nulla di definito, né uno stato né l’altro. La spiaggia è il luogo di incontro della sabbia secca e dell’acqua. Se consideriamo la terra come il nostro lato materiale, solido, e l’acqua come il grande utero cosmico, il lato intuitivo e subconscio della nostra natura, allora, potremmo vedere la spiaggia come il luogo di incontro tra un mondo e un altro. Uno dei simboli dei Tuatha De Danann è la croce celtica: una croce con i bracci uguali circondata da un cerchio che simbolizza l’equilibrio delle forze maschili e femminili e i quattro elementi, i quattro punti cardinali (le quattro vie), che secondo alcuni vengono simboleggiati dai quattro reami di provenienza dei Tuatha De Danann di cui abbiamo parlato in precedenza. Al centro - dove le linee si incontrano - c’è il quinto elemento nascosto, lo Spirito, detto "Akasha" presso gli iniziati pagani. Il circolo che lo circonda rappresenta l’universo manifesto; contenuto all’interno di un cerchio infinito.
sabato 12 marzo 2011
DONNE e DEE - tra mito, cultura e tradizione
Solitamente si tende a considerare il pantheon nordico esclusivamente maschile, dominato da figure di dèi forti, bellicosi e minacciosi. Questo è dovuto all'opera di "propaganda" iniziata in epoca pagana e poi proseguita durante tutta la storia umana, una propaganda che poneva il maschile in primo piano e il femminile in secondo. Ricordandosi che molto di ciò che si da per scontato sulla religione nordica e germanica deriva in larga parte dalle rivisitazioni fatte dai Romantici di fine '800 e dagli studiosi della prima metà del 1900, ancora impermeata di Romanticismo e Nazionalismo e dominato da una visione razziale e sessistica delle cose, solo recentemente si è iniziato a prendere in considerazione che il ruolo delle divinità femminili era forte anche nella cultura germanica.
Inanzitutto basta guardare la società, che poneva la donna sulla stessa base dell'uomo.
Delle donne scandinave sappiamo che potevano ereditare beni, persino grandi proprietà e dirigerle come più ritenevano giusto. Era loro permesso divorziare e di rifiutare i pretendenti; potevano inoltre andarsene di casa non appena compiuta la maggiore età (di solito verso i 16-17 anni) per badare a sè stesse (non erano quindi legate alla "potestas patris", il volere del padre). Potevano tranquillamente avere rapporti sessuali con i propri schiavi, oppure con uomini liberi che non necessariamente poi dovevano sposare. Se rimanevano incinte fuori dalle nozze, non accadeva nulla di particolare: il figlio nato era tenuto in conto come qualsiasi altro bambino. Inoltre avevano il ruolo fondamentale di occuparsi della casa (erano loro a custodirne le chiavi e a tenere d'occhio le proprietà materiali) e dell'economia familiare. La donna era chiamata sovente "signora della casa" o "signora del focolare" in quanto un altro dei suoi importanti compiti era quello di accendere il fuoco domestico, quasi un rito sacro per un popolo che venerava il fuoco.
Spesso era la donna ad occuparsi anche dei riti privati e domestici, come il culto degli spiriti e del "piccolo popolo" , ma soprattutto quello rivolto a divinità della fertilità.
La donna poi aveva anche valore giuridico: poteva votare e parlare alle assemblee come gli uomini, e se capace poteva anche prendere le armi se necessario (c'è anche la leggenda di una speciale casta di donne guerriere, dette "ragazze dello scudo", alla base delle quali forse c'è il mito delle Valchirie).
In epoca passata la donna era al vertice della società, in quasi tutta l'Europa continentale. Con l'invasione dei popoli indoeuropei questa sua importanza decadde e s'impose una società a base patriarcale e bellica.
Ma molte popolazioni europee continuarono a tenere in alto conto le donne, come i Nordici e i Celti, mentre presso Greci e Romani la donna era quasi considerata alla stregua di una cosa.
La donna, per le popolazioni dell'Europa settentrionale, era spesso ritenuta "maga", sia per il suo 'intuito' sia per la capacità straordinaria di generare vita. Erano quasi sempre le donne ad essere "maghe", ossia levatrici, curatrici, indovine; sapienti custodi di arti antichissime che sfruttavano le erbe e le piante, sapevano interpretare sogni e movimenti di astri e luna.
Il ruolo primario della donna nella società si riflette anche nel forte valore che avevano le dee nella sfera divina. Le grandi dee del Nord, Freja e Frigg, sono un esempio lampante: entrambe di carattere fiero e forte, rappresentano l'una la donna indipendente, nella sua veste fiera e combattiva, amante bellissima e maga potente; l'altre è invece la figura che rappresenta la moglie perfetta, regina della sua casa, colma di saggezza ed autorità.
Abbiamo già analizzato la figura di Freja in un altro articolo (anche se dobbiamo ancora caricarlo.. abbiate pazienza!) , quindi ci concentreremo su Frigg.
Frigg è la moglie di Odino, signora di Asgard e virtualmente regina degli dèi. Protegge le donne e l'istituzione matrimoniale, ma essa è anche maga (conosce il futuro come il suo sposo) e madre premurosa: quando nacque il figlio prediletto Baldur, fece giurare a tutte le cose del Creato che mai avrebbero ferito suo figlio. Frigg inoltre è consigliera di Odino, seguendo la tradizione nordica che proponeva la salda unione e complicità tra gli sposi.
Sia Freja che Frigg sono forse aspetti diversi di un'unica grande dea, venerata in passato e forse scomparsa. Questa Dea avrebbe, come in molte altre culture, una triplice funzione, che si basa sui principali ruoli e le principali fasi di vita della donna: giovane/amante; matura/madre; anziana/morte. Questi tre aspetti potrebbero essere perfettamente schematizzati nel mondo nordico in questo modo: Freja-Frigg-Hel.
Hel è la dea degli Inferi, che nell'Edda di Snorri è detta figlia di Loki anche se probabilmente è un'invenzione del fantasioso islandese.
Hel dominava sull'Oltretomba, dove finivano le anime di coloro che non morivano in battaglia. Non era un luogo triste e cupo, in quanto non vi era sofferenza: i morti banchettavano tutto il giorno, passeggiavano, cacciavano e conversavano tra loro in piena armonia. Tuttavia non era eroico morire di vecchiaia o malattia, quindi le anime erano sempre un po' amareggiate poichè non avevano raggiunto il Valhalla. Hel era immaginata con il viso diviso: una parte era il viso candido di una bella fanciulla, l'altra però era livida, bluastra e simile ad un cadavere in decomposizione. Si narrava che Hel giungesse in visita a chi stava per morire pochi attimi prima del decesso: se i capelli nascondevano la parte in decomposizione per mostrare la bellezza seducente, allora la morte dell'individuo sarebbe stata leggera e senza dolori; altrimenti la morte sarebbe stata dolorosa e piena di sofferenze.
I cancelli del mondo di Hel (che prende il nome da lei) erano invalicabili e a loro custodia c'era un cane (o un lupo) di nome Garmr, che dilaniava chiunque entrasse o uscisse senza permesso. Sotto il mondo di Hel vi era il Nifelheim o Nifelhel, dove erano puniti gli assassini, i ladri e gli spergiuri condannati ad essere dilaniati da un drago oppure perseguitati da serpenti velenosi. Questo luogo cupo e tetro, sempre nebbioso e freddo, era il vero e proprio "inferno" nordico. Molti però pensano che sia una influenza cristiana.
Anche se Hel non era rappresentata come "anziana", il suo ruolo ricalca bene la terza funzione: era una dea oscura, legata alla morte.
Un altro esempio di dee dal ruolo fondamentale si può trovare nelle figure delle tre Norne (Nornir): Urd, Verdandi e Skuld. Queste tre dee erano le reggitrici dei Destini di tutti, sia dèi che uomini. Tessevano costantemente lunghi fili di lana, intrecciandoli (deteminando così gli avvenimenti delle vite) e poi tagliando dove credevano più opportuno. Urd (Urðr, che significa all'incirca "passato") era la piú anziana, e tesseva il filo; Verdandi intrecciava e Skuld (che significa sia "futuro" ma anche "colpa", "causa") tagliava i fili causando la morte. Anche qui abbiamo una triade con tre "tipi" di donne: un'anziana, una matura ed una giovane, anche se qui la funzione funebre è in mano alla giovane.
Le Norne, similmente alle Parche, erano temute ma riverite. Avevano il ruolo più importante dell'Universo, poichè regolavano i Destini di tutti, dèi compresi.
Le Valchirie erano altre figure divine femminili importanti, poichè sceglievano i valorosi guerrieri dai campi di battaglia e li conducevano con loro nel Valhalla dopo la loro morte. Si presentavano sul campo di battaglia armate di tutto punto, bellissime e austere, su cavalli bianchi o neri che emanavano fuoco dalle narici. Solo a chi era destinato a morire in guerra le poteva vedere, mentre partecipavano furiose alla carica dei guerrieri. Erano figlie di Odino, e il loro numero varia a seconda delle fonti, ma solitamente sono o 7 o 9. Nel Valhalla si occupavano di servire ai valorosi eroi l'idromele divino e la carne del maiale Særimnir, che si rigenerava ogni giorno. Erano ritenute divinità a tutti gli effetti, anche se nelle opere letterarie si confondono con le mortali donne guerriere delle leggende. La parola "valchiria" deriva dal nordico valkyria, che significa "colei che sceglie i caduti". E' etimologicamente collegata con la parola Valhall, ossia "sala dei caduti".
Un'altra dea importante era Skadi, la dea della caccia e dell'inverno.
Rappresentava forse la donna indipendente che preferiva vivere per conto suo (il mito narra che Skadi che, costretta a sposarsi, preferì lasciare la casa del marito e tornare alle sue vette innevate perchè non riusciva ad abituarsi nè al nuovo ambiente nè al ruolo di moglie).
Un ruolo di primo piano aveva anche Jorðr, la madre terra. Nonostante non se ne parli affatto nei miti eddici o nei racconti, è indubbio che era tenuta in alto conto. Tutti i riti avevano come apice l'offerta di birra o idromele alla Terra, un rito di libagione che "dava alla Terra ciò che aveva dato agli uomini (la birra si ricava dal grano, principale dono della Terra)". Nei miti, Jorðr era madre di Þórr e quindi legata ad Oðinn, anche se non viene mai nominata come "sposa" (ruolo ricoperto da Frigg). Forse perchè generalmente le divinità definite "madre-Terra" erano viste principalmente come amanti, ossia con una denotazione puramente sessuale (mentre il ruolo istituzionale della sposa-compagna era dato ad altri modelli). E' possibile che in epoche remote ci fossero riti specifici che prevedevano l'accoppiamento rituale del capo con la sciamana/sacerdotessa, un unione che forse rappresentava l'unione classica tra il Dio maschio guerriero e la Dea femmina maga e sapiente. La tradizione si ritrova nel mondo celtico irlandese, dove il re s'accoppiava ritualmente con la Terra d'Irlanda e forse era pratica anche presso i Germani.
Altre dee erano Var, che presidieva i giuramenti; Saga, che conosceva le storie e aveva un'immensa saggezza; Ran, dea del mare che catturava con le sue reti gli annegati e li tirava nelle profondità del mare, alla sua corte, dove essi banchettavano e si divertivano con le sue 9 figlie, le onde del mare.
Inoltre si diceva che lo spirito protettore dell'individuo apparisse anche sotto forma di una donna, oltre che di animale.
Dunque le dee nella tradizione nordica hanno ruoli fondamentali, come ruoli importanti nella società avevano le donne stesse; ruoli che furono ridotti e soppressi solo con la cristianizzazione e il cambio di mentalità. Ma ciò iniziò ad aver luogo solo dalla fine del XIII secolo in poi.
venerdì 11 marzo 2011
LA VISIONE DI SAN PATRIZIO
È importante notare come i Celti considerassero i loro dei come un’altra forma di vita, non superiore o migliore di loro o delle loro famiglie. Le parole "Dio" e "Dea" hanno un significato ben diverso da quello che si intende presso altre popolazioni. Non venivano adorati, come si fa in altre religioni. Erano rispettati e ammirati in quanto capaci di compiere prodigi impossibili agli umani e non perché fossero esseri divini. Erano di carne e ossa, "reali". Di fronte all’opera distruttiva della chiesa romana nei confronti dei pagani e degli elementi pagani della chiesa celtica, la gente ha dovuto trovare dei metodi per preservare le proprie tradizioni, nelle maniere meno offensive possibile, fra cui le leggende delle "fate" e degli "eroi". Le divinità celtiche sono viste in modi diversi, ma spesso come coloro che governano il mondo fatato, popolato anche da spiriti di diversa natura e dalle anime dei morti. Forse nessuno saprà mai veramente se i Celti abbiano visto davvero gli dei, ma a tutt’oggi in molti venerano il popolo fatato quali dee e dei, specie nelle nuove religioni Wiccan e Asatrù. Così, anche se non fossero state divinità allora, lo sono diventate adesso.
Nei primi manoscritti irlandesi, provenienti da più antiche tradizioni orali, ci sono dei riferimenti ai Tuatha De Danann. Oltre a descriverli come una via di mezzo tra umani e dei, si dice che venissero dal cielo e avessero conoscenza e intelligenza illimitate. Erano dei di un popolo che considerava il Regno della Terra, il Regno dei Misteri e il Regno dello Spirito di uguale importanza. La fede nei Tuatha De Danann era così forte che neppure la religione cristiana poté rimuoverla. In un dialogo che avviene tra San Patrizio e il fantasma di Caeilte del Fianna, Patrizio è sbalordito nel vedere una donna fatata uscire dalla grotta di Cruachan indossando un mantello verde e una corona d’oro sulla testa. La donna è giovane e bellissima, mentre Caeilte è vecchio e consunto. Quando Patrizio - comprensibilmente sconvolto - ne domanda la ragione, Caeilte gli risponde: "Lei appartiene ai Tuatha De Danann che sono immutabili, e io appartengo ai figli di Mil, che deperiscono e svaniscono." Una testimonianza abbastanza credibile, vista la provenienza "ortodossa". I figli di Mil sono una popolazione celtica che conquistò l’Eire nel corso della quinta invasione dell’Irlanda. Dopo essere stati sconfitti dai gaelici, i figli di Danu - i Tuatha - si ritirarono nelle colline cave, i monti Sidhe situati sottoterra, dove vivrebbero tutt’oggi. Bodb Dearg (Bodb il Rosso), figlio maggiore di Dagda, fu scelto per essere il loro re. Si dice che fosse esperto in incantesimi e misteri. Alcuni degli dei furono contrari alla scelta di Bodb, specialmente Midir, un altro figlio di Dagda. Midir l’Orgoglioso era il Dio gaelico del mondo sotterraneo e signore della morte e della resurrezione. Sulla sua isola magica, che per alcuni sarebbe l’isola di Man, aveva tre mucche magiche e un calderone incantato. Nelle leggende è descritto come un nobile principe di grande splendore e bellezza. Alcuni sostengono che i superstiti dei Tuatha De Danann divennero una razza chiamata Sidhe. Altri credono si tratti di due distinte razze. E si fa anche una distinzione tra i Sidhe che si vedevano camminare sul terreno dopo il tramonto e gli Sluagh Sidhe, le armate magiche che viaggiano attraverso l’aria di notte e di cui si dice che portino via i mortali nei loro viaggi. Ci sono anche i Sidhe guardiani della maggior parte dei laghi irlandesi e scozzesi.
I Vichinghi - Breve Storia dei Popoli Scandinavi
Per "Germani settentrionali" indichiamo convenzionalmente le popolazioni che abitavano anticamente la penisola scandinava. Di queste tribù abbiamo notizie già dallo scrittore latino Tacito, che nella sua opera "Germania" cita i Gothones (Goti?), gli Suiones (Svioni, forse gli Svear della Svezia centrale) ed i Sithones (non identificati).
Con il passare dei secoli si definiscono in Scandinavia almeno 4 popolazioni germaniche distinte tra loro: Danesi (Svezia meridionale), Geati (Svezia centro-meridionale e occidentale), Svear o Svioni (Svezia centrale), Norvegesi (Norvegia centro-meridionale e occidentale). Tuttavia questi popoli avevano una cultura probabilmente unitaria; sicuramente unitaria era la lingua, definita comunemente protonordico o nordico arcaico.
In tempi antichi è probabile che in Scandinavia abitassero anche Goti e Longobardi, almeno a giudicare dalle origini mitiche che le due popolazioni si sono affibiate.
Sappiamo molto poco di assolutamente certo sui popoli scandinavi prima dell'epoca vichinga, ossia quando le fonti europee iniziano a riportare notizie su di loro. Prima degli anni attorno al 1000, purtroppo, mancano concrete testimonianze realizzate in proprio dagli scandinavi, tanto che ci si deve basare molto sulle cronache straniere (anglosassoni, irlandesi, franche, arabe) o sui reperti archeologici uniti al poco materiale "indigeno": le saghe islandesi, che anche se scritte almeno 200 anni successivi ai fatti narrati, riportano molti dettagli che offrono qualche spaccato di vita ai tempi dei vichinghi. Infatti la cultura rimase pressochè la stessa fino al XIV-XV secolo, quando le influenze dal continente modificano lo stile di vita scandinavo e si abbandonano i vecchi modelli culturali.
Inanzitutto bisogna ricordare che i popoli scandinavi non intesero mai se stessi come "Vichinghi". Questo è un nome che significa pressapoco "pirata", di etimologia incerta. Alcuni lo fanno derivare dalla regione del Viken in Norvegia. Il termine "Viking" indicherebbe dunque "un uomo di Vik". Altri mettono in relazione il termine con il sostantivo norreno vikr, "baia". Vichingo sarebbe allora "colui che è nella baia", indicante forse una predilizione dei Vichinghi di attaccare di sorpresa, nascosti nelle insenature. Fatto sta che nelle saghe, quando si parla di Vichinghi si indicano uomini che andavano per mare a cercare fortuna e ricchezze, nonchè prestigio. Spesso si trattava di figli minori di proprietari terrieri, che avevano bisogno di arricchirsi (l'eredità paterna andava tutta al primogenito, lasciando ai fratelli minori la scelta tra il cercare fortuna altrove o lavorare nella fattoria del padre sotto il fratello maggiore) oppure uomini comuni che cercavano avventura e ricchezza o anche chi, per un motivo o un altro, non voleva starsene a casa. Ma si calcola che, in totale, non più del 5-7% della popolazione scandinava fosse impegnata in tali spedizioni.
Le spedizioni stesse, inoltre, non furono mai esclusivamente di razzia o saccheggio, nè militari: c'erano molti Vichinghi che solcavano il mare esclusivamente per commerciare.
In ogni caso se è vero che gli scandinavi non si definirono mai "vichinghi" nel senso di popolo, il concetto di popolo apparve tardi nella mentalità scandinava. Di solito non si pensava a se stessi come "svedese", "danese", "norvegese" ma piuttosto come individui, figli di altri individui, che abitavano una regione di un territorio più vasto conosciuto come Svezia, o Danimarca, ecc. Solo dopo il 1000 e l'inizio dell'affermarsi delle monarchie si hanno i primi concetti di "Stati" e "popoli", anche se il popolo stesso non sviluppò sentimenti e coscienza nazionali prima del basso Medioevo.
Quando l'Impero Romano d'Occidente crollò, nel 476, ha inizio per convenzione il Medioevo. Nei secoli V-VI-VII-VIII s'assiste sul continente europeo agli assestamenti delle popolazioni germaniche in migrazione, che si stabiliscono nei territori un tempo romani e creano regni propri, mescolandosi alla popolazione celto-latina indigena (regni romano-barbarici; romana fu l'amministrazione, germanica la dominazione). In Scandinavia, il periodo delle migrazioni coincide con un ingente sviluppo politico e culturale, in cui le popolazioni locali lasciano le nebbie dell'anonimato per entrare nella storia.
Già nel VI secolo iniziano a svilupparsi in Scandinavia poteri locali, che ruotano attorno alla figura sacrale-rappresentativa di un re. Costui, tuttavia, va interpretato come un "primus inter pares" e non come un vero sovrano. Il potere vero era nelle mani di signorotti e sovrani locali, detti jarlar, che governavano su territori più o meno vasto e tenevano il potere con le armi, affidandosi a gruppi di guerrieri a loro fedeli o da loro mantenuti. Ogni sovrano locale era impegnato in continue faide con i sovrani vicini e confinanti, e i "re" probabilmente non avevano ancora ruolo politico. E' questa l'epoca detta "di Vendel", dal nome della località svedese che conserva la maggior parte dei reperti risalenti a quel lasso di tempo. In questo periodo si sviluppano le basi per la cultura dell'epoca "vichinga".
L'epoca Vendel (VI-VIII secolo) vede l'affermarsi, nei territori centro-orientali della Svezia, di un potere locale molto forte, che probabilmente era in contatto con il continente, i paesi Baltici, il mondo arabo e i regni anglosassoni. Questo potere crebbe intorno al centro di Uppsala, che sorse come centro religioso primario e dove il sovrano aveva la propria sala. Le abitazioni dei sovrani non differivano molto dalle case degli uomini comuni, erano solo più grosse e con più edifici circostanti per ospitare un maggior numero di servitori e i guerrieri al loro servizio. Generalmente le case erano lunghe, anche fino ad 80 metri nei casi delle sale reali. Il re aveva un trono, solitamente al centro o in fondo alla sala, e tutt'attorno c'erano le panche per i suoi sottoposti. Al centro, il focolare e la grande tavola che serviva per i banchetti. Era durante i banchetti che il re s'assicurava il potere e la fedeltà, donando anelli e altri tesori in cambio dell'appoggio in guerra da parte dei suoi uomini. La generosità e la disponibilità al dono erano le tecniche migliori affinchè un sovrano potesse mantenere il proprio potere.
Tali costumi dovettero essere comuni ai popoli germanici, perchè troviamo esempi di tale pratica nel poema epico anglosassone Beowulf. La pratica probabilmente è l'antenata del feudalesimo.
I sovrani di Uppsala erano molto ricchi, a giudicare dai fastosi corredi funebri trovati nei tumuli di Gamla Uppsala (Uppsala Vecchia). Vi erano sepolti manufatti d'oro, armi cesellate e scudi intarsiati. Il potere iniziava a prendere forma. Probabilmente con il tempo Uppsala accrebbe la propria sfera d'influenza, e presto divenne il centro più importante della regione ed uno dei maggiori della Scandinavia.
Tuttavia non sappiamo se i tumulati a Gamla Uppsala fossero propriamente re oppure nobili/sovrani locali, ossia jarlar. L'ipotesi è che fossero jarlar che svolgessero anche il ruolo sacerdotale del re oppure re che avevano integrato il ruolo "politico" degli jarlar. La tradizione vuole che sepolti sotto i tumuli ci siano tre re: Aun, Egil e Adils.
Attorno ad Aun si è sviluppata una curiosa leggenda: Aun, secondo Snorre Sturluson, visse più di ogni altro uomo perchè sacrificava regolarmente un figlio ad Odino, che gli dava anni in più da vivere. Divenne talmente vecchio da restarsene a letto, non potendo far nulla nè mangiare, tanto che beveva latte come un neonato. Gli Svear, stanchi di essere retti da un vecchio inetto, lo uccisero.
La cosa interessante è che molti sovrani "dei tempi antichi" sembrano morire di morti curiose. Chi muore cadendo da cavallo, chi affogato nell'idromele. Il re Domalde venne sacrificato per porre fine ad una carestia. E agli Svear viene da sempre attribuito il potere di destituire i propri re e di ucciderli se giudicati inetti. Molte morti accidentali, però, portano alla mente sacrifici rituali in cui il rappresentante del popolo, il re, viene sacrificato come dono speciale agli dèi, in caso di estremo bisogno.
L'epoca Vendel termina con molte domande ancora senza risposta, molte supposizioni e molte zone "oscure".
Nel giugno del 793 l'isola di Lindisfarne, al largo delle coste nord-orientali dell'Inghilterra, è saccheggiata da navi vichinghe provenienti probabilmente dalle coste sud-occidentali della Norvegia. E' il primo attacco vichingo citato nelle fonti europee. Le cronache anglosassoni riportano di altri incontri con i pirati del nord, quasi sempre finiti con razzie da parte di questi ultimi. Per tutta la fine dell'VIII secolo gli "uomini del Nord" saccheggiano le coste inglesi, mettendo nel terrore i monaci e i governanti che non sanno come proteggersi dal "furore dei pagani". L'Impero carolingio, per scongiurare gli attacchi, edifica torri d'avvistamento e palizzate costiere per difendersi dai Vichinghi. Gli attacchi, però, cambiano rapidamente. Da sporadici saccheggi brevi e brutali diventano organizzati in piccole flotte che devastano e assediano. Nel 845 Parigi viene saccheggiata, i pirati se ne vanno solo dopo aver ricevuto un'ingente somma di denaro. Alla fine del IX secolo inizia la "battaglia per l'Inghilterra", ossia il tentativo danese d'impadronirsi dei regni anglosassoni. Rapidamente conquistano la Northumbria, la Mercia, l'East Anglia, l'Essex, il Sussex. Solo il Wessex resiste, grazie all'azione del re Ælfred (Alfredo il Grande).
Dopo anni di guerra, il capo dei danesi, Guthrum, ed Alfredo trovano l'accordo: il Wessex otterrà i territori del sud, mentre i regni del nord saranno sottomessi alla legge danese (territori riuniti sotto il nome di Danelagu o Danelaw, "legge danese"). Sistematicamente i successori di Alfredo riprenderanno il controllo del Danelaw, ma nel 1013 il re Sven Haraldsson "Barbaforcuta" di Danimarca conquista tutto il paese e si fa incoronare re d'Inghilterra.
E' con il figlio Knut (detto poi il Grande) che il dominio danese in Inghilterra si stabilizza. Knut sposa una nobildonna sassone, si fa cristiano e governa il paese con forza ma giustizia. I suoi discendenti però non saranno forti da reggere il peso del regno e gli anglosassoni riconquisteranno il paese, fino all'arrivo dei normanni nel 1066.
Ed è proprio dai Vichinghi che discendono i normanni stessi.
Nel 932 Rolf, capo vichingo che razziava la Francia, viene fatto duca (col nome di Rollo o Rollone) del territorio settentrionale della Francia poi noto come Normandia ("terra degli uomini del nord"), per porre fine ai saccheggi. Nel giro di qualche generazione, questi vichinghi perdono ogni connotato scandinavo: quando nel 1066 conquisteranno l'Inghilterra sotto il duca Guglielmo (detto "il Bastardo", successivamente noto come "il Conquistatore"), la loro lingua sarà il francese, la loro religione il cristianesimo.
I vichinghi, soprattutto norvegesi stabilirono regni autonomi anche in Irlanda, dalla quale furono cacciati nel 1014 dal re Brian Boruma (Boru). Intanto però avevano occupato anche le isole al largo della Scozia, le Orcadi, le Shetland e le Ebridi. Le Orcadi, rette da potenti jarlar, resteranno norvegesi fino alla metà del XV secolo.
Dalla Norvegia si mossero anche alla colonizzazione delle isole Faer Oer, e soprattutto dell'Islanda.
L'Islanda era largamente disabitata, tranne che per qualche eremita irlandese o qualche colonia saltuaria inuit. Dall'870 circa inizia una massiccia opera di colonizzazione norvegese, composta per lo più da esuli che mal sopportano il regime centralizzato del re Harald Harfagri ("Bellachioma"), che fu il primo ad imporre in Norvegia un potere regale forte di tipo feudale, a discapito del potere degli jarlar e degli uomini liberi.
Nel 930 l'Islanda si proclama stato indipendente, con l'apertura dell'Allþíng, l'assemblea generale che fungeva da tribunale, "parlamento" e luogo d'incontro. Il governo era sostanzialmente nelle mani dei proprietari terrieri liberi (böndir), che avevano diritto di parola all'assemblea e di portare le armi in generale, anche se emerse la classe dei goðar come capi effettivi di questa sorta di "repubblica". I goðar fungevano il ruolo di sacerdoti, giudici e legislatori, anche se in origine il loro compito era esclusivamente sacerdotale. Le tensioni tra il governo islandese e le pretese che farà poi sull'isola il re norvegese porterà nei secoli immediatamente successivi all'epoca vichinga forti contrasti tra le due "nazioni", che culminerà agli inizi del XIII secolo quando il re Hakon IV annetterà l'Islanda alla Norvegia.
Dall'Islanda si muoveranno le spedizioni di colonizzazione della Groenlandia, ad opera di Erik il Rosso. Costretto a lasciare l'Islanda per un esilio causato da un omicidio, si trasferì verso ovest con la famiglia e alcuni alleati, dando vita ad una colonia prospera che durò fino al XV secolo, quando, a causa dell'inasprirsi del clima e dell'interruzione dei commerci, la colonia morì.
Dalla Groenlandia si tentò di colonizzare il Nord America. Il figlio di Erik, Leif, sbarcò sulle coste nordamericane o canadesi nel 1000 e si tentò di ricreare lì la stessa situazione come in Groenlandia. Ma lo scontro con i nativi costrinse i groenlandesi a ritirarsi.
Verso est la situazione fu diversa.
Già dal VII secolo mercanti provenienti dalle coste orientali svedesi avevano commerciato con i paesi baltici. Durante l'epoca vichinga i contatti tra la Scandinavia e l'Oriente furono resi possibili grazie all'opera dei mercanti, provenienti in gran parte dalle zone centrali e centro-orientali della Svezia. Chiamati rus, risalivano i fiumi russi e commerciavano con gli arabi. Secondo la cronaca di Nestore, scritta da un monaco russo nel X-XI secolo, i popoli slavi chiesero al capo di un gruppo di rus, Rurik, di fermarsi e comandarli da re, per porre fine alle lotte interne.
Si crearono i principati di Rus', con centri principali Novgorod, Kiev, Staraja Ladoga. Anche qui come in Normandia, i vichinghi persero presto gli elementi culturali scandinavi, slavizzandosi.
Alcuni vichinghi giunsero anche nei pressi di Costantinopoli, a volte per mercanteggiare, altre volte con intenti poco pacifici. Se inizialmente i bizantini riuscirono sempre a tenere a bada le sporadiche flottiglie nordiche, quando queste si fecero più massicce furono costrette a pagare tributi per impedire assedio e saccheggi. Gli imperatori bizantini presero l'abitudine di assumere guardie del corpo scandinave, dette variaghi (dal termine var, "giuramento"). Anche il re norvegese Olav il Santo prestò servizio come variago. I variaghi avevano molti privilegi: potevano restare pagani e avevano il diritto di portare sempre con sè le armi, specie l'ascia da guerra per la quale erano famosi (e temuti).
Dalla fine del X secolo iniziò la massiccia opera di conversione degli scandinavi. Negli anni '90 del X secolo si battezzò il re danese Harald Gormsson "Dente Blu", e da lui iniziò a cristianizzarsi il popolo. In Norvegia il re Olav Tryggvasson si battezzò durante un soggiorno in Inghilterra, ed una volta in patria tentò di convertire a forza il popolo ma trovò l'opposizione dei nobili. A Svolder, nel 998, fu sconfitto da un'alleanza tra lo jarl Erik di Norvegia, Olof Eriksson re di Svezia e Sven Haraldsson re di Danimarca. Successivamente l'opera di conversione in Norvegia prese largamente piede con il regno di terrore di Olav II Haraldsson, detto sia "il Grosso" che successivamente "il Santo", che portò avanti il Cristianesimo con l'aiuto della spada. Morì in battaglia a Stikklastad nel 1030.
Dalla Norvegia il cristianesimo iniziò a diffondersi anche in Islanda. Nel 1000 l'Allþíng decretò che il popolo doveva avere una sola fede, e votò per l'adozione del cristianesimo come religione ufficiale, anche se ai culti pagani fu concessa la pratica privata e non ci furono persecuzioni verso chi non voleva convertirsi. La conversione degli islandesi andò avanti da sola, e prese drastiche svolte solo dopo che l'Islanda divenne territorio norvegese.
In Svezia il re Erik il Vittorioso si convertì in Inghilterra, ma al ritorno in patria riprese ad essere pagano. Il figlio Olof Eriksson si convertì nel 1008, ma fu costretto a ritirarsi dalla sede reale di Uppsala perchè s'era inimicato l'influente classe nobiliare. I successori continuarono ad essere cristiani, ma il popolo rimaneva pagano, soprattutto ad Uppsala, dove c'era il luogo di culto principale del regno. Alla fine del XI o all'inizio del XII secolo il tempio pagano, secondo le cronache, venne chiuso e nel 1164 ad Uppsala fu assegnato un vescovo (l'unico vescovo in Svezia precedentemente era a Skara). Sotto il regno di Sven (detto "Sven dei sacrifici") ci fu una breve rinascita del paganesimo regale, ma fu deposto ed ucciso. Nonostante i sovrani fossero cristani, in Svezia il paganesimo rimase una realtà coesistente al cristianesimo forse fino alla metà del XIII o l'inizio del XIV secolo. L'ultima parte della Svezia medievale ad essere cristianizzata fu la zona meridionale dello Småland.
giovedì 10 marzo 2011
LA STORIA DEL CIBO IN IRLANDA
L’Irlanda è un paese dove l’alimentazione ha dato sempre qualche problema; dai tempi dei Celti fino ai giorni odierni la reperibilità del cibo è sempre stata una chiave importante. Sarebbe sufficiente ricordare la “grande carestia” del XIX secolo che dimezzò la popolazione irlandese tra vittime per fame ed esuli per rendersi conto di quanto sia vera una tale affermazione.
Analizzando la cucina irlandese, sia essa antica che moderna, risulta spesso difficile dare una spiegazione chiara sui perché un’abitudine culinaria abbia assunto una tale conformazione. Basti pensare al fatto che l’Irlanda è un’isola ed il mare attorno è molto pescoso, ma l’industria della pesca non si è mai sviluppata in modo adeguato, cosa che invece avrebbe risolto parecchi problemi economici in tempi passati.
Nell’Irlanda moderna sono rimaste ben poche tradizione di derivazione celtica, ma se si vuole tracciare una linea storico-culturale irlandese non si può fare altro che partire dal 3000 a.c. quando cioè l’isola era dominata dai Celti. Dal punto di vista culinario, in particolare, la dieta nel periodo celtico era molto varia, ricca ed equilibrata, molto probabilmente basata su latte e carne con l’aggiunta di cereali ma solo nel tardo periodo celtico.
La storia degli antichi Celti risulta piuttosto oscura, ma attraverso alcuni testi antichi come ad esempio quelli di Tacito o il “De bello Gallico” di Cesare si può affermare che erano prevalentemente nomadi (per questo motivo almeno nel primo periodo celtico non coltivavano cereali) ed allevavano il bestiame; il bestiame stesso rappresentava la ricchezza e per questo motivo era oggetto di razzie. I guerrieri, al momento del pasto, si raccoglievano attorno al fuoco su cui era posto un enorme calderone dentro il quale veniva cucinata la carne ridotta in pezzi; i singoli pezzi venivano distribuiti in base alle dimensioni del pezzo di carne stesso a seconda del grado di importanza del guerriero.
In tarda epoca celtica si deve la scoperta della fermentazione dell’orzo e del grano per farne una bevanda da servire a tavola (l’antica birra) ed anche la distillazione per ottenere il whiskey; esisteva inoltre una “porzione per l’eroe” destinata ai guerrieri più valorosi. Secondo Tacito era questo un vizio che li rendeva molto vulnerabili dal punto di vista combattivo se solo fossero andati in battaglia sotto l’effetto di queste bevande. I commensali sedevano a tavola secondo una precisa collocazione. Ancora secondo Tacito gli ingredienti principali dei cibi erano selvaggina, latte cagliato e frutti selvatici, tutti preparati senza condimento.
Alla morte dei capi questi venivano sepolti insieme a carne, vino e birra in quanto credevano nella reincarnazione e gli alimenti dovevano servire per accompagnarli verso una nuova vita.
Nel forno insieme al cibo venivano spesso aggiunti dei sassi dipinti con volti grotteschi allo scopo di allontanare gli spiriti maligni, in un certo senso anche oggi viene fatta una croce sul pane prima di infornarlo.
James Bodley, un soldato inglese che prestò servizio in Irlanda tra il 1620 ed il 1630, scrive cosa gli è stato servito in un paese della Contea di Down dove si trovava insieme ai suoi commilitoni: soppressata con mostarda, vino moscato, oca farcita, pasticcio di carne di cervo e selvaggina, torta di zucca, prugne con latte cagliato, formaggio, frutta candita ed infine whiskey irlandese; quindi anche nel XVII secolo carne e latte erano ancora tra gli elementi principali del cibo irlandese.
In questo periodo venivano utilizzati anche altri ingredienti come il maiale, il manzo ed il crescione; il pane veniva consumato ma solo alcuni mesi l’anno, quando insomma c’era la disponibilità.
Tra il 1845 ed il 1851 l’Irlanda fu sconvolta dalla “Grande Carestia” che segnò profondamente la storia del paese e quella dei paesi dove gli irlandesi trovarono rifugio. Ovviamente questa tragedia cambiò completamente anche le abitudini alimentari degli irlandesi e la povertà in cui furono trascinati si prolungò per più di un secolo.
In quei 6 anni morirono di stenti circa un milione di persone, mentre un altro milione emigrò verso altri paesi; nel decennio successivo emigrò un altro milione di persone. All’inizio del ‘900 così come alla metà dello stesso secolo si contavano 4,4 milioni di abitanti (questo valore rappresenta il minimo storico) rispetto ai 8 – 9 milioni presenti prima della grande carestia.
Ma quale fu la causa di questo disastro ? Si può dire che la “Grande carestia” fu “preparata” diversi anni prima quando le terre irlandesi furono espropriate e date ai coloni inglesi che le coltivarono in modo adeguato, mentre gli irlandesi si trovarono costretti a basare le loro coltivazioni sulla patata alimentandosi di conseguenza quasi esclusivamente della stessa e per questo motivo in modo non bilanciato; non ci fu scampo per la popolazione quando la malattia che colpì la patata distrusse praticamente tutti i raccolti per diversi anni consecutivi. Le autorità inglesi inoltre avrebbero potuto salvare molte migliaia di persone in quegli anni se solo avessero ridistribuito i prodotti della terra agli abitanti affamati e non avessero invece esportato tutto verso la Gran Bretagna; inoltre molte persone si sarebbero potute salvare se il mare che circonda l’isola si fosse sfruttato pescando un po’ dell’enorme quantità di buonissimo pesce che popola quei mari.
In ultima analisi si può ricordare, giusto per ribadire il rapporto che gli irlandesi hanno avuto in passato con il cibo, lo sciopero della fame perpetuato da dieci prigionieri dell’IRA finita in tragedia nel 1981 (questa protesta derivava in effetti da un’antica tradizione celtica che voleva che i prigionieri di guerra digiunassero di fronte al nemico per costringerlo a scendere a patti).
mercoledì 9 marzo 2011
Costantino,il re santo che succedette ad Artù
Questo santo non va confuso con il celeberrimo imperatore, anch’egli venerato come santo specialmente dalle Chiese Orientali, sia cattoliche che ortodosse, e festeggiato al 21 maggio.
Tutto ciò che sappiamo di certo su sul santo di oggi è costituito dalle informazioni tramandate da Gildas, che ebbe a definirlo “cucciolo tirannico dell’impura leonessa di Damonia”. Si presuppone che in questo caso per Dumnonia si intenda la regione sud-occidentale dell’Inghilterra, cioè pressapoco la Cornovaglia, piuttosto che l’omonimo regno sviluppatosi nell’odierna Scozia. Costantino, nato verso il 520, ascese probabilmente al trono nel 537 dopo la morte di suo padre Cado. Gildas narra come il primo periodo della sua vita fu a dir poco “scellerato” e lo critica anche per aver ripudiato sua moglie, figlia del sovrano bretone Armoricana, allo scopo di commettere indisturbato parecchi adulteri. Inoltre, dopo aver giurato di voler fare la pace con i suoi nemici, si travestì da abate, entrò nel santuario dove questi si trovavano e li uccise spietatamente ai piedi dell’altare.
Anche il cavaliere arturiano Sir Costantino, che secondo l’“Historia Regum Britanniae” di Goffredo di Monmouth successe a re Artù sul trono di trono di Britannia, si sarebbe travestito da vescovo ed avrebbe ucciso in una chiesa i due figli di Mordred, con cui era in conflitto. Per tale motivo questa figura leggendaria a giudizio di alcuni potrebbe essere basata su quella storica di Costantino di Dumnonia.
Non pochi nobili personaggi in quell’area e nel medesimo periodo portano il nome di Costantino, fattore che rende ardua una netta distinzione fra di essi. Pare comunque cosa certa che il Costantino venerato come santo sarebbe quello convertitosi al cristianesimo grazie ad un incontro con San Petroc, anch’egli di nobile estrazione, dando così tangibile testimonianza della potenza del Vangelo di Cristo che può portare cambiamenti radicali nella vita di ogni uomo, anche del più accanito peccatore. In seguito alla conversione, morta la giovane moglie, abdicò in favore del figlio Bledric per dedicarsi alla vita religiosa.
Fondò chiese, attraversò il canale di Bristol e visse molti anni come monaco in Irlanda, cimentandosi nell’ascesi e nello studio delle Sacre Scritture, ricevendo addirittura dopo la dovuta preparazione l’ordinazione presbiterale. Si ritirò in eremitaggio a Costyneston (Cosmeston), nei pressi di Cardiff, e fu anche discepolo di San Columba di Iona e di San Kentingern. Spinto da questi grandi santi si spinse verso nord, ove fondò il monastero di Govan, ne divenne primo abate ed intraprese l’evangelizzazione dei Pitti, popolazione indigena dell’odierna Scozia. Fu in questo periodo e grazie al suo apostolato che tale paese si convertì al cristianesimo, assumendo il nome di “Scotia”.
Costantino, apostolo della Scozia, era destinato ad essere il primo martire a spargere il proprio sangue su quella terra per la sua fede nel Vangelo che andava predicando sulle pubbliche piazze: il 9 maggio 576 a Kintyre, infatti, fu trucidato da alcuni pagani fanatici e le rovine di un’antica chiesa a Kilchouslan segnano ancora oggi il luogo ove con ogni probabilità il santo spirò. Le sue spoglie mortali, ritrovate dai suoi discepoli, vennero traslate a Govon nella chiesa che prese a portare il suo nome. Nacque così una forte venerazione nei suoi confronti, che perdura sino ai giorni nostri.
La festa di San Costantino è celebrata il 9 marzo in Galles e Cornovaglia, l’11 marzo in Scozia ed il 18 marzo in Irlanda, anche se il Martyrologium Romanum lo commemora solamente in data odierna. E’ possibile, a seconda delle fonti, trovare questo santo citato come San Costantino di Cornovaglia, San Costantino di Dumnonia o San Costantino di Scozia. Tuttavia non va confuso, oltre che con il celebre imperatore, anche con altri santi sovrani vissuti in seguito sempre in Gran Bretagna e comunque non censiti dalla Bibliotheca Sanctorum: San Costantino re di Strathclyde, San Costantino I re di Scozia e San Costantino II re di Scozia.
PREGHIERE ORTODOSSE IN ONORE DI SAN COSTANTINO
Tropario
Rattristato per la perdita della tua giovane sposa,
tu hai rinunciato al mondo , o martire Costantino,
ma vedendo la tua umiltà
Dio ti ha chiamato a lasciare la tua solitudine
e servirlo come sacerdote.
Seguendo il tuo esempio,
noi preghiamo di avere la grazia di capire
che dobbiamo servire Dio secondo la sua volontà
e non come desideriamo,
per essere riconosciuti degni della sua misericordia.
Kondakion
Tu nascesti per esssere re di Cornovaglia,
o martire Costantino,
e chi avrebbe potuto prevedere
che tu saresti diventato il primo martire di Scozia.
Cantando le tue lodi, o santo martire,
noi riconosciamo la vanitàdi preferire
i progetti umani alla volontà del nostro Dio.