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lunedì 31 ottobre 2011
martedì 25 ottobre 2011
GILLES DE RAIS
Soprannome: Barbablù
Luogo omicidi: Machecoul (Francia)
Periodo omicidi: 1432 - 1440
Numero vittime: 300 +
Modus operandi: pedofilia, sadismo, torturava e squartava le sue vittime
Cattura e Provvidementi: strangolato il 26 ottobre 1440
Il mondo della storia è particolare. E' un mondo senza vie di mezzo, dove tutto è o bianco o nero, dove gli eroi nazionali vengono ricordati in maniera epica e quasi mitica, mentre i cattivi sono spesso disegnati come mostri senza anima.
Tra questi ultimi, troviamo Gilles De Rais, un nobile francese del XV secolo, un ufficiale militare che aveva combattuto al fianco di Jeanne D'Arc e che, al termine della Guerra dei Cento Anni, si ritrovò ad essere uno degli uomini più ricchi e potenti della Francia. Ottenuta la carica nobiliare di Barone su "raccomandazione" del nonno, un uomo molto influente che ricorreva al nepotismo per controllare più territori possibili, è probabile che la "caduta" di De Rais fu causata sopratutto alla sua ingenuità politica e al suo edonismo che lo portò a dissipare la gran parte dei propri averi.
Gilles De Rais non è però ricordato né per il glorioso passato militare né per gli sfortunati giochi di potere. La storia racconta che Gilles nascose per molti anni il lato oscuro della sua personalità, un lato scuro e sinistro che lo spinse a rapire, torturare e uccidere centinaia di bambini, figli di contadini per la maggior parte. Si tramanda inoltre che l'ufficiale usasse circondarsi di stregoni e alchimisti esperti in magia nera, con i quali cercava la formula per trasformare il metallo in oro.
Arrestato e minacciato di tortura, Gilles confessò di essere un omosessuale e un pedofilo. Due reati che a quel tempo erano puniti con la confisca di tutte le proprietà e con la pena di morte.
La storia ci consegna così Gilles De Rais come uno dei peggiori e più sadici assassini dell'umana esistenza. La maggior parte degli studiosi lo descrive come un cavaliere al servizio del Re, che una volta in pensione trascorse il tempo libero a violentare e uccidere ragazzini.
Altri invece sostengono che sia rimasto vittima di una congiura, perché è impossibile che sia riuscito a rimanere impunito per tutti quegli anni. Secondo questa ipotesi, De Rais sarebbe stato accusato con delle finte prove e condannato da un tribunale truccato, dal quale non riuscì a difendersi a causa della sua scarsa intelligenza. Un eroe di guerra, rimasto vittima di alcuni giochi di potere.
Per capire meglio Gilles De Rais e la sua storia, dobbiamo innanzitutto cercare di immaginarci la società in cui si svolgono i fatti. La Francia del 1400 è un paese tormentato dalla guerra, dalle pestilenze, dalla violenza e dagli intrighi politici. Un paese dove le cariche nobiliari e il potere vengono svenduti al miglior offerente, mentre i matrimoni strategici sono all'ordine del giorno.
Gilles nasce nel 1404, presumibilmente a Champtoce, in uno dei tanti castelli di proprietà della sua famiglia, chiamato la Torre Nera.
La Francia è ancora in guerra con l'Inghilterra a causa della disputa sull'erede del trono francese.
La causa della guerra risale al 1066, quando William il Conquistatore, Duca di Normandia, aveva invaso l'Inghilterra e ne era diventato Re. Le discendenze, la disputa su alcuni territori importanti come le Fiandre e diversi matrimoni combinati in 300 anni di storia hanno fatto il resto.
La guerra è scoppiata ufficialmente nel 1337, ma è risaputo che la Guerra dei 100 Anni sia stata piuttosto un insieme di battaglie sanguinose, separate tra loro da molti anni di tregua e alleanze momentanee.
Negli anni dell'infanzia di Gilles, sul trono inglese siede Enrico V, che è riuscito nell'impresa di riappacificare Inghilterra, Scozia e Galles e adesso pretende il trono francese.
A Parigi invece regna Carlo VI, detto Il Pazzo. Carlo è malato di schizofrenia, porfiria e disturbi bipolari. Sono note a tutti le sue famigerate "crisi", durante le quali il Re fa le cose più strane.
Una volta, sul finire del 1300, attaccò e uccise i soldati che gli facevano da scorta. Durante un'altra crisi, Carlo dimenticò il suo nome, ignorò di essere re e fuggì terrorizzato dalla moglie. Non riconobbe i figli, sebbene identificasse il fratello ed i consiglieri e ricordasse i nomi delle persone defunte. In alcuni degli attacchi successivi, egli vagò per il palazzo ululando come un lupo, si rifiutò di fare il bagno per mesi e soffrì dell'allucinazione di essere fatto di vetro.
Con un personaggio del genere a governare, il paese si ritrova diviso in diverse regioni, ognuna delle quali governata da un feudatario che dispone di grandi poteri, come coniare monete e fare leggi. In cambio il governo francese si accontenta di disporre dei servigi degli eserciti di questi Signori.
I primi anni di vita del giovane De Rais sono a noi sconosciuti. Come la società dell'epoca imponeva, è probabile che sia stato cresciuto come un "adulto in miniatura", trattato in maniera fredda e senza amore. Raggiunti i 7 anni, considerata l'età della ragione, probabilmente è stato istruito nelle discipline artistiche e umanistiche, costretto a recitare a memoria alcuni passi di letteratura greca e latina, addestrato nelle arti militari e nel bon ton.
Gli archivi descrivono Gilles come uno studente capace ed esperto nel campo militare, quanto goffo e grezzo nelle arti politiche. Sin da bambino viene quindi etichettato come individuo non all'altezza delle cospirazioni machiavelliche su cui si basa la Francia dell'epoca.
Il 25 ottobre del 1415, giorno di San Crispino, i due eserciti si fronteggiano sul campo di battaglia di Agincourt. Sarà una battaglia dura, ma alla fine l'esercito inglese, diretto da Enrico V in persona, la spunterà. Il Re inglese, al termine del combattimento, decide di uccidere gli 11 mila francesi catturati, per evitare di incontrarli in un'altra battaglia futura. Fra di loro ci sono molti nomi importanti dell'aristocrazia francese. Uno di questi è Amaury De Craon, zio di Gilles De Rais (all'epoca 11enne).
Fu la prima delle tre perdite significative che il giovane Gilles subirà in quegli anni.
Sua madre, Marie, muore durante la Festa dell'Epifania dell'anno dopo. Suo padre, Guy, muore invece pochi mesi dopo, ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia.
Nel proprio testamento, l'uomo lascia precise istruzioni affinché, per nessun motivo, i suoi due figli, Gilles e Rene, vengano affidati alla famiglia De Craon, dalla quale veniva sua moglie.
Anche in questo caso, i giochi di potere hanno la meglio e Jean De Craon, rimasto senza eredi, decide di venire meno alle volontà del proprio genero per il bene dei propri possedimenti. Così, verso la metà del 1416, Gilles e suo fratello si trovano affidati alle cure del terribile nonno .
Jean De Craon è un abile politico e cospiratore, sono pochi i personaggi storici che possono competere con le sue intricate macchinazioni. Agisce senza una coscienza e fa di tutto per raggiungere i propri scopi, principalmente legati al profitto. Non a caso, è il secondo uomo più ricco della Francia.
La sua influenza negativa si riversa immancabilmente sui due bambini. Mentre nei castelli dei loro genitori erano stati istruiti nella morale, nella religione e nelle discipline umanistiche, nel castello del nonno, situato a Champtoce, vicino alla Loira, vengono istruiti nelle arti militari e vengono plagiati dalla particolare morale di Jean. E'probabile che Gilles abbia sviluppato proprio in questo castello la perversione e la follia che esploderanno in età adulta.
Quando Gilles compie i 13 anni, Jean negozia il matrimonio tra lui e Jeanne Peynel, la figlia del Duca di Normandia. La ricchezza in dote alla piccola Peynel è pari a quella di Gilles e il matrimonio avrebbe reso la casata De Craon la più potente e ricca della Francia intera, per questo il Parlamento riesce a trovare in breve tempo un motivo abbastanza valido per impedirlo. Dieci mesi dopo, Gilles viene dato in fidanzato alla nipote del Duca della Borgogna. Anche questo matrimonio salterà, ma gli archivi storici non sanno spiegare il motivo.
Passano due anni e il 16enne De Rais è costretto dal nonno a rapire Catherine Thouars, una sua cugina erede di numerosi terreni. Jean fa rinchiudere nelle segrete del castello tre parenti della giovane che si erano avventurato in un'operazione di salvataggio, poi, nel 1420, sposa i due ragazzini e comincia le negoziazioni con il padre della ragazza, Milet Thouars. L'uomo però muore misteriosamente qualche tempo dopo e, in seguito alla liberazione degli ostaggi, Jean riesce a far riconoscere il matrimonio dalle autorità ecclesiastiche.
Gli anni successivi scorrono "tranquillamente", fino a quando, nel 1429, Gilles De Rais diventa consulente e primo generale di Giovanna D'Arco.
Dopo numerose e faticose battaglie, i due riescono a liberare Orleans e a scortare sano e salvo il nuovo erede al trono fino a Riems, la città dell'incoronazione dei Re francesi.
In quel periodo, Gilles riceve la massima carica militare francese e diventa molto potente, ma la sua ormai risaputa ignoranza politica lo lascia scoperto a diversi cospiratori che lo colpiranno molto presto.
Nel frattempo, nel 1432, anche Giovanna D'Arco cade vittima delle macchinazioni di un consigliere del Re e viene bruciata come eretica, mentre il nonno di Gilles, Jean De Craon, muore di malattia.
Sul letto di morte, l'uomo si pente di aver vissuto in maniera immorale e di aver cresciuto una persona spietata come suo nipote. Nel testamento, per farsi perdonare di tutto il male che aveva procurato in vita, l'uomo lascia tutte le proprietà ai contadini del luogo, mentre i soldi vengono destinati a un fondo per edificare due ospedali. Ai nipoti viene lasciata la spada personale.
Francesi e inglesi raggiungono un accordo e la Guerra dei Cento anni finisce. I nobili sciolgono i loro eserciti e tornano a gestire i propri terreni.
Tornato a vivere a Champtoce, Gilles si accorge ben presto che la vita sedentaria da eroe di guerra in pensione non fa per lui. La pratica militare in quegli anni aveva contribuito a celare la sua bramosia di morte, ma ora non c'è più nessuna battaglia da combattere. Memore delle stragi di nemici, il suo corpo desidera tornare a provare l'eccitazione del sangue che scorre fuori dal corpo di una vittima.
Gli archivi dell'epoca non sono molto precisi, ma la prima vittima di De Rais dovrebbe risalire al 1432, quando l'uomo si trasferisce con i suoi cortigiani al castello di Machecoul.
La vittima è un anonimo garzone di 12 anni, che un cugino di Gilles aveva mandato al castello per consegnare un messaggio. Alle autorità verrà raccontato che il bambino è stato rapito da una banda di briganti dei boschi.
Vestiti con gli abiti migliori e invitati a un banchetto, i bambini vengono trascinati dopo il pasto in una stanza nascosta, dove sono ammessi solo De Rais e i suoi servitori più fedeli.
Qui la vittima di turno viene appesa per il collo ad un gancio di ferro e quindi stuprata diverse volte. Tra una violenza e l'altra, Gilles De Rais toglie il ragazzo dal gancio e gli fa coraggio, consolandolo. Ad un certo punto, durante uno di questi gesti di conforto, il ragazzo viene ucciso.
Gli sventurati vengono assassinati in diversi modi, dalla decapitazione al taglio della gola. A volte vengono smembrati, altre volte vengono presi a bastonate sull'osso del collo. In alcuni casi, l'assassino si siede sulla loro pancia, facendosi un sacco di risate e masturbandosi nel vederli soffocare. Quando Gilles dispone di più teste decapitate, improvvisa macabre gare di bellezza.
De Rais fa forgiare anche una spada speciale, una spada a doppia lama corta e molto spessa, che lui chiama braquemard e che viene utilizzata appositamente per sgozzare i bambini.
Difficilmente le vittime vengono lasciate vive per più di una sera e occasionalmente il Barone ha rapporti anche con i loro cadaveri oppure gioca con le loro viscere.
I corpi vengono poi cremati e gettati nel fossato.
Gilles non è solo. Agisce con i suoi cortigiani. Non si sa con certezza fino a che punto siano costretti a reggergli il gioco e fino a che punto siano invece esseri perversi come il loro padrone. Uno dei principali coinvolti è un giovane, soprannominato Poitou, inseparabile braccio destro di Gilles. Originariamente arrivato nel castello come vittima, è stato risparmiato per la sua straordinaria bellezza e promosso al grado di complice.
Si sa inoltre che alcune persone procacciavano le vittime per lui.
Uno di questi è il cugino, Gilles De Sille, che gli manda numerosi bambini con qualche scusa, come il ragazzo-messaggero che ha dato inizio alla carneficina. Un altro procacciatore di vittime è Roger Briqueville, mentre che un'anziana donna senza nome, soprannominata da tutti "La Meffraye", si aggira per i borghi contadini rapendo alcuni bambini.
Tutte queste persone confesseranno i loro crimini durante il processo a De Rais e saranno punite.
Ben presto cominciano a girare strane voci sul castello di Machecoul, tanto che la gente trasale innanzi ai viandanti che dichiarano di venire da lì.
Le numerose scomparse di bambini dai villaggi mettono in allarme la popolazione contadina. De Sille sparge la voce che i bambini sono stati consegnati al Re d'Inghilterra, secondo un patto di pace, e che saranno educati come paggi di corte. Gli archivi non ci sanno dire se queste voci bastarono a placare l'opinione pubblica, ma di sicuro le scomparse continuarono senza freno.
Anche misticismo, spiritualità e religione giocano un ruolo importante nella vita di Gilles De Rais.
E' proprio il conflitto tra questo suo aspetto religioso e caritatevole con i crimini che avrebbe confessato sotto tortura che spinge molti studiosi a dubitare della reputazione criminale che accompagna il nome di Gilles da secoli.
Fervido e generoso sostenitore della Chiesa, De Rais fa edificare numerose cappelle e addirittura una cattedrale, stipendiando anche gli ecclesiastici necessari a svolgere tutte le funzioni.
Come compagno di Giovanna D'Arco, era stato testimone dei suoi miracoli, per esempio l'improvviso cambiamento di vento durante una battaglia in seguito a una preghiera della donna. Era al suo fianco quando l'eroina si era strappata via dalla spalla un dardo che avrebbe mandato all'ospedale un cavaliere di taglia media. L'aveva ascoltata pronunciare profezie che si sono poi avverate.
Per questo a Gilles non è mai risultato difficile credere nel soprannaturale, anche se secondo alcuni storici si sarebbe presto convertito all'alchimia e alla necromanzia.
L'alchimia era stata bandita dalla Chiesa un secolo prima, ma ciò non aveva dissuaso molti credenti dal cercare la famigerata Pietra Filosofale, che secondo la leggenda ha tra i suoi poteri quello di trasformare il piombo in oro. La chimica moderna trova le sue radici in questi folli sperimentatori che, nonostante le loro immorali motivazioni, fecero delle scoperte molto importanti per l'umanità.
La maggior parte degli alchimisti era comunque composta da un manipolo di ciarlatani e prestigiatori che approfittavano delle loro abilità con le mani e con le parole per servirsi di uomini ricchi e creduloni.
Gilles, fissato con il misticismo e in crisi economica, diventa ben presto una facile preda di questi alchimisti artefatti e non ammetterà mai di essere stato manipolato e raggirato numerose volte. La maggior parte degli alchimisti da lui assunti scapperà infatti con un bel bottino, dopo aver mostrato un paio di numeri da circo.
Oltre all'alchimia, uno dei riti che più interessano De Rais, è l'invocazione di qualche Demone, al qualche vorrebbe chiedere di ripristinare la sua ricchezza e di donargli molto potere.
Per questo motivo, nel 1439, fa venire da Firenze un certo Francesco Prelati, un truffatore molto abile e intelligente, che è riuscito a crearsi la fama di più grande mago della Penisola, capace di invocare qualsiasi tipo di spirito o entità soprannaturale.
Un giorno di maggio, verso mezzanotte, il ragazzo si appresta a realizzare un'invocazione di un Demone. Lo assistono De Rais, De Sille, Poitou e Blanchet, l'alchimista di fiducia di Gilles.
Riuniti nella sala più bassa del castello, tra le tappezzerie antiche e i manufatti di guerra, Prelati disegna un grande cerchio sul pavimento e comincia a tracciare strani simboli pagani e religiosi all'interno. De Rais stringe tra le braccia un libro di formule magiche che avrebbe fatto scrivere con il sangue dei bambini uccisi.
Lo showman apre tutte le finestre della stanza e avverte il suo pubblico di non farsi per nessun motivo al mondo il segno della croce durante il rito. Per tutta risposta, Gilles caccia tutti i presenti, ritenuti da lui dei grandi fifoni, e chiede di rimanere solo con il mago.
La fortuna assiste Prelati e un temporale si scatena dopo circa 3 ore di invocazioni inutili, permettendo al toscano di carpire ancora di più la fiducia del suo "datore di lavoro". Prelati dichiara così che Barron, un demone molto potente, si è messo in contatto con lui e ha chiesto il cuore, gli occhi, le mani e l'organo sessuale di un bambino.
Gilles accontenta il truffatore, che per i 10 mesi successivi riuscirà a portare avanti questa commedia con successo, mettendo da parte un buon gruzzolo. Il Demone Barron naturalmente non si paleserà mai, ma in compenso intratterrà numerose discussioni private con Prelati.
I fallimenti esoterici non distraggono comunque Gilles dalla sua sete di sangue e le sparizioni dei giovani contadini continuano.
Nello stesso anno, il 1439, Rene De Rais, preoccupato dallo sperperare del fratello, riesce ad ottenere dal Re un editto che gli conferisce il controllo del castello di Champtoce e impedisce a Gilles di vendere qualsiasi appezzamento di terreno della famiglia.
Quando Gilles scopre che Rene sta venendo in visita con le intenzioni di prendere possesso anche del castello di Machecoul, si fa prendere dal panico e ordina a Poitou e a Henriet (un servo anziano e molto fedele) di uccidere e bruciare immediatamente i 40 bambini che sono ancora tenuti in ostaggio nel maniero.
La cosa viene fatta troppo in fretta e viene scoperta da due nobili amici di De Rais, che decidono però di non denunciare il fatto, in quanto le vittime sono semplici e miseri contadini.
Il timore di Gilles si rivela comunque corretto. Tre settimane dopo essere passati da Champtoce, Rene e un suo cugino occupano Machecoul.
Gilles De Sille e un servitore vengono incaricati di distruggere tutti gli attrezzi alchemici e di far sparire alcuni scheletri rinvenuti nelle segrete, sui quali i familiari di Gilles non si interrogano nemmeno, innalzando di proposito un muro di silenzio.
Impotente politicamente, in pensione a soli 36 anni, senza i soldi per pagarsi un esercito e privato del potere di gestire le sue proprietà, Gilles De Rais è ormai una preda facile e ambita da molti dei feudatari vicini, che desiderano ardentemente entrare in possesso dei suoi terreni.
Cominciano ad essere tessute delle intricate trame e per Gilles scatta il conto alla rovescia.
L'inizio della fine si colloca nei primi mesi del 1440, quando Gilles, messo insieme un piccolo esercito di briganti, fa irruzione nella chiesa di St. Etienne de Mermorte durante un'importante rito cattolico. Con lo sguardo da pazzo e brandendo un'ascia, Gilles prende in ostaggio il prete, fratello di un nobile che aveva occupato un castello dei De Rais costringendoli a venderglielo, pretendendo la liberazione della sua proprietà.
E' a questo punto che i nemici di Gilles decidono che il rivale è andato troppo oltre.
Jean V, Duca della Bretagna (il fratello del prete sequestrato) è il primo a muoversi e a formare un'alleanza con il Vescovo di Nantes, Jean De Malestroit, rivale della famiglia De Rais da molti anni.
Malestroit comincia l'operazione anti-Gilles De Rais, raccogliendo deposizioni e informazioni da sette persone vicine all'ex combattente, mettendo insieme tutte le informazioni utili. Possiamo immaginare la sua reazione quando scoprì del libro magico scritto con il sangue dei bambini per invocare i Demoni e delle torture ai danni dei giovani contadini.
Nel luglio del 1440, viene finalmente pubblicato il documento su Gilles De Rais redatto dal Vescovo.
Nel rapporto, Malestroit asserisce: "Milord Gilles de Rais, cavaliere, signore e barone posto sotto la nostra giurisdizione, con certi complici tagliò le gole a molti giovani e ne uccise atrocemente degli altri. E' stato dichiarato che lui ha praticato con questi bambini la sodomia. Spesso ha cercato di convocare a sé degli esseri infernali, facendo anche sacrifici umani in loro nome, e ha perpetrato altri orrendi crimini sempre restando entro i limiti della nostra giurisdizione..."
Nonostante le parole aspre provenienti dalla cattedrale in Nantes, Gilles rimane risoluto e si barrica ingenuamente nel castello di Tiffauges. Lui è Maresciallo di Francia, capo militare del Re, padrone spirituale del potente Demone Barron e signore dei villaggi di Rais: nessuno avrà mai il coraggio di sfidarlo e di presentarsi al castello per accusarlo di eresia e omicidio.
I suoi complici non sono invece così ottimisti. Gilles De Sille e Roger Briqueville avevano messo da parte dei soldi per un'evenienza simile e fuggono. Henriet tenta inutilmente il suicidio.
Solo Poitou e i due maghi Prelati e Blanchet rimangono fedeli a De Rais, attendendo il proprio fato nel castello.
Ad agosto, il Conestabile della Francia, fratello dell'onnipresente Duca della Bretagna, prende possesso del castello di Tiffauges e chiede il permesso alle autorità per poter arrestare De Rais, che nel frattempo si rifugia a Machecoul. L'autorizzazione non arriva fino al 14 settembre 1440, perché il Re aveva ordinato di aprire un'inchiesta parallela a quella del Vescovo di Nantes, per assicurarsi che le prove fossero fondate.
Il giorno successivo all'autorizzazione per l'arresto di Gilles, il Duca di Bretagna si presenta ai cancelli di Machecoul e prende in custodia sia il Barone che i suoi servitori. De Rais viene portato a Nantes, dove un tribunale lo interroga sull'assalto alla chiesa di St. Etienne de Mermorte. Nessun fa cenni agli omicidi di bambini o alla passione per il soprannaturale.
Non trattandosi di un cittadino comune, la custodia di Gilles si svolge nelle comode stanze di un castello a Nantes. Mentre lui si gode questa "vacanza" forzata, il giudice principale della Bretagna, Pierre De L'Hopital, fa interrogare i genitori e i parenti dei bambini scomparsi nei dintorni di Machecoul. Molte donne dichiarano di essere state costrette da Poitou a consegnare i loro figli per permettere a De Rais di condurli al castello dove ne avrebbe fatto dei cortigiani.
Gli interrogatori ai parenti delle vittime vanno avanti da 18 settembre all'8 ottobre, sotto l'occhio attento delle autorità ecclesiastiche che pretendono e ottengono la partecipazione del Vicario dell'Inquisizione, Jean Blouyn.
Il 13 ottobre 1440, i giudici, basandosi sulle testimonianze raccolte, accusano formalmente De Rais di 34 omicidi (avvenuti a partire dal 1432), di sodomia, di eresia e di assalto contro un rappresentante della Chiesa. L'accusa chiede invece di alzare il conto delle vittime a 140, a partire dal 1426. La più curiosa delle accuse è sicuramente quella di non aver mantenuto fede a una promessa fatta a Dio, in un presunto periodo di pentimento, di fare un pellegrinaggio fino a Gerusalemme per purificare la propria anima.
Convocato di fronte al tribunale per rispondere ai capi di accusa, Gilles De Rais attacca verbalmente le persone che lo stanno interrogando, chiamandoli simoniaci (i venditori di indulgenze) e dichiarando di preferire l'impiccagione immediata piuttosto che parlare con loro. In tutta risposta, gli ecclesiastici di Nantes lo scomunicano.
E' una mossa astuta, che fa vacillare il credentissimo Gilles, preoccupato adesso della propria anima. Per questo l'imputato, due giorni dopo, visibilmente provato, riconosce l'autorità della corte e, inginocchiato e in lacrime, chiede umilmente perdono per l'attacco verbale di due giorni prima.
Il Vescovo, avendo ormai ottenuto la sua collaborazione, lo riammette prontamente nella Chiesa.
Nonostante sia De Rais che i suoi complici si siano dichiarati collaborativi, l'accusa chiede ed ottiene che Gilles venga torturato presso La Tour Neuve, per avere la sicurezza che l'imputato confessi tutto quello che ha fatto.
Nemmeno poche ore dopo, Gilles De Rais, prima ancora di cominciare il "trattamento", fermatosi davanti allo strumento di tortura che lo attende, si dichiara disponibile a consegnare a Pierre De L'Hopital e al Vescovo una confessione dettagliata e firmata. Nella confessione, Gilles scagiona i propri complici, dichiarandosi unico colpevole e responsabile. Confessa inoltre di aver agito per soddisfare i propri bisogni carnali e i propri vizi, senza altri scopi.
La confessione non contiene l'ammissione di aver tentato di invocare il Demonio. Siamo in un'epoca in cui l'omicidio di un contadino è ritenuto davvero di poco conto rispetto a un'eresia.
Per riuscire a condannare a morte il Maresciallo, i giudici hanno bisogno di una confessione anche sul piano esoterico. Per questo, decidono di minacciare di tortura anche il mago italiano, Prelati, che prontamente confessa di aver aiutato Gilles a invocare un Demone.
Quando i due si incontrano nei corridoi del tribunale, Gilles De Rais scoppia in lacrime e dimostrando di non provare nessun rancore dichiara al mago: "François, amico mio! Non ci vedremo mai più in questo Mondo, ma pregherò Dio affinché ci perdoni e ci faccia incontrare in Paradiso!"
Effettivamente non si vedranno mai. Condannato all'ergastolo, Prelati riuscirà ad evadere qualche anno dopo, ma, tornato a fare il mago, verrà definitivamente catturato, condannato per eresia e impiccato.
La settimana successiva, Gilles ripete la sua confessione di fronte alla corte ecclesiastica, che nuovamente lo scomunica, straziandolo. Sarà di nuovo il Vescovo di Nantes a riaccoglierlo nella Chiesa qualche giorno dopo, promettendogli una sepoltura in terra benedetta.
Il tribunale, nel frattempo, condanna Gilles, Poitou, Henriet ad essere appesi per il collo fino alla morte, mentre i loro corpi erano destinati a bruciare fino all'incenerimento su delle pire.
Non si sa che fine abbia fatto la vecchia donna che si aggirava nei boschi vestita di nero a rapire i bambini.
De Rais chiede e ottiene di essere giustiziato per primo, per dare il buon esempio ai propri servitori.
Gli imputati vengono condotti alla forca il 26 ottobre 1440.
Prima della sua esecuzione, Gilles pronuncia alla folla un lungo sermone su quanto sia pericoloso educare in maniera diabolica i giovani. Ammette i suoi peccati ed esorta gli astanti ad allevare i loro bambini in maniera severa e secondo gli insegnamenti della Chiesa.
Il testo intero del sermone è andato perduto, ma gli archivi ne parlano come un eccellente esempio di umiltà cristiana e di pentimento.
Gilles viene impiccato subito dopo, ma il Vescovo, per mantenere la propria promessa, fa rimuovere il corpo prima che la pira infuocata lo raggiunga e lo fa seppellire con il rito cattolico.
La chiesa dove si trovava la tomba andrà distrutta durante la rivoluzione francese.
Non vi voglio opprimere con l'ennesima descrizione degli intrighi e dei giochi di potere della nobiltà francese per spiegare come furono divisi gli averi di Gilles De Rais.
In breve, la moglie Catherine Thouars, sparita dalla scena poco dopo il matrimonio, si sposò con Jean De Vendome, un uomo ricco e potente, alleato dell'ormai potentissimo Duca di Bretagna, il presunto burattinaio di tutta la storia. La figlia di Gilles, Marie De Rais, si sposò con un ammiraglio della marina militare francese, stranamente nemico del Duca di Bretagna, ma morì senza figli. Il fratello Rene, ereditata la maggior parte dei beni, compreso il titolo di Barone, soggiornerà nel castello di Champtoce fino alla morte, controllato come un carcerato dagli uomini del Duca di Bretagna. Morirà nel 1473, lasciando una figlia che rimarrà senza eredi.
La casata De Rais, che il vecchio Jean De Craon aveva cercato in ogni modo di preservare e rendere potente era dunque finita miseramente.
La storia di Gilles De Rais termina qui.
Ricostruita soprattutto in base agli archivi storici, ci lascia comunque con il dubbio iniziale. Gilles De Rais è stato un eroe di guerra o un mostro sanguinario? La storia, si sa, la scrivono i vincitori e bisogna anche considerare che la confessione è arrivata solo dopo le minacce di tortura. Chi non confesserebbe, posto davanti a orribili strumenti di tortura? Secoli di storia dell'Inquisizione ci insegnano che delle donne, poste a quei trattamenti disumani, siano arrivate addirittura a confessare di aver praticato sesso anale con Satana!
I giudici inoltre non avrebbero mai permesso a Gilles di tenere un discorso alla folla se non fossero stati sicuri di avergli lavato il cervello. Coloro che continuavano a dichiararsi innocenti venivano giustiziati direttamente nelle segrete, dopo le torture, e veniva sparsa la voce che avevano confessato.
Noi non abbiamo nessuna prova della sua colpevolezza oltre alla sua confessione, dato che i corpicini, stando a quanto raccontato, venivano bruciati fino ad essere ridotti in cenere.
D'altra parte, che motivo avrebbero avuto tutte quelle famiglie per accusare Gilles De Rais di aver fatto sparire i loro figli? Inventandosi delle storie a proposito della scomparsa di alcuni bambini non avrebbero comunque ottenuto nulla in cambio. Non avevano nessuna buona ragione per mentire.
È improbabile che Gilles abbia ucciso un centinaio di bambini. E' possibile invece che abbia ucciso il primo messaggero che è arrivato al suo castello. A questo punto però, potrebbe non essere stata l'unica vittima...
La verità sul Gilles De Rais non ci sarà mai nota. Soltanto due cose resteranno abbastanza certe: la prima è che la confessione, essendo stata ottenuta con la forza, è comunque inesatta e volutamente esagerata. La seconda è che De Rais in qualche modo si era sicuramente macchiato di qualche crimine e non merita di essere ricordato esclusivamente come un eroe al servizio dell'esercito francese.
D.D.F(OCCHI ROSSI)
lunedì 24 ottobre 2011
Una Santa dal nome insolito: Tabita.
Questo insolito nomediviene, però, quanto mai suggestivo quando si sappia che Tabita in ebraico, significava " gazzella ", e che " gazzella ", a sua volta, era nome composto con la parola ebraica " bellezza ", evidentemente grazie alla delicata eleganza di questo animale.
In greco, la Santa di oggi è chiamata Dorcas: il significato di questo nome è identico, perché vuoi dire anch'esso " gazzella ".
Che cosa sappiamo sul conto della gazzella cristiana? Conosciamo soprattutto - anzi, esclusivamente - un episodio narrato dagli Atti degli Apostoli, che resta tra i miracoli più celebri dell'Apostolo Pietro.
Rileggiamo insieme: " C'era nella terra di loppe, - è scritto, - una cara discepola, chiamata Tabíta, che tradotto significava Dorcas. Era donna ricca di buone opere, e faceva molte elemosine.
" Avvenne che proprio in quei giorni ella si ammalò, e morì. E, dopo che l'ebbero lavata, la posero nella sala al piano di sopra. Siccome Lidda era vicina a Joppe, i discepoli, saputo che Pietro era lì, gli mandarono due uomini a pregarlo: "Non ti dispiaccia venire sino noi! ".
" Pietro si levò, e andò con loro e, come fu giunto, lo condussero nella sala di sopra. Tutte le vedove gli si fecero intorno, piangendo, mostrando le vesti e i mantelli di ogni genere che Dorcas faceva per loro.
" Allora Pietro, fatti uscire tutti fuori, si mise in ginocchio e pregò. Poi, rivoltosi alla morta, disse: "Tabíta, alzati”, ed ella apri gli occhi e, vedendo Pietro, si levò a sedere.
" Pietro le dette una mano, e la fece alzare e, chiamati i santi e le vedove, la presentò a loro viva.
" Il fatto - aggiungono gli Atti degli Apostoli -venne risaputo per tutta loppe, e molti credettero nel Signore. Pietro si fermò a Joppe diversi giorni, in casa di un certo Simone, cuoiaio ".
Nulla di più sappiamo sul conto della donna di Joppe, cioè deIl'odierna città di Giaffa. L'episodio miracoloso narrato dagli Atti degli Apostoli è l'unica testimonianza storica alla quale è affidato il ricordo della " gazzella " cristiana, richiamata in vita dalle preghiere di San Pietro.
I Greci introdussero il nome della " cara discepola " nel Calendario dei Santi, ma non si può dire che Tabita abbia mai conosciuto un culto particolare né una diffusa devozione. La sua memoria, tra i Santi, è restata sempre un po' in disparte, e neanche le leggende hanno aggiunto un seguito al clamoroso miracolo di loppe.
Ma la memoria della gazzella risvegliata dal sonno eterno dalle preghiere di San Pietro non si è perduta, e dalle pagine del testo ispirato, la figura della donna generosa si leva ancora eloquente davanti a noi, pur nell'oscurità che la circonda prima e poi.
mercoledì 19 ottobre 2011
Zanzotto, la poesia
che vedeva in anticipo
Andrea Zanzotto, nel giorno del suo 90/mo compleanno del poeta, in una foto d'archivio del 10 ottobre 2011 a Pieve di Soligo (Treviso).
+ Morto Zanzotto, il cantore del tempo
+ L'ultima intervista a La Stampa MARCO ALFIERI
E' morto ieri a 90 anni, festeggiati appena pochi giorni fa. Si confrontava con la tradizione, ma nella piena apertura al rischio della sperimentazione
MAURIZIO CUCCHI
Ha lasciato che il mondo lo festeggiasse per i suoi novant’anni, e poi, così rapidamente, si è congedato per sempre. Andrea Zanzotto ha scavato in profondità per tutta la vita, è stato una figura di intellettuale apertissima e capace di spaziare liberamente nelle più diverse forme del pensiero e dell’arte. Ma certo, è stato soprattutto un grande poeta, e lo è stato, in effetti, fin da subito, fino dagli esordi dei primi Anni Cinquanta. Possiamo tranquillamente affermare che la sua opera, nel panorama della nostra poesia del secondo Novecento, ha un valore di centralità assoluta.
Fino dai suoi esordi, promossi tra l’altro da figure ormai storiche di primissimo piano, tra le quali Giuseppe Ungaretti, l’intensità verticale della sua lirica - sempre caratterizzata, peraltro, da forti strappi interni, da vistose increspature - era stata ampiamente riconosciuta. Dopo Dietro il paesaggio (del ’51), con un libro come Vocativo (’57), Zanzotto aveva già scritto uno dei capitoli più sicuri della nostra poesia del secolo scorso, dimostrando, tra l’altro, una virtù che è dei grandi ma solo dei grandi: quella, cioè, di antivedere, di cogliere in sensibile anticipo i mutamenti storici. Poiché Zanzotto, considerato spesso scrittore arduo e poeta del significante, è soprattutto un grande poeta della complessità, un poeta di pensiero e di contenuti forti, un poeta nettamente immerso nella condizione del proprio tempo, nei suoi disagi e nelle sue contraddizioni. Cosa che ha spesso evidenziato nelle dichiarazioni pubbliche, nelle prese di posizione anche negli ultimi anni.
Ed è stato un anticipatore - da straordinario inventore di linguaggio quale era - di alcune delle principali tendenze della nostra poesia recente. Come l’uso del dialetto, tanto che con Filò, nel ’76 (un poemetto scritto su commissione di Federico Fellini per il Casanova), aveva riscoperto in poesia, tra i primissimi, le virtù di una lingua essenzialmente orale, legata al territorio - nel suo caso il Veneto, essendo nato e vissuto a Pieve di Soligo (Treviso). E questo suo forte legame con il territorio, e con quanto nel corso della storia il territorio ha saputo assorbire e progressivamente, in parte, cedere, è visibilissimo nella sua opera.
Ma Zanzotto è stato anche il primo a promuovere, in senso antiframmentistico, la necessità di un progetto ampio in poesia, e dunque di un’articolazione poematica, realizzata nella sua trilogia, da lui definita con sublime understatement «pseudo-trilogia», composta dal Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma (tra il ’78 e l’86). Nel primo di questi tre libri, forse uno dei punti più alti della sua ricerca (termine da lui prevalentemente usato per indicare il proprio lavoro poetico) si è cimentato magistralmente con la forma chiusa, scrivendo l’Ipersonetto, una serie concatenata di sonetti, che suonava come un definitivo, personale addio a una struttura classica, forse la più nobile e amata, poi ripresa in seguito da numerosi altri poeti delle generazioni più giovani.
«Tradizionista a sera / all’alba novatore», aveva già in precedenza detto ironicamente di se stesso, nelle IX Ecloghe. E infatti, uno degli elementi chiave della sua grandezza è stato nella capacità di confrontarsi sempre con l’amata tradizione della nostra lirica, ma nella piena apertura al rischio indispensabile del nuovo e dunque alla sperimentazione, come è evidente in uno dei suoi libri più apprezzati, La Beltà, del ’68. Dentro il suo animo era incancellabile il rimpianto per un perduto tempo della poesia elegiaca, per una quieta «normalità» semplice del suo amato paesaggio. Ma nella piena, per quanto dolorosa, consapevolezza che nulla sarebbe potuto ormai tornare com’era stato per secoli. Così come nulla avrebbe potuto riportare il senso della poesia alla sua classica dimensione, a quella degli amatissimi Virgilio e Petrarca.
Per chi lo ha conosciuto e lo ha ascoltato nel corso dei decenni, ha sempre meravigliato la vitalità formidabile e brillante della sua intelligenza, la scioltezza vivacissima di affabulatore creativo e critico nei confronti dei vari orrori della contemporaneità. Ho avuto la fortuna di incontrarlo quarant’anni fa, e l’onore di laurearmi sulla sua poesia. Mi si perdoni questa nota personale, ma anche la sua geniale semplicità umana è stata in grado di alimentare chi ha potuto frequentarlo.
A novant’anni, il pensiero poetico di Zanzotto si era conservato ben attivo. Ho qui tra le mani un suo volumetto di nove poesie, Il vero tema (Biblioteca Nazionale Marciana/Cento amici del libro), dal quale voglio citare, per concludere, questi versi: «Non c’è bruscolo di tempo / né di spazio / che non meriti per sé infiniti poemi / che già in sé non li sia».
domenica 16 ottobre 2011
Carlo Goldoni e i rapporti con l’Illuminismo Lombardo
di Domenico Letizia
Il riformatore comicista Carlo Goldoni ha attraversato dalla nascita alla morte l’intero secolo del settecento, quello famoso per la rivoluzione non violenta dei lumi. Goldoni ha rinnovato il teatro comico restituendogli dignità letteraria , salvandolo dalla deludente e primitiva commedia dell’arte a cui il teatro sembrava destinato e abilitandolo a svolgere una responsabile funzione di civilizzazione.
Le opere del Goldoni intrinseche di tematiche care agli Illuministi: dal contrasto generazionale, il sentimento di eguaglianza tra gli uomini, la polemica contro la nobiltà che disprezza i valori di sincera modernità, l’antipatia che Carlo Gozzi provava per il Goldoni, per il Gozzi il teatrante aveva attributo, e vi era riuscito, del ridicolo ai personaggi della nobiltà per cattivarsi l’animo della plebe, anche queste dichiarazioni fruttarono al Goldoni l’incondizionata ammirazione dei membri della Società dei Pugni quelli del famoso periodico lombardo e non “Il Caffè”, l’organo di battaglia e divulgazione dal carattere enciclopedico dei fratelli Verri, Pietro e Alessandro, lumi dell’illuminismo lombardo a cui partecipava e collaborava, il nonno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria passato alla storia per la pubblicazione nel 1764 del capolavoro, oggi ancora attualissimo per il diritto, la giustizia e anche l’etica filosofica: “Dei delitti e delle pene”.
Per il Caffè tutto ciò che rappresentava progresso, umanità e diffusione di queste era vera letteratura, la loro lotta era ispirata da originalità e da una seria e consapevole volontà di rinnovamento morale e culturale. Goldoni con la sua riforma, la commedia di carattere e attraverso i capolavori come “La Bottega del Caffe”, “I quattro rusteghi” o “La Locandiera” con la creatura capolavoro goldoniano Mirandolina, ha espresso concretamente le idee dei fondatori del Caffè.
Costoro provarono ammirazione e appoggiarono il Goldoni quando si svelarono le più aspre critiche da parte degli avversari sulla questione della lingua usata dal Goldoni, ritenuta banale, troppo legata ai dialetti, lontana dalle esattezze dei puristi della lingua italiana. Ma le ragioni e motivazioni che diede il Goldoni furono profonde, concrete e innovatrici: “Lo fo sapere agli esteri e i posteri ch’io non sono accademico della Crusca, ma sono un poeta comico che ha scritto per essere inteso in Toscana, in Lombardia, in Venezia principalmente ….. essendo la commedia un imitazione delle persone che parlano, più di quelle che scrivono, mi sono servito del linguaggio più comune rispetto all’universale italiano ”.
Anche da ciò la totale ammirazione concretamente legata a valori moderni per il poeta comico Carlo Goldoni da parte degli illuministi della Società dei Pugni e del periodico “Il Caffè” .
Rivista “InStoria”, Ottobre 2011
Il piú antico documento su Gallo è un frammento della Vita che B. Krusch data dalla fine del sec. VIII.
Il monaco Vettino compose una seconda biografia tra l'816 e l'824. Valafrido Strabone scrisse, verso l'834, una terza Vita e rimaneggiò una raccolta di miracoli composta da Gozberto il Giovane, monaco di San Gallo. Una Vita ritmica, pervenuta sotto il nome dello stesso Valafrido, è in realtà di un anonimo del sec. IX. Altri documenti posteriori non apportano niente di nuovo.
Nonostante queste Vitae, s. Gallo è poco conosciuto. Scartate le leggende e ciò che è incerto, si può dire che, nato in Irlanda verso la metà del sec. VI, fu uno dei dodici discepoli di s. Colombano, che lo accompagnarono nel continente. Visse prima a Luxenil col suo maestro, poi lo seguí di nuovo nei suoi spostamenti, specialmente quando partí per l'esilio l'anno 610. Insieme andarono fino a Bregenz, sulle rive del lago di Costanza, ma allorché Colombano dové partire per l'Italia, verso l'anno 612, si separarono e Gallo andò con qualche compagno a stabilirsi in Svevia, ad ovest di Bregenz, presso la sorgente dello Steinach, dove visse come eremita con alcuni fedeli, e dove, verosimilmente, morí in data indeterminata, fra gli anni 630 e 645.
Dopo la sua morte sulla tomba fu edificata una chiesa che, prima dell'anno 750, col nome sancti Galluni era divenuta il centro d'una abbazia, fondata da Otmaro. Nel sec. IX essa si chiamava abbazia di San Gallo, sebbene non fosse stata da lui fondata.
Che cosa si può ricavare da tradizioni piú o meno leggendarie trasmesse tramite le Vitae che conosciamo? Gallo sarebbe stato ordinato prete per volere del suo abate prima di lasciare l'Irlanda. In esilio a Bregenz, egli avrebbe mostrato molto zelo nel predicare alle popolazioni della regione e nel distruggere gli idoli, ciò che gli avrebbe attirato l'inimicizia dei pagani.
L'episodio piú noto è la sua separazione da s. Colombano: quando questi si mise in strada per l'Italia, Gallo, ammalato, sollecitò il permesso di restare. Colombano, credendo forse che la malattia nascondesse l'attaccamento ad un luogo calmo e gradevole, rimproverò a Gallo ciò che considerava un rifiuto ad affrontare pene e fatiche e in conseguenza gli vietò di celebrare il santo sacrificio della Messa finché vivesse. Gallo sarebbe infatti rimasto molti anni senza salire all'altare. Avvertito miracolosamente della morte prossima di Colombano, inviò un messaggero a sollecitare l'assoluzione presso il suo maestro che si trovava in Italia. a Bobbio. Il messaggero ritornò portando il perdono di Colombano e il suo bastone abbaziale lasciato al suo antico discepolo come pegno di riconciliazione.
Un giorno, mentre Gallo era in preghiera, un orso sarebbe venuto per cibarsi dei resti del pasto e per alimentare un magro fuoco acceso per riscaldare un ammalato. Gallo avrebbe tolto dal piede dell'orso una spina e questo lo avrebbe aiutato a costruire il suo romitorio. Per questa ragione l'iconografia rappresenta di solito Gallo accompagnato da questo animale. Egli avrebbe anche liberato dal demonio la figlia del re di Francia, Sigeberto, che, in riconoscenza, gli avrebbe offerto una proprietà presso Arbon, sul lago di Costanza, per stabilirvi un'abbazia. Gallo avrebbe rifiutato a due riprese il vescovato di Costanza e l'ufficio di abate di Luxeuil, ma avrebbe pronunziato, in occasione dell'intronizzazione nella cattedrale di Costanza di uno dei suoi discepoli, un discorso che si:sarebbe conservato. Sarebbe morto in Arbon, a novantacinque anni, e sarebbe stato sepolto ai piedi dell'altare del suo eremitaggio. Come separare in tutto ciò il buon grano della storia dal loglio della leggenda?
L'abbazia, fondata cento anni dopo la morte del santo eremita, divenne custode dei suoi resti e del suo culto. Usuardo iscrisse la festa di s. Gallo, che è ancor oggi celebrata anche il 16 ottobre, al 2 febbraio, data, probabilmente, di una traslazione delle reliquie. Il Pidoux riferisce che in questo giorno nell'abbazia di San Gallo, i sacerdoti celebravano tre Messe, come per Natale.
L'abbazia, a partire dall'854, fu esente dalla giurisdizione del vescovo di Costanza; nello stesso tempo divenne centro di irradiazione spirituale e culturale per una vasta regione, ma pur se potente e centro di un autentico principato monastico, non poté resistere alla Riforma. Nel sec. XVI le reliquie di Gallo furono bruciate quasi per intero dagli Zuigliani, padroni della città che era sorta intorno al monastero. All'abbazia successe un vescovato nel 1823 che divenne del tutto indipendente nel 1846.
Il culto di Gallo resta vivo nell'est della Svizzera, nel sud-ovest della Germania e nell'Alsazia. Nel 1950 il vescovo di San Gallo portò a Luxeuil, con una statua offerta dagli abitanti della città svizzera, alcune reliquie di Gallo. In Baviera, a Fussen e a Kempten, si possiedono ancora, si crede, i resti del bastone inviato da s. Colombano al santo.
In seguito ad una confusione nata tra il popolo, si invoca s. Gallo come protettore dei volatili, specialmente dei gallinacei.
Le leggende su San Gallo
L'orso di San Gallo nello stemma della città omonimaUna nota leggenda su San Gallo vuole che un fatto straordinario avesse avuto luogo presso queste cascate. Mentre il compagno di San Gallo, Hiltibod, dormiva, quegli era già sveglio quando improvvisamente gli si parò innanzi un grosso orso. San Gallo non si lasciò intimidire da quell'apparizione: egli ordinò all'orso, in nome del Signore, di gettare un pezzo di legno nel fuoco. L'orso ubbidì e gettò il pezzo di legno nel fuoco. San Gallo deve aver infine dato all'orso una pagnotta, a condizione che non si facesse più vedere. Hiltibod, che nel frattempo si era svegliato ed aveva visto ed udito tutto, disse a San Gallo: Ora so che il Signore è con te, se persino gli animali della foresta ubbidiscono alla tua parola. L'orso non si fece poi più vedere. Nell'interpretazione di questa leggenda l'incontro di San Gallo con l'orso fu un segno al missionario pellegrino di stabilirsi quel luogo e vincere le forze della natura.
La leggenda del mostro di Loch Ness
C'è un'altra leggenda riguardo a San Gallo, descritta nei libri della tradizione scozzese.[senza fonte] Si dice che San Colombano, che nel 565 con i suoi seguaci giunse nelle Highlands per convertire al cristianesimo gli scozzesi, abbia partecipato per puro caso ad una cerimonia funebre presso il lago di Loch Ness. Il morto fu afferrato all'amo da un mostro sul lago. San Colombano mandò un suo seguace (forse proprio San Gallo) sul luogo dell'incidente. Immediatamente il mostro emerse dai flutti. Non disturbare più questa gente! Ritorna immediatamente giù di dove sei venuto! ordinò il santo e fece il segno della croce. Il mostro obbedì e tutti i testimoni di questo miracolo si convertirono alla fede cristiana.
sabato 15 ottobre 2011
- ERA IL 15 OTTOBRE 1917
Novantaquattro anni fa moriva Mata Hari, la spia
Respinse con fierezza il giovane soldato, tutto emozionato, che voleva bendarle gli occhi
La donna spia più famosa di tutti i tempi, il cui nome d’arte, Mata Hari, è diventato addirittura sinonimo di mistero e seduzione, fu fucilata 90 anni fa, il 15 ottobre 1917, nel poligono militare francese di Vincennes, come spia dei tedeschi. Aveva 41 anni.
Per un personaggio così particolare, anche il momento fatale dell’esecuzione non può essere paragonabile ad una cerimonia “normale”: sul comportamento, vero o presunto, di Margarita Geltrude Zelle (questo il suo vero nome) di fronte ai militari incaricati di colpirla a morte, sono fiorite leggende e dicerie. C’è anche chi dice che i componenti del plotone furono bendati per prevenire il rischio che si facessero condizionare dal carisma della bella spia, pronta ad immolarsi al loro cospetto.
Mata Hari, poi, avrebbe affrontato l’ultima prova dando prova di uno smisurato sangue freddo, guardando tranquillamente negli occhi i suoi esecutori e addirittura inviando loro dei baci. Il fascino erotico della danzatrice olandese emerge infine nella voce, mai confermata, secondo la quale un attimo prima dei colpi Mata Hari si sarebbe tolta il soprabito, offrendosi nuda alle fucilate. Dettagli, chissà se reali, che contribuirono ad alimentare il mito dell’affascinante agente segreta e a tramandarlo nei decenni, fino ad oggi.
Quel 15 ottobre 1917, i fatti
Quel giorno Mata Hari venne svegliata all’alba. Sapeva cosa l’attendeva e non mostrò nessuna emozione, così come aveva fatto durante tutto il processo. Venne portata nella foresta parigina di Vincennes, normalmente luogo di fucilazioni o zona di esercitazioni al tiro dei soldati.
Formando un quadrato sul terrapieno del poligono di tiro trenta fucilieri attendevano allineati su tre file, le armi in pugno,con l’elmetto in testa e le uniformi azzurre.
La condannata venne accompagnata da due suore, un sacerdote e dal suo avvocato Clunet: indossava un lungo abito grigio, cappotto blu scuro e un ampio cappello di paglia che le nascondeva il viso.
Respinse con fierezza il giovane soldato, tutto emozionato, che voleva bendarle gli occhi. Dal plotone avanzarono i dodici fucilieri che avrebbero dovuto portare a termine l’esecuzione: uno dei dodici fucili era caricato a salve, per lasciare a ogni soldato l’illusione che si trattasse del proprio. Delle undici pallottole sparate, tre centrarono Mata Hari, una proprio al cuore. Non vi fu dunque bisogno di un colpo di grazia alla nuca come si era invece soliti fare per procedura.
Un soldato si avvicinò e disse ad alta voce: “Nessuno reclama il cadavere?”. Era la formula di rito e non ebbe risposta. Allora, secondo la legge, il corpo fu trasferito all’Istituto di medicina legale dove le venne recisa la testa dal corpo per essere conservata in un museo di anatomia a Parigi. Ciò che rimase venne sepolto in una fossa comune.
lunedì 10 ottobre 2011
Aveva letto d’ apparizioni e ritorni di morti che non riuscivano a staccarsi dalle cose amate, ma lui non era tornato, perlomeno, quel giorno. Solo il suo odore dappertutto. Quella sera aveva mangiato per la prima volta dopo l’ incidente: un po’ di pasta al sugo come piaceva a lei e al suo Ugo, ma non era riuscita a finire il piatto. Il picchio era arrivato mentre si accingeva a lavare quelle poche stoviglie. Si era messo a fare piroette ed acrobazie e lei s’era incantata a guardarlo. “Mi vedi?”. “Ti vedo”. (dal libro Il Picchio)
sabato 8 ottobre 2011
– Alone
O! I care not that my earthly lot
Hath — little of Earth in it —
That years of love have been forgot
In the fever of a minute —
I heed not that the desolate
Are happier, sweet, than I —
But that you meddle with my fate
Who am a passer-by.
I heed not that my founts of bliss
Be gushing, oh! with tears
That the tremor of one kiss
Hath palsied many years —
‘T is not that the flowers of twenty springs
Which have wither’d as they rose
Lie dead on my heart-strings
With the weight of an age of snows.
Nor that the grass — O! may it thrive!
On my grave is growing or grown —
But that, while I am dead and alive
I cannot be, love, alone.
Egdar Allan Poe
EDGAR ALLAN POE
LA VITA
E.A. Poe nasce a Boston nel 1809. da due attori girovaghi, entrambi morti di tisi, quando ancora egli era piccolissimo.
Di lui si prende immediatamente cura un commerciante scozzese di Richmond, John Allan, assieme alla moglie Frances Keeling Valentine, cui lo scrittore rimarrà per sempre legato affettivamente.
Nel 1815 gli Allan si trasferiscono in Inghilterra, dove il piccolo Poe comincia gli studi, che poi proseguirà anche al rientro negli Stati Uniti, iscrivendosi alla Virginia University di Charlottesville, dove studia lingue antiche e moderne. Ben presto, però, nonostante i suoi ottimi voti, viene espulso dall'Università per i suoi eccessi alcolici e per i suoi debiti di gioco. Questo ed altri fattori lo fanno entrare in duro contrasto con il patrigno, tanto che nel 1827, a soli 18 anni, decide di abbandonare la famiglia e di trasferirsi a Boston, dove pubblica a sue spese ed anonimo un libretto di poesie Tamerlane and other poems by a Bostonian (Tamerlano ed altre poesie). Il libro viene accolto dall'indifferenza generale e, per la delusione Poe decide di arruolarsi come soldato semplice nell'artiglieria federale con il nome di Edgar A. Perry. Nel 1829, però, interrompe il suo servizio per recarsi a Richmond per la morte della signora Allan. Questo evento luttuoso porta un riavvicinamento con il patrigno, anche se la rottura sarà ormai insanabile, tant'è vero che, quando nel 1834 Allan morirà, non lascerà nulla in eredità allo scrittore.
Grazie all'aiuto di John Allan, Poe riesce a sottrarsi al suo dovere nell'esercito, dove avrebbe dovuto restare ancora un paio d'anni.
Alla fine del 1829 si trasferisce a Baltimora da una zia, che lo manterrà per tutta la vita, ed ha modo di pubblicare una seconda raccolta di versi. Nel 1830 decide di nuovo di intraprendere la vita militare e si iscrive all'Accademia di West Point, da dove però sarà ben presto espulso per il suo rifiuto di sottomettersi alla rigida disciplina che vi impera.
Nel 1831 è a New York, dove, grazie all'aiuto di alcuni suoi amici di West Point, pubblica la terza raccolta di poesia, Poems.
Ritorna a Baltimora. Sul giornale locale The Courier pubblica i suoi primi cinque racconti: Metzengerstein, The Duc of l'Omelette (Il Duca dell'Omelette), A Tale of Jerusalem (Racconto di Gerusalemme), A decided Loss (Una perdita decisa), The Bargain Lost (L'affare perso). Per il racconto M.S. Found in a Bottle (Manoscritto trovato in una bottiglia), pubblicato sul Baltimora Saturday Visiter, nel 1835, vince un premio di cento dollari. Nel frattempo lavora nella redazione del Southern Literary Messenger, dove ben presto per le sue eccezionali doti di giornalista, viene promosso vicedirettore.
Il 22 settembre dello stesso anno sposa a Richmond la cugina Virginia Clemm, appena quattordicenne.
Nel 1838 pubblica il suo primo ed unico romanzo The Narrative of Arthur Gordon Pym (La storia di Arthur Gordon Pym), che però non ha successo. L'anno successivo a Filadelfia pubblica, invece, una raccolta di tutti i racconti che aveva sino ad allora scritto, intitolata Tales of Grotesque and Arabesque (Racconti del grottesco e dell'arabesco). Lavora poi nella redazione del Gentleman's Magazine, ed ancora una volta le sue straordinarie capacità di giornalista portano il giornale ad aumentare vertiginosamente la tiratura (addirittura dalle iniziale 500 copie a ben 40000!!). Si fa apprezzare sia come scrittore di racconti che come critico letterario, purtroppo i rapporti con il direttore del quotidiano diventano sempre più critici, tanto che Poe decide di abbandonare il giornale e fondarne uno tutto suo, attraverso una raccolta di fondi. L'esperienza di The Stylus, come Poe aveva chiamato il suo giornale, dura un paio di anni e non è delle più felici.
Inizia adesso il periodo più terribile di tutta la sua vita. La moglie si ammala gravemente e lo scrittore non avendo i mezzi per farla curare, si dà all'alcol e al laudano.
Nel 1844 è di nuovo a New York, pubblica sulla rivista The Evening Mirror la sua poesia più famosa The Raven (Il corvo), con la quale ottiene finalmente il successo che inseguiva da anni. Purtroppo per una serie di vicende il suo successo non dura a lungo. Infatti si riempie di nuovo di debiti di gioco e ricomincia a bere senza misura. Nel 1847 inoltre la moglie, a cui Poe era molto legato, muore di tubercolosi, da questo momento in poi lo scrittore cade in uno stato di prostrazione e di disperazione da cui non uscirà più. In questo periodo pubblica solo il poemetto in prosa Eureka. Il 3 ottobre 1849 viene trovato in stato di incoscienza in una locanda di Baltimora, ricoverato al Washington Hospital, muore di delirium tremens il 7 ottobre alle cinque del mattino.
martedì 4 ottobre 2011
Un vecchio proverbio dell'epoca dell'imperialismo cinese affermava: ' meglio avere un cane che una figlia'...
In una società fortemente votata al maschilismo, in cui l'uomo deteneva tutto il potere (lavoro, famiglia, pubblica amministrazione) si sviluppò un linguaggio segreto delle donne, detto appunto Nu Shu, che diventò uno spazio intimo e riservato al mondo femmininile, ignorato e trascurato dagli uomini, e gelosamente custodito dalle donne in questa speciale 'sorellanza'.
In quell'epoca così lontana, oppressiva, le donne apparentemente erano prive di qualsiasi diritto, in balia del volere dei padri e dei mariti. In questo clima il Nu Shu, un linguaggio strettamente riservato alle donne e tramandato di madre in figlia, rappresentava un modo di difendersi dagli uomini e dava un senso alla vita stessa.
Le origini di questo linguaggio segreto sono nella provincia dello Hunan e la sua nascita è strettamente connessa all'unicità degli usi e costumi locali che erano un mix di Cinese Han e dei gruppi etnici Yao (in cui era forte l'influenza matriarcale).
Furono le donne analfabete e senza educazione formale a inventare questo originale e unico sistema di scrittura, che mantenne il suo segreto per secoli grazie proprio alla discriminazione di cui le donne erano oggetto quotidianamente, in quanto considerate esseri inferiori, che servivano solo per la procreazione e per soddisfare i desideri degli uomini. Per contrasto le donne che conoscevano il Nu Shu chiamavano la scrittura cinese "Nan Shu", cioè scrittura dei maschi.
Il linguaggio segreto delle donne portava alla formazione di una sub-cultura strettamente femminile: il Nu Shu trovava espressione nella vita quotidiana delle donne, veniva letto con una speciale forma di canto, durante le riunioni di donne in cucina e mentre ricamavano.
Il Nu Shu aveva la funzione di rinforzare la sorellanza tra le donne unite nella stessa sorte, e di trasformare la vita quotidiana in una sorta di fuga colorata e profumata contrapposta al grigiore e all'odore pestilento di un quotidiano, altrimenti, insopportabile. Le parole segrete liberavano emozioni profonde e rivelavano il risentimento nei confronti della dominanza maschile e la malinconia di tutti i giorni.
Il Nu Shu fu ignorato per secoli, e solo negli anni 50 in Cina si prestò grande attenzione ad esso: si temeva che si trattasse di un codice segreto per lo spionaggio internazionale e ciò spinse i servizi segreti ad indagare, suscitando un grande interesse che coinvolse le migliori accademie del paese. Furono consultati i migliori linguisti ma nessuno degli esperti fu in grado di decifrare il Nu Shu.
Solo negli anni 80 il sistema di scrittura fu riconosciuto come Nu Shu, che significa, per l'appunto, "scrittura delle donne". Questa scrittura è composta da 7.000 caratteri e si differenzia molto dalla scrittura cinese i cui caratteri sono di forma quadrata, con linee dritte. Il Nu Shu è, invece, scritto con forme curvilinee e le donne spesso ricamavano i caratteri Nu Shu sui vestiti come se fossero dei disegni.
Poco tempo fa è morta Yang HuanYi, l'ultima donna che conosceva il vero significato del linguaggio.
Con la sua morte è tramontata anche un'epoca, l'epoca della discriminazione sessuale.
Al giorno d'oggi in Cina oltre alla parità formale è stata quasi raggiunta anche la parità reale tra i due sessi e lentamente sta tramontando anche la predilizione dei genitori verso i figli maschi.
Il Nu Shu non serve più, ma rimarrà per sempre nella storia a testimoniare la passata oppressione delle donne nella società cinese e nel mondo.
Il Nu Shu ha ispirato un libro, " Le parole segrete di Jin-Shei", di Alexander Alma. In un non definito regno dell'antica Cina, in cui a regnare sono le donne( che hanno il dono del jin-a-shu, una lingua conosciuta solo da loro, tramandata da madre in figlia..), si intrecciano i destini di alcune coraggiose ragazze legate tra di loro da un sacro vincolo di sorellanza: il jin-shei. Le jinshei-bao (le sorelle legate dal jin-shei) Tai, Liudian, Nhia, Xaforn, Yuet, Khailin, Qiaan,Tammary.. dovranno lottare contro un mago malefico (che per mantenere la propria giovinezza si nutre della linfa vitale degli altri esseri umani, preferibilmente ragazze vergini...) e contro le loro stesse paure...
FONTE: http://giovanicinesi.splinder.com