Uccidete Ipazia
Piergiorgio Odifreddi. «E il vescovo ordinò: “Uccidete Ipazia”, la prima matematica della storia. Inventò l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio. Fu la vittima del conflitto tra fede e ragione». La Stampa, sabato 21 agosto 1999, supplemento tutto Libri tempo Libero pagina 5.
Se ragione e fede costituiscono i due binarî paralleli lungo i quali si è mossa la storia dell’Occidente negli ultimi duemila anni, i testi che meglio ne rappresentano l’immutabile distanza sono gli Elementi di Euclide e la Bibbia, le due summe del pensiero matematico greco e della mitologia religiosa ebraico-cristiana, la cui efficacia ispirativa è testimoniata dall’incredibile numero di edizioni raggiunte da entrambi (duemila, una media di una all’anno dalla prima “pubblicazione”).L’episodio più emblematico della contrapposizione fra le ideologie che si rifanno ai due libri accadde nel marzo del 415, quando un assassinio impresse, come disse Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, «una macchia indelebile» sul cristianesimo. La vittima fu una donna: Ipazia, detta “la musa” o “la filosofa”. Il mandante un vescovo: Cirillo, patriarca di Alessandria d’Egitto.
Il contesto storico in cui l’avvenimento ebbe luogo è il periodo in cui il cristianesimo effettuò una mutazione genetica, cessando di essere perseguitato con l’editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l’editto di Teodosio nel 380, e iniziando a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri “pagani”.
Gli avvenimenti ad Alessandria precipitarono a partire dal 412, quando divenne patriarca il fondamentalista Cirillo. In soli tre anni il predicatore della religione dell’amore riuscì a fomentare l’odio contro gli ebrei, costringendoli all’esilio. Servendosi di un braccio armato costituito da monaci combattenti sparse il terrore nella città e arrivò a ferire il governatore Oreste. Ma la sua vera vittima sacrificale fu Ipazia, il personaggio culturale più noto della città.
Figlia di Teone, rettore dell’università di Alessandria e famoso matematico egli stesso, Ipazia e suo padre sono passati alla storia scientifica per i loro commenti ai classici greci: si devono a loro le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell’Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione.
In un mondo che ancora oggi è quasi esclusivamente maschile, Ipazia viene ricordata come la prima matematica della storia: l’analogo di Saffo per la poesia, o Aspasia per la filosofia. Anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ma Ipazia fu anche l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, oltre che la principale esponente alessandrina della scuola neoplatonica.
Le sue opere sono andate perdute, ma alcune copie sono state ritrovate nel Quattrocento; per ironia della sorte, nella Biblioteca Vaticana cioè in casa dei suoi sicari. Le uniche notizie di prima mano su di lei ci vengono dalle lettere di Sinesio di Cirene: l’allievo prediletto che, dopo averla chiamata «madre, sorella, maestra e benefattrice», tradì il suo insegnamento e passò al nemico, diventando vescovo di Tolemaide.
Il razionalismo di Ipazia, che non si sposò mai a un uomo perché diceva di essere già «sposata alla verità» costituiva un controaltare troppo evidente al fanatismo di Cirillo. Uno dei due doveva soccombere e non poteva che essere Ipazia: perché così va il mondo, nel quale si diffondono sempre le malattie infettive e mai la salute.
Aggredita per strada, Ipazia fu scarnificata con conchiglie affilate, smembrata e bruciata. Oreste denunciò il fatto a Roma, ma Cirillo dichiarò che Ipazia era sana e salva ad Atene. Dopo un’inchiesta, il caso venne archiviato «per mancanza di testimoni». La battaglia fra fede e ragione si concluse con vincitori e vinti, e il mondo ebbe ciò che seppe meritarsi.
Come si vede, già i puri fatti sono sufficienti a imbastire un discreto romanzo, come ha fatto Caterina Contini in Ipazia e la notte. Se poi questi fatti sono riconosciuti con attenzione psicologica e filosofica, e narrati con scrittura dolce e ispirata, allora diventa ottimo, e permette alla figura di Ipazia di stagliarsi luminosa nel buio della notte che la inghiottì insieme alla verità, sua sposa.
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