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domenica 31 ottobre 2010


PARSIFAL ED IL GRAAL

Intorno alla figura del Santo Graal sono nate, nel corso degli anni, numerose leggende che hanno affascinato tutti i popoli della terra in ogni tempo e luogo, stimolato la fantasia di numerosi scrittori.
In alcune leggende il Santo Graal viene descritto come il calice usato da Cristo nell'Ultima Cena, mentre per altre esso rappresenta la coppa in cui Giuseppe d'Arimatea (fig. 1) , avrebbe raccolto il sangue di Cristo crocifisso.
Ma, secondo altre leggende, si tratterebbe invece dello stesso calice adoperato in entrambe le occasioni.Per quanto riguarda la leggenda sorta in Spagna e in Francia intorno al 1100, il Graal è un oggetto sacro e misterioso che viene custodito in un tempio o castello in Bretagna. Essa narra inoltre che solo ai puri è dato raggiungerlo e i mortali che vi riusciranno, conquisteranno la felicità terrena e celeste.
Esistono però anche altre versioni risalenti addirittura al IV sec.: narrano che la Maddalena fuggita dalla terra santa portò il Santo Graal con sé a Marsiglia dove sono tuttora venerate le sue presunte reliquie.
Nel secolo XV questa tradizione aveva già assunto chiaramente un'importanza enorme nei personaggi come Renato d'Angiò, che faceva collezione di "coppe Graal".
Nel testo arturiano "Joseph d'Arimathie - Le Roman de l Estoire dou Graal" del 1202 scritto da Robert de Boron, il Graal viene descritto come il calice dell' Ultima Cena, in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Nuovi elementi in merito li ritroviamo in "Le Grand Graal", un testo di cui non conosciamo l'autore, che continua e integra il racconto del "Joseph di Arimathie". Il Graal viene associato a un libro scritto da Gesù Cristo, alla cui lettura può accedere solo chi è in grazia di Dio e le verità di fede che esso contiene non potranno mai essere pronunciate da lingua mortale senza che i quattro elementi ne vengano sconvolti. Se ciò, infatti, dovesse accadere, i cieli diluvierebbero, l'aria tremerebbe, la terra sprofonderebbe e l'acqua cambierebbe colore. Da questo si deduce che il libro-coppa possiede un temibile potere.
Ma perché il calice fu portato proprio in Inghilterra? I sostenitori della sua esistenza materiale affermano che durante la sua permanenza in Cornovaglia, Gesù aveva ricevuto in dono una coppa rituale da un Druido convertito al cristianesimo e quell'oggetto gli era particolarmente caro. Dopo la crocefissione, Giuseppe d'Arimatea aveva voluto riportarla al donatore ulteriormente santificata dal sangue di Cristo; il Druido in questione era Merlino.
Sia come sia, le peripezie subite dal Graal dopo il suo arrivo in Inghilterra variano in modo considerevole a seconda delle varie fonti. Estrapolando dalla Materia di Bretagna gli episodi più ricorrenti, è possibile tracciare schematicamente il seguito della storia. Giunto a destinazione Giuseppe affida la coppa a un guardiano soprannominato "Ricco Pescatore" o "Re Pescatore" perché, come Gesù, ha sfamato un gran numero di persone moltiplicando un solo pesce. Secoli dopo nessuno sa più dove si trovi il "Re Pescatore" e il Graal è, di fatto, perduto. Sulla Britannia si abbatte una maledizione chiamata dai Celti Wasteland , uno stato di carestia e devastazione sia fisica che spirituale. Per annullare il Wasteland - spiega Merlino ad Artù - è necessario ritrovare il Graal, simbolo della purezza perduta. Un Cavaliere (Parsifal o Galaad "il Cavaliere vergine") occupa allora lo "Scranno periglioso", una sedia tenuta vuota alla Tavola Rotonda, su cui può sedersi (pena l'annientamento) solo "il Cavaliere più virtuoso del mondo", colui che è stato predestinato a trovare il Graal. Ispirato da sogni e presagi, e superando una serie di prove perigliose come il "Cimitero periglioso", il "Ponte periglioso", la "Foresta perigliosa" eccetera, Parsifal rintraccia Corbenic, il Castello del Graal e giunge al cospetto della Sacra Coppa. Non osa però porre le domande <>, contravvenendo così al suggerimento evangelico "Bussate e vi sarà aperto" e così il Graal scompare di nuovo.
Dopo che il Cavaliere ha trascorso alcuni anni in meditazione, la ricerca riprende e finalmente Parsifal (o Galaad) pone il quesito, a cui viene risposto. <<È il piatto nel quale Gesù Cristo mangiò l'agnello con i suoi discepoli il giorno di Pasqua. (...) E perchè questo piatto fu grato a tutti lo si chiama Santo Graal>> . Il Re Magagnato si riprende, il Wasteland finisce; Re Artù muore a Camlann e Merlino sparisce nella sua tomba di cristallo. Il Graal viene a questo punto, siamo intorno al 540, riportato da Parsifal a Sarraz, una terra in medio oriente impossibile da situare storicamente e geograficamente; non è infatti in Egitto, ma "vi si vede da lontano il Grande Nilo" e il suo Re combatte contro un Tolomeo, mentre la dinastia tolomaica si estinse prima di Cristo.


sabato 30 ottobre 2010



Alas, So Long!








Dante Gabriel Rossetti
SO LONG


AH! dear one, we were young so long,
It seemed that youth would never go,
For skies and trees were ever in song
And water in singing flow
In the days we never again shall know.
Alas, so long!
Ah! then was it all Spring weather?
Nay, but we were young and together.
Ah! dear one, I've been old so long,
It seems that age is loth to part,
Though days and years have never a song,
And oh! have they still the art
That warmed the pulses of heart to heart?
Alas, so long!
Ah! then was it all Spring weather?
Nay, but we were young and together.
Ah! dear one, you've been dead so long,—
How long until we meet again,
Where hours may never lose their song
Nor flowers forget the rain
In glad noonlight that never shall wane?
Alas, so long!
Ah! shall it be then Spring weather,
And ah! shall we be young together?

Dante Gabriel Rossetti

- IL FRATRICIDIO

Adamo fu creato all'età di trent'anni ed Eva ne dimostrava venti quando Dio la trasse dalla costola dell'uomo. Dunque Adamo aveva soltanto quindici anni di vita quando generò Caino e sua sorella Catafola (o Chalmana). Nel trentesimo anno di vita di Adamo, nacquero Abele e sua sorella Delbora.

Un giorno Caino e Abele offrirono due arieti al Signore. Ma Dio non gradì l'offerta di Caino, mentre accettò quella di Abele. Ed ecco, colto dalla gelosia e dalla superbia, Caino brandì una mascella di cammello e colpì suo fratello, così come si colpiscono le vittime dei sacrifici, uccidendolo. Il sangue di Abele macchiò le pietre della terra, che da allora cessarono di crescere. Dicono che sia stato Seth, scorgendo il sangue del peccato, a raccogliere l'osso di cammello, ma questo non è possibile perché fu solo molto tempo dopo la morte di Abele, nel cento e trentesimo anno di vita di Adamo, che venne alla luce Seth, da cui sarebbe discesa la posterità di Adamo.

Altri dicono che l'odio di Caino nei confronti di Abele fu dettato dalla gelosia, in quanto erano entrambi innamorati di Catafola. Ma Adamo, giudicando troppo stretta la parentela tra Caino e la sua gemella, aveva sostenuto la pretesa di Abele contro quella di Caino, provocando la reazione omicida di quest'ultimo. Altri dicono che Pendan figlio di Adamo fu in seguito lo sposo di Catafola, e ciò spinse Caino a un secondo fratricidio.

Dopo l'uccisione di Abele, sette piaghe comparvero sul corpo di Caino: due alle mani, due ai piedi, due sulle guance ed una in fronte. E fu proprio nella piaga in fronte che Caino, molto tempo dopo, sarebbe stato colpito dalla mela scagliata da Lamech, terminando così i suoi giorni sciagurati.

L'ariete che Abele aveva offerto al Signore avrebbe in seguito sostituito Isacco, figlio di Abramo, sull'altare del sacrificio. La stessa pelle sarebbe stata veduta in seguito, quando Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.



7 - L'ETÀ DEI PATRIARCHI

causa dell'uccisione di Abele, Dio decise di mandare il Diluvio sulla terra per cancellare l'umanità, che viveva nel peccato. Unico a salvarsi fu Noè con la sua arca. Questa è la genealogia Noè: Noè figlio di Lamec, figlio di Matusalemme, figlio di Enoch, figlio di Iared, figlio di Malaleel, figlio di Cainan, figlio di Enos figlio di Seth figlio di Adamo.

Erano tre i figli di Adamo che avevano avuto discendenza, come dice il poeta:

Tre figli di Adamo ebbero progenie:
Seth, Sile, Caino depravato e perverso:
le loro tre mogli, forza vittoriosa!,
Olla, Pip e Pithíp.
«Padre di tutti, Signore del cielo» [37] [ANTOLOGIA]

Ma soltanto la razza di Seth sopravvisse al diluvio mentre la razza di Caino venne spazzata via, così come la razza di Sile. Secondo gli annalisti ebrei, che hanno sommato gli anni delle generazioni dei patriarchi, tra la creazione di Adamo e il Diluvio trascorsero mille seicento e cinquantasei anni. Questo calcolo è confermato dai versi degli antichi poeti di Ériu:

La prima età del melodioso mondo
da Adamo al Diluvio,
cinquantasei anni, computo chiaro,
più seicento più mille
«La prima età del melodioso mondo» [ANTOLOGIA]

8 - IL DILUVIO


uando, invero, Dio vide che le genti della razza di Seth trasgredivano il suo comando, che non vi fossero rapporti o alleanze con le genti della razza del malvagio Caino, decise di mandare il Diluvio per spazzare via il genere umano. Soltanto Noè aveva continuato ad ubbidire al comando divino e aveva evitato di unirsi ai cainiti. Così Dio decise che Noè si sarebbe salvato con la sua famiglia e gli comandò di approntare un'arca affinché scampasse alla catastrofe.

L'arca era di legno, spalmata di bitume dentro e fuori. Trenta cubiti era la sua altezza, trecento cubiti misurava in lunghezza e la sua larghezza era di cinquanta cubiti. La porta si apriva sul lato orientale. Noè condusse nell'arca una coppia di tutti gli animali impuri e tre coppie (o sette) dei puri, in modo da poter disporre delle vittime per il sacrificio una volta che fossero usciti dall'Arca.

Noè aveva per moglie Coba, che era sua sorella. Aveva tre figli, Sem e Cam e Iafeth, i quali avevano sposato le loro tre sorelle Olla e Oliva e Olivana.



Un giusto che una gelida morte non schiacciò:
Noè, eroe senza debolezze,
una vicenda terrificante resa lieta dalla passione,
Sem, Cam e Iafeth.
Donne eccellenti senza i colori della malizia,
sopra il Diluvio senza soccombere,
Coba, vigorosa come un bianco cigno,
Olla, Oliva e Olivana.
Nove, sessanta e novecento
a Matusalemme, senza falsità:
cinquanta e novecento, non fu meschina,
la vita di Noè figlio di Lamech.
«Un giusto che una gelida morte non schiacciò» [ANTOLOGIA]

Seicento anni era l'età di Noè quando entrò nell'arca. Vi salì a bordo, con la sua famiglia, il diciassettesimo giorno della luna di maggio, di venerdì, e Dio chiuse la porta dietro di lui. Piovve ininterrottamente per quaranta giorni e l'acqua ricoprì la terra. Il Diluvio sommerse tutti gli uomini e le bestie, tranne gli otto che erano sull'arca e gli animali che vi avevano caricato. (Gli antiquari ricordano tuttavia che si salvarono anche Enoch, che era in paradiso a combattere contro l'Anticristo, e Fintan figlio di Bóchra, che si trovava rinchiuso nella sua grotta in Irlanda, in quanto Dio lo aveva prescelto perché riferisse agli uomini le storie dei tempi antichi.)

Dodici cubiti era il livello dell'acqua sulle più alte montagne e questo per un'evidente ragione: l'arca era immersa per dieci cubiti ed emergeva per venti: in questo modo le cime delle più alte montagne sarebbero rimaste ben due cubiti sotto la chiglia dell'arca, senza danneggiarla.

Dopo cento e cinquanta giorni le acque iniziarono a prosciugarsi. Per sette mesi e ventisette giorni l'arca fu sballottata da onda ad onda, finché infine si posò sui monti dell'Armenia. Le acque si ritirarono fino al decimo mese ed il primo giorno del decimo mese si iniziarono a vedere le cime dei monti. Alla fine di altri quarantasette giorni, Noè aprì la finestra dell'arca e mandò fuori il corvo; e quello non tornò più indietro. L'indomani lasciò andare la colomba, e quella tornò in quanto non aveva trovato un posto dove posarsi. Noè la mandò di nuovo fuori dopo sette giorni, e alla sera la colomba ritornò, recando nel becco un ramoscello d'olivo con le foglie. Dopo altri sette giorni Noè la mandò fuori di nuovo e la colomba non tornò più indietro.

Noè uscì dall'arca il ventisettesimo giorno della luna di Maggio, di martedì, nell'anno seicento ed uno della sua vita. E la prima cosa che fece una volta uscito dall'arca, fu innalzare un altare a Dio e tributargli un sacrificio. Come dice il poeta:

Di venerdì, salirono a bordo
dell'Arca ultimata, allestita.
Di martedì, uscirono fuori
dal vascello ben lavorato.

venerdì 29 ottobre 2010


LA CREAZIONE
Il racconto biblico nel mito irlandese




Non fu mai tramandato il mito della creazione celtico, ché i monaci cristiani sostituirono opportunamente col racconto biblico. Ne vien fuori una Genesi infarcita di notizie extracanoniche, dotata di un bizzarro senso del meraviglioso e sottilmente orientata in senso «irlandese».


1 - IL COMPUTO DEL TEMPO

l mondo venne creato, secondo il computo dei più attenti annalisti irlandesi, 5194 anni prima della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo [Ísa Críst].

2 - LA CREAZIONE DEL MONDO

n principio fecit Deus Cælum et Terram...

In principio, Dio fece il cielo e la terra, Lui che non ha inizio né fine. Questo avvenne il quindicesimo giorno delle calende di Aprile, secondo gli Ebrei ed i Latini, anche se fino ad allora il mondo non aveva mai visto né albe né tramonti. Quella prima domenica, Dio fece la materia senza forma - fuoco e aria, terra e acqua - e la luce delle gerarchie angeliche. Lunedì fece i sette cieli e il firmamento. Martedì fece la terra e il mare. Mercoledì fece il sole e la luna e le stelle del cielo. Giovedì fece gli uccelli dell'aria e i rettili del mare. Venerdì fece le bestie della terra e quindi creò l'uomo affinché le governasse e le amministrasse. Sabato, Dio si fermò al compimento della Sua creazione e la benedisse. Ma ciò non significa che si distolse dal governarla.

In questo modo Dio fece le creature: alcune con un principio ma senza una fine, come gli angeli; altre con un principio e con una fine, come gli animali privi di ragione; altre ancora con un principio e con una fine ma senza una fine, come gli uomini, i quali hanno un principio quando nascono, un termine nei loro corpi mortali, nessun termine nelle loro anime immortali.



3 - IL PARADISO TERRESTRE

Dio fece un Paradiso in terra, nella pianura di Arón (che altri chiamano Eden), sulla costa meridionale di quella terra che si trova ad oriente del mondo (così come l'Irlanda si trova all'estremo occidente della Terra, sul lato settentrionale). Nel paradiso si leva la montagna del Pairtech, che il sole illumina nel suo sorgere. Non lontano si trova la sorgente di Nuchal, da cui sgorgano quattro fiumi liberi e possenti.

Il Pison - che altri chiamano Gange - è il primo fiume, fatto d'olio, che scorre verso est. Il Tigri è il secondo, di vino, che va ad ovest. L'Eufrate è il terzo, di miele, che scorre a sud. Il Geon - che altri chiamano Nilo - è il quarto, fatto di latte, che si dirige a nord. Come dice il poeta:

Il Pison sufflatio si rivela,
il Geon felicitas,
velocitas il Tigri possente,
e fertilitas l'Eufrate.
«La sorgente del Paradiso, fama duratura» [2] [ANTOLOGIA]

Al centro del Paradiso, nella pianura di Arón, si leva l'albero proibito, il cui nome è Daisia (o Dechuiman), e che dà molte specie di frutti meravigliosi.



4 - ADAMO ED EVA

uando Dio creò il primo uomo, lo fece in questa guisa: il suo corpo di comune terra, la sua testa della terra di Garad, il suo petto della terra d'Arabia, il suo ventre dalla terra di Lodain, le sue gambe della terra di Agoria. Altri dicono che Dio per la testa prese la terra della regione di Malón, per il petto raccolse la terra di Arón, per il ventre la terra di Babilonia, oppure quella di Biblo, per le gambe la terra di Labano e di Gogoma.

Per tre giorni rimase senza vita lo splendido sembiante di Adamo, dopo che era stato plasmato dalla terra. Il suo sangue e il suo sudore vennero dall'acqua, il suo respiro dell'aria, il suo calore dal fuoco, la sua anima dal respiro di Dio. Fu sul lato orientale del Pairtech, la montagna del Paradiso, che Adamo si levò in piedi per la prima volta e diede il benvenuto al sole che sorgeva. Fu allora che levò un inno al Signore. ― Ti adoro, ti adoro, o mio Dio! ― Furono queste le prime parole che mai furono pronunciate.

Il corpo di Adamo era forte e perfetto. Si mosse, e poi corse verso le sorgenti del Paradiso. Dio presentò ad Adamo tutti gli animali, affinché egli attribuisse un nome a ciascuno. Ma Adamo fu preso da grande tristezza, perché ogni animale aveva una compagna ed egli era solo. Allora Dio fece scendere il sonno su di lui, gli trasse una costola e da questa creò Eva. Non appena la donna fu presentata ad Adamo, egli rise di gioia. E quella fu la prima risata.

E disse Adamo: ― Ecco le ossa delle mie ossa e la carne della mia carne. ― E questa fu la prima profezia che venne proferita, in quanto Dio, quando aveva addormentato Adamo, gli aveva dato il dono della profezia.



5 - LA CADUTA


io assegnò il governo del cielo a Lucifero, con nove ordini di angeli al suo comando, e diede la terra ad Adamo ed Eva, e alla loro progenie.

Ma poi, accecato dalla presunzione e dall'orgoglio, Lucifero si ribellò e diede l'assalto al Cielo, sostenuto da un terzo di tutte le schiere celesti. Dio lo abbatté e scagliò lui e tutti i suoi angeli all'Inferno, dicendo: ― Arrogante è questo Lucifero; scendiamo dunque e confondiamo le sue decisioni. ― E questo fu il primo giudizio che fu mai pronunciato.

Allora Lucifero ebbe gelosia e odio nei confronti di Adamo, al quale Dio aveva promesso la beatitudine celeste in vece sua. Usando il potere che gli veniva dall'ineffabile nome di Dio, Lucifero assunse l'aspetto di un serpente, il corpo sottile come l'aria, e si pose sulla strada del primo uomo e della prima donna. Il serpente persuase la donna e poi l'uomo a peccare, inducendoli a mangiare una mela dall'albero proibito. La ragione per cui Dio aveva vietato di mangiare i frutti di quell'albero era che, se Adamo lo avesse fatto, egli avrebbe compreso di essere sotto il potere e l'autorità del Signore.




Adamo ed Eva, Caino e Abele. Particolare dalla «Croce delle Scritture» (VIII secolo), Clonmacnoise, Irlanda.



Questo avvenne di venerdì, quindici giorni dopo la creazione di Eva. Si dice che fu la mano sinistra ad essere tesa per prima verso il frutto. Per questo ancora oggi si dice che «la mano sinistra viene dopo la destra».

Quindi il Signore disse ad Adamo: ― Sei di terra e tornerai alla terra, e col sudore del tuo volto mangerai il tuo pane. ― E disse alla donna: ― Con dolore e sofferenza darai alla luce i tuoi figli e le tue figlie.

Adamo ed Eva furono cacciati dal Paradiso Terrestre e mandati nel mondo comune. Essi vagarono a lungo nella terra che un giorno si sarebbe chiamata Egitto: tre mesi dopo la trasgressione, una sola palma bastava a loro per procurarsi del cibo e delle vesti.

giovedì 28 ottobre 2010





Una fucilazione dimenticata





il Conte Lechi



L'anno è il 1797 e lo scenario è quello della Valtellina in Lombardia ai confini con la Svizzera.

La repubblica cisalpina è ormai una realtà .
Valtellinesi e Chiavennaschi, con i Bormini sudditi delle Tre Leghe dal 1512, stanchi dei continui soprusi dei magistrati di Coira e del decennale trascinarsi delle loro inascoltate doglianze presso il Governo dei Grigioni, hanno solennemente proclamato la loro indipendenza sicuri della protezione delle truppe francesi vittoriose.

La comunità dei Bormini non sembra avere lo stesso fuoco sacro e, malgrado i ripetuti inviti dei Valtellinesi, esita a dissociarsi dal governo dei Grigioni, sancito da un capitolato di intesa garantito dall'Austria.
Per quale motivo?

Sin dall''epoca della loro adesione, i Bormini riuscirono a mantenere anche sotto il governo dei Grigioni i privilegi di cui godevano con i loro statuti sotto il governo dei duchi di Milano.
Vi era poi una enorme diffidenza dei Bormini nei confronti dei Valtellinesi che traeva origine da una tragica esperienza durata vent'anni: un alleanza con i valtellinesi che portò a dure conseguenze dopo l'insurrezione del 1620, ricordata come "il sacro macello" ( i valtellinesi chiamarono questo avvenimento "la rivolta contro i riformati grigioni. Cesare Cantù, scrivendo nel primo ottocento, di questi avvenimenti, coniò l'intrigante dizione di "sacro macello".) e alle guerre che seguirono. Le rovine furono tali che si trascinarono materialmente e moralmente per più generazioni e crearono nella memoria dei Bormini una traccia indelebile: "mai più con I Valtellini !!". Traccia che trovò la sua concretizzazione persino nei loro statuti civili e nell'edificazione di un muro che separasse le due comunità eretto in località "ponte del Diavolo"( I ruderi superstiti del muro che ha resistito per decenni, furono coperti dalla frana che seppellì Sant Antonio Morignone )

Un passo indietro.
Dal 1785 si era rifugiato a Bormio il Conte Lechi, bresciano , fuggito dai Piombi di Venezia dove avrebbe dovuto scontare vent'anni per un presunto omicidio.
I magistrati dei Grigioni concedevano con riluttanza ed estrema lentezza l'estradizione anche per fatti di sangue. E i rapporti con la Repubblica di S.Marco erano pessimi da quando la repubblica aveva denunciato i trattati ed espulso tutti i sudditi Grigioni dal territorio. Pienamente tranquillo per la sua sicurezza il Lechi, con l'approssimarsi ai confini della valle delle vittoriose truppe napoleoniche portatrici di idee di uguaglianza e libertà, si fece promotore e fondatore di un piccolo e ardente nucleo "giacobino" di cui facevano parte discendenti di famiglie stabilitesi da lungo tempo nel territorio di Bormio ma , per qualche verso, considerate sempre forestiere e quindi mai ammesse a godere degli antichi privilegi.

L'atteggiamento dei Valtellinesi nei confronti delle nuove idee e degli eserciti vittoriosi fu di tale adesione che li portò il 19 giugno 1797 a proclamare solennemente la loro indipendenza dal governo dei Grigioni, che nulla fece per impedirlo timoroso dell'esercito francese e alle prese con dissidi interni.
L'esempio fu presto seguito con qualche eccezione, dal contado di Chiavenna .

Bormio invece resistette alle sollecitazioni anche di alcuni residenti e "patrioti" che la volevano unita all'azione di Chiavenna e Valtellina.

Le ragioni:

Bormio conosceva da lungo tempo non solo privilegi ma anche la parola libertà essendo abituata ad eleggere democraticamente i suoi rappresentanti di governo

La parola "rivoluzione" bandiera giacobina e Napoleonica poteva far presa sui valtellinesi e Chiavennati oppressi così come sui Bresciani insorti in quel periodo contro la Repubblica di S. Marco forti dell'appoggio francese. Nel ricordo dei Bormini tradizionalmente cattolici la parola "rivoluzione" richiamava alla memoria il tragico periodo della persecuzione religiosa (sacro macello) e alle sciagure che seguirono.

Non vi erano tensioni sociali che alimentassero desideri rivoluzionari

Non così la pensavano i Valtellinesi , i Chiavennati e il nucleo giacobino di Bormio guidato dal Lechi.
Non mancò da parte loro un "fraterno ammonimento" ai Bormini : se non si fossero uniti al movimento indipendentista avrebbero patito embarghi commerciali e probabili invasioni dell'esercito della neo repubblica Cisalpina.
Colpiti da questa esortazione e, qual buon peso, dall'assenza di garanzie del governo di Coira, il popolo di Bormio il 9 luglio proclamò l'indipendenza e la propria sovranità " in faccia a tutta l'Europa". La dichiarazione prevedeva si la protezione della repubblica Francese ma anche la totale indipendenza della comunità bormina da qualsiasi governo. Fu issata la bandiera tricolorata della repubblica Cisalpina accanto alla vecchia insegna del contado. I mugugni non mancarono anche se edulcorati dalla convinzione dei propri privilegi.
Privilegi che nei pensieri dei Giacobini e del loro concetto di libertà e di uguaglianza era giunto il momento di abbattere.

Difficile farlo accettare però a una comunità montanara prudente, parsimoniosa, diffidente verso le novità forestiere e così diverse dalla proprie tradizioni.

Il conte Lechi fu richiamato da Brescia, dove nel frattempo aveva potuto nuovamente riunirsi ai suoi familiari, da alcuni compagni del nucleo giacobino di Bormio e, qui ritornato, contestò violentemente il governo bormino e le sue decisione prese in assenza dei "forestieri" ai quali non era stata concessa la facoltà di esprimere la propria opinione in ossequio ai nuovi principi di uguaglianza.

I giacobini che "vagheggiavano e proclamavano ancora una rivoluzione coi fiocchi " si resero responsabili poi di misure restrittive nei confronti di tre delegati del governo bormino in viaggio verso Tirano e di un nuovo progetto di governo presentato al popolo direttamente con gravi minacce per quanti si fossero opposti.

Questo modo brutale di proporre dei rinnovamenti a una popolazione per certi versi conservatrice, era reso ancora più intollerabile perché imposto, più che presentato, da uno straniero e a un apparente acquiescenza fece presto seguito una furibonda reazione popolare che portò il 23 luglio 1797 al massacro di Cepina.

Dopo alcuni brevi scontri a fuoco tra i patrioti bormini e i partigiani del Lechi , in numero ormai esiguo per le numerose defezioni, Lechi e alcuni capi giacobini furono arrestati e condannati a morte.

Offertogli del vino e la possibilità di redimersi il Lechi così si pronunciò:" Bevo il sangue dei Bormiesi dei quali voglio far vendetta". Fu fucilato senza processo di li a poco assieme ad altri compagni per quanto avessero questi fatto atto di contrizione. Vi fu un superstite, l'unico tra gli arrestati: Carlo Filippo Nesini. Gli fu risparmiata la vita per intercessione del genitore a e di alcuni patrioti che gli riconoscevano, malgrado tutto del "buon animo".

Fin qui la vicenda.
Allora dove si annida il mistero ?

Cosa spinse il Lechi pur avendo ritrovato libertà e famiglia a sacrificare la sua vita ? L'ideale o la sete di potere? O che altro? O contò molto la superbia del "nobile" verso i plebei, ancorché fra loro si definissero patrizi?
La Valtellina e Bormio in particolare era ( ed è) sede di sviluppati traffici commerciali.

Cosa spinse il popolo bormino a disfarsi così sommariamente di un manipolo di presunti rivoluzionari che fino a quel momento di fatto non avevano inciso su privilegi e tradizioni di quel contado? Fu solo la presunta minaccia a stili di vita consolidati o timore e insofferenza nei confronti dei… forestieri ? Che ruolo ebbero nella vicenda i "patrizi" del luogo tradizionali custodi di consolidate gerarchie anche economiche ?

Un minimo comune denominatore per noi esiste : l'imperscrutabilità dell'animo umano, delle sue paure , delle sue bramosie, della sua intolleranza e l'ancestrale ricorso al capro espiatorio, comune a tutte le comunità giudaico/cristiane del tempo.
Senza di esse il mistero non esisterebbe.

La discussione è naturalmente aperta e il contraddittorio è il benvenuto.



Bbliografia
Tratto da " La storia dell'uccisione del Conte del Diavolo" di Prete Ignazio Bardea 1807 - a cura di Sandro Massera e Ireneo Simonetti - Edizione Alpinia

mercoledì 27 ottobre 2010


The Celtic New Year
Celtic Feast of Samhain: Celtic New Year



November 1 is the Celtic feast of Samhain. Samhain, Gaelic for "summer's end," was the most important of the ancient Celtic feasts.

The Celts honored the intertwining forces of existence: darkness and light, night and day, cold and heat, death and life. Celtic knotwork represents this intertwining. The Celts observed time as proceeding from darkness to light. The Celtic day began at dusk, the beginning of the dark and cold night, and ended the following dusk, the end of a day of light and warmth. The Celtic year began with An Geamhradh, the dark Celtic winter, and ended with Am Foghar, the Celtic harvest. Samhain marks the beginning of both An Geamhradh and the new Celtic year.

Samhain and the new Celtic year actually begin at dusk on October 31, the beginning of the Celtic day. Oidhche Shamhna, the Eve of Samhain, was the most important part of Samhain. Villagers gathered the best of the autumn harvest and slaughtered cattle for the feast. The focus of each village's festivities was a great bonfire. Villagers cast the bones of the slaughtered cattle upon the flames. (Our word bonfire comes from these "bone fires.") With the great bonfire roaring, the villagers extinguished all other fires. Each family then solemnly lit their hearth from the one great common flame, bonding all families of the village together.

The eve of the Celtic year was a very holy time. The Celts believed that Oidhche Shamhna was a gap in time. Our world and the Otherworld came together on the night between the old and new years. The dead could return to the places where they had lived. Many rituals of Oidhche Shamhna provided hospitality for dead ancestors. Celts put out food and drink for the dead with great ceremony. They left their windows, doors, and gates unlocked to give the dead free passage into their homes. Swarms of spirits poured into our world on November Eve. Not all of these spirits were friendly, so Celts carved the images of spirit-guardians onto turnips. They set these jack o'lanterns before their doors keep out unwelcome visitors from the Otherworld.

There was also a much lighter side to the Celtic New Year rituals. Young people would put on strange disguises and roam about the countryside, pretending to be the returning dead or spirits from the Otherworld. Celts thought the break in reality on November Eve not only provided a link between the worlds, but also dissolved the structure of society for the night. Boys and girls would put on each other's clothes, and would generally flout convention by boisterous behavior and by playing tricks on their elders and betters.

Divination of the events of the coming year was another prominent feature of Samhain. Celts used hazelnuts, symbols of wisdom, to foretell the future. Bobbing for apples, another traditional Samhain pastime, was a reference to the Celtic Emhain Abhlach, "Paradise of Apples," where the dead, having eaten of the sacred fruit, enjoyed a blissful immortality.

Ancient Celtic religion cast the year as a contest between the gods of winter and summer for the favor of the goddess of the earth. The god of summer claimed victory at Latha Buidhe Bealltainn, May Day, but at Samhain the god of winter, who was also lord of the dead, was victorious. Celts often depicted the god of winter with antlers which he shed each autumn like a stag. In parts of western Brittany the coming of winter is still heralded by the baking of kornigou. Kornigou are little cakes in the shape of antlers to commemorate the god of winter shedding his "cuckold" horns as he returns to his kingdom in the Otherworld.

Many ancient Celtic customs proved compatible with the new Christian religion. Christianity embraced the Celtic notions of family, community, the bond among all people, and respect for the dead. The Western Church gave Samhain a Christian blessing in 837 AD when November 1 was designated the Feast of All Saints or Hallow Tide. Oidhche Shamhna became Hallow E'en.



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(Stephen Clif Brown, Clan Henderson )

Susanna Berti Franceschi

martedì 26 ottobre 2010









Ériu: la splendida protagonista
Dare un nome alla terra




1 - I NOMI DI ÉRIU

riu, l'Isola di Smeraldo, ha avuto nel corso della sua storia molti nomi.

Il primo nome fu «Isola dei Boschi» [Inis na Fidbad], nome che le fu dato da Adna mac Bitha, discendente di Nin mac Béil, perché, quand'egli vi giunse, trovò l'isola coperta da un solo immenso bosco, fatta eccezione per la spoglia pianura di Mág nElta. Per tre volte, invero, Ériu si coprì di boschi, e per tre volte si spogliò del tutto.

Il secondo nome fu «Terra del Limite Remoto» [Críoch na Fuinedach], perché Ériu si stagliava davanti all'oceano, agli estremi confini del mondo. (E il termine gaelico fuin era invero parola relata al latino finis.)

Il terzo nome fu «Isola Nobile» [Inis Elga], così Ériu venne chiamata al tempo dei Fir Bólg e durante il dominio dei Túatha Dé Dánann.

Il nome successivo fu «Isola di Fál» [Inis Fáil], e furono i Túatha Dé Dánann a dare ad Ériu questo nome. Esso derivava dalla Lía Fáil, il Saxum fatale, la pietra che lanciava un grido quando la calpestava il legittimo re supremo di Ériu. Ma tale pietra non gridò più dal tempo di re Conchobar mac Nessa, perché i falsi idoli del mondo vennero messi a tacere quando nacque Cristo. Come dice il poeta:

Dalla pietra che è sotto i miei due calcagni
è stata chiamata Inis Fáil.
Tra le sponde del possente oceano,
la piana di Fál su tutta Ériu.

Ériu, Banba e Fódla furono i tre nomi che le diedero i Milesi, in onore delle tre regine dei Túatha Dé Dánann. Si chiamavano infatti Ériu, Banba e Fódla le spose dei tre re supremi che a quel tempo si dividevano la sovranità sull'isola, regnando ciascuno, a turno, per un anno. Poiché era lo sposo di Ériu a regnare l'anno in cui giunsero i Milesi, fu il nome di Ériu ad imporsi sopra gli altri due. (Altri dicono tuttavia che questo nome provenisse da Aeria, l'antico nome con cui era conosciuta l'isola oggi chiamata Creta o Candia, poiché fu in quella terra che le genti di Gaedal Glas si fermarono per qualche tempo dopo essere fuggite dall'Egitto.)

I due nomi successivi di Ériu furono «Isola delle Nebbie» [Inis Ceoí] e «Isola dei Porci» [Muic Inis]. Questi nomi le diedero parimenti i Milesi quando, nel loro tentativo di sbarcare in Ériu, videro un'isola nebbiosa con la forma di un dorso di porco, a causa degli incantesimi che i druidi dei Túatha Dé Dánann avevano lanciato loro nel tentativo di impedirgli l'approdo.

I greci la chiamarono Ogygia, come testimonia Plutarco. E invero questo nome vuol dire «terra più antica» [insula perantiqua], titolo assai appropriato visto che Ériu fu abitata fin dai tempi del Diluvio Universale.

I romani la chiamarono Hibernia, nome che nelle fonti classiche si presenta in diverse lezioni (è Ivernia in Tolomeo, Iverna in Solino, Ierna in Claudiano, Vernia in Eustazio), anche se nessuno degli antichi autori comprese mai l'origine e il significato di questo nome. Cormac mac Cuileannáin afferma, ma il suo etimo ha scarso fondamento, che provenisse da una radice greca dal significato di «isola occidentale». Altri dicono che l'isola ebbe tale nome in quanto i Gaeli discendevano dai Milesi, i quali era giunto dall'Iberia o Spagna.

«Isola dei Santi» [Inis Naom] fu detta Ériu dopo l'arrivo di Patrizio e la sua conversione nella Vera Fede. E invero non esistette un luogo, oltre ad Ériu, in cui la fede in Cristo fosse sentita in maniera più profonda e più dolce.

Durante il medioevo fu detta Scotia, dal nome di Scota, figlia del Faraone Nectonibus e antenata dei Milesi, e Scoti furono parimenti detti i suoi abitanti.

Irland «Terra degli Iri», dal nome di Ír, il primo dei Milesi a morire ed essere sepolto in Ériu, fu la denominazione germanica che i Vichinghi [Lochlannaig] diffusero alla fine dell'VIII secolo. Con questo nome Ériu in seguito fu conosciuta dagli Inglesi [Sasanaig] che la occuparono e la tennero a lungo e duramente.

Oggi, dopo aver a lungo sofferto e lottato, e dopo aver conquistato infine la sua indipendenza, l'isola è tornata a riprendere il suo antico nome. Poblacht na hÉireann «Repubblica d'Irlanda». Ed Ériu la chiameremo anche noi.



Fonti

Geoffrey Keating: Fondamenti della conoscenza d'Irlanda [II: 1]

SusannaBerti Franceschi

lunedì 25 ottobre 2010


IL LIBRO DELLE INVASIONI
(mitologia celtica)



Lebor Gabála Érenn / Leabhar Gabhála Éireann

Genere
Racconto

Epoca
XI-XII secolo




Il Libro delle invasioni d'Irlanda

Il Libro delle invasioni d'Irlanda è una narrazione in medio irlandese dell'origine del popolo dei Gaeli e del loro arrivo in Irlanda, a cui si aggiungono le vicende delle popolazioni preistoriche che li precedettero sul suolo dell'Isola di Smeraldo. Compilato in ambiente monastico a cavallo tra l'XI e il XII secolo, il Libro delle invasioni è costruito secondo il modello storico-genealogico della Genesi, sul cui «elenco delle nazioni» viene innestata la genealogia dei Gaeli.

Il materiale di base è fornito dalle tradizioni mitologiche irlandesi, riportate con grande accuratezza e dovizia di particolari. Alcuni poemi d'argomento genealogico, opera di famosi bardi quali Eochaid úa Fláinn (936-1004), Flánn Mainistrech († 1056) e Gilla Coemáin (XI sec.), sono citati direttamente nel testo, a testimonianza della correttezza della narrazione e della sua aderenza al sapere tradizionale. Ma pur trattando argomenti mitologici locali, i compilatori mostrano di avere ben presenti i padri della chiesa, soprattutto Sant'Agostino, Orosio, Eusebio e Isidoro di Siviglia, che usano più volte come modelli attraverso le asperità di una narrazione che per sua natura poco si adattava all'impianto classico. Ne risulta un testo composito, in cui il dato erudito attenua l'immediatezza del racconto mitologico; questo finisce per trasparire quasi di controluce, distorto da una forte interpretazione evemeristica e dal necessario adattamento al dato biblico. Detto questo, il Libro delle invasioni rimane uno dei testi fondamentali per la nostra conoscenza della mitologia celtica insulare.



La vicenda

Il Libro delle invasioni d'Irlanda prende l'avvio dalla creazione del mondo, trattando gli avvenimenti principali dalla caduta dell'uomo al diluvio universale. La fonte è ovviamente la Genesi, a cui tuttavia si aggiungono dettagli tratti da altre fonti giudeo-cristiane. Dalla discendenza di Iafet figlio di Noè viene fatto discendere il popolo dei Gaeli, il cui capostipite è Fénius Farsaid, uno dei costruttori della torre di Nimrod. Il suo pronipote Gaedal Glas, da cui i Gaeli trarranno il loro nome, crea la lingua gaelica - la più perfetta delle lingue - attingendo alle settantadue lingue createsi ai piedi della torre. Quindi il testo narra delle vicissitudini dei Gaeli nel corso di un lungo peregrinare durato molte generazioni, che richiama in molti punti sia il racconto dell'Esodo che l'Odissea di Omero. Dall'Egitto in Scizia, dalla Scizia in Iberia, dove i Gaeli si stabiliscono sotto il comando di Míl Espáine. Saranno poi i figli di costui, i Milesi, a partire alla conquista dell'Irlanda.

A questo punto il Libro delle invasioni sospende il racconto dei Milesi per narrare dei vari popoli che, nel corso di precedenti migrazioni, avevano popolato l'Irlanda per poi scomparire o essere sopraffatti dalle invasioni seguenti. Si narra diffusamente delle genti di Cesair, dei Partoloniani, dei Nemediani, dei Fir Bólg e dei Túatha Dé Dánann. Sono appunto i Túatha Dé Dánann a dominare Ériu quando i Milesi vi giungono.

Chiusa questa lunga parentesi, il testo riprende la narrazione là dove era stata interrotta. I Milesi sbarcano in Irlanda dapprima in pace, poi, con la forza delle armi, strappandola ai Túatha Dé Dánann. La presa di possesso dell'Irlanda da parte dei Milesi è sanzionata dai due canti di Amairgin, forse in assoluto le più antiche composizioni letterarie in lingua gaelica, tramandati dal Libro delle invasioni [ANTOLOGIA]. Padroni del campo, i Milesi stabiliscono il loro dominio sull'Irlanda ed i loro due capi, Éber ed Éremón dividono l'isola tra loro. Qui si chiude il Libro delle invasioni.



Il testo

Il Libro delle invasioni d'Irlanda godette di immensa popolarità presso gli storici e gli eruditi irlandesi, come testimoniano le molte copie, revisioni e rielaborazioni che del testo vennero fatte nel corso dei secoli. Il risultato è che una dozzina circa di manoscritti datati tra il XII e il XVIII secolo ci hanno trasmesso cinque redazioni diverse del testo. La redazione principale, probabilmente la più antica, è quella del Libro del Leinster. Nel Libro grande di Lecán sono riportate ben due redazioni differenti. Altre importanti versioni sono conservate nel Libro di Ballymote e nel Libro di Fermoy.

Tutta la storiografia irlandese attinse a piene mani al Libro delle invasioni, le cui narrazioni venivano accettate come letteralmente vere ancora nel XVII secolo. Geoffrey Keating (ca.1569-ca.1644)) riprende gran parte del contenuto del libro nei suoi monumentali Fondamenti della conoscenza d'Irlanda; come anche fece Míchél Ó Cléirigh (ca.1590-1643), autore di un'ultima redazione del testo (1631), il cui materiale utilizzò in seguito per i suoi Annali del Regno d'irlanda.

Il Libro delle invasioni fu tradotto per la prima volta in francese nel 1884. La prima completa traduzione inglese fu fatta da R.A. Stewart Macalister tra il 1937 e il 1942. Nel suo studio, Macalister ipotizzava che il testo fosse formato dalla convergenza di due lavori distinti: una Storia dei Gaeli, scritta sulla falsariga della Genesi biblica, da cui sarebbe provenuta tutta la parte relativa alla genealogia dei Gaeli ed alle loro peregrinazioni prima di arrivare in Iberia e dall'Iberia in Irlanda, e un testo originariamente indipendente sugli insediamenti pre-celtici d'Irlanda che era stato inserito nel mezzo del primo, interrompendo la narrazione in un punto cruciale. Secondo Macalister il testo pseudo-biblico sarebbe stato un lavoro latino di ambiente monastico intitolato Liber Occupationis Hiberniae, da cui si spiegherebbe perché il titolo medio-irlandese Leabhor Gabhála Érenn (letteralmente «Libro della presa d'Irlanda») faccia riferimento a una sola invasione mentre il testo ne riporta almeno una mezza dozzina.

Naturalmente la storia del testo è assai più complessa e variegata. In tempi più recenti, lo studio critico dei vari manoscritti ha mostrato che alla base delle varie redazioni vi sono non meno di quattro testi indipendenti che vennero usati come fonti dai compilatori delle versioni più antiche del Libro delle invasioni.

SBF

domenica 24 ottobre 2010


I TUATHA DE DANNAN

(mitologia gaelica)

Nelle fonti medievali, i Túatha Dé Danann sono il popolo che abitava l'Irlanda prima dei Gaeli. Questo ha spesso portato alcuni studiosi a identificarli con l'una o l'altra popolazione pre-celtica, ad esempio con i costruttori dei megaliti di cui è ricco il paesaggio irlandese. Tale identificazione è però priva di un vero fondamento, in quanto i Túatha Dé Danann sono attestati unicamente nella letteratura medievale e nulla li collega con le testimonianze preistoriche presenti sul suolo d'Irlanda.

Non vi sono motivi per ritenere che le narrazioni medievali abbiano una base storica: al contrario, tutto fa ritenere che i Túatha Dé Danann siano personaggi prettamente mitici. Il fatto che siano spesso tratteggiati come esseri sovrumani, dai poteri soprannaturali, fa pensare che si possa essere trattato, in origine, di vere e proprie divinità, poi storicizzate ed evemerizzate dai cronisti medievali, che erano di fede cristiana.

Lo dimostra innanzitutto l'etimologia di molti nomi danann, comparabili con quelli delle divinità celto-romane attestate sul continente: ad esempio, il campione Ogma compare in Gallia come Ogmios, Mídir come Medros e Goibniu come Gobannicnos. Núada è presente in Britannia nel nome del dio Nodons, e Mórrígan è con ogni probabilità la Morgana dei racconti arturiani. Brígit corrisponde sia alla Brigindona gallica che alla Brigantia britannica. Le dee della guerra, Badb Chatha e Némain, sono presenti nel continente come Cathobodua e - probabilmente - Nemetona. Su un altro piano, sembra evidente - pur senza affinità etimologiche - che Lúg sia il Mercurio gallico descritto da Cesare e il Dagda Mór il Dio col Mazzuolo presente nelle testimonianze iconografiche gallo-romane.

La mitologia comparata, seguita soprattutto agli studi di Georges Dumézil ha mostrato molte affinità tra le narrazioni pseudostoriche dei testi irlandesi e vari personaggi ed episodi delle mitologie indoeuropee. Ad esempio, Núada che è privo di un braccio e Lúg che combatte chiudendo un occhio ricordano la coppia funzionale monco/orbo diffusa in molti contesti dell'area indoeuropea, come ad esempio la coppia formata da Muzio Scevola e Orazio Coclite nella mitologia romana, o quella costituita da Óðinn e Týr nel mito norreno. Il mito di Bress, che assume la regalità senza esserne degno, ricorda Freyr che siede illegittimamente sul trono di Óðinn. Le due battaglie di Mag Tuired sono leggibili in funzione di una titanomachia o, con maggior attinenza, con il conflitto tra Æsir e Vanir. Secondo il principio della tripartizione funzionale di Dumézil, la conclusione della guerra tra le due stirpi divine nel mito norreno riunisce la prima funzione (magico-sacerdotale) e la seconda (guerriera), rappresentate dagli Æsir, con la terza funzione (economica-fecondante), rappresentata dai Vanir. Analogamente, la seconda battaglia di Mag Tuired si chiude con un patto di pace in cui Bress (divinità della terza funzione) insegna ai Túatha Dé Danann (divinità funzionalmente caratterizzate nella magia e nelle arti guerriere) come arare, seminare e mietere.

I Túatha Dé Danann furono dunque, con ogni probabilità, le antiche divinità celtiche dei Gaeli. La cristianizzazione, in Irlanda, non cancellò gli antichi miti, ma li inserì in un contesto pseudostorico, adattandoli in qualche modo al sistema universale biblico-classico. Senza alcun dubbio il processo di evemerizzazione deformò irrimedialmente le narrazioni tradizionali ma, paradossalmente, permise loro di sopravvivere e di essere tramandati fino a noi.

SBF

sabato 23 ottobre 2010




DIETRO AL MISTO DEI VAMPIRI



Esistono i vampiri?
Sebbene anche io sia molto attratto da questa figura, è con un po’ dispiacere che rispondo alla fatidica domanda: assolutamente no.
Ma andiamo a vedere cercando di capire il perché e cosa, in tempi antichi poteva essere scambiato per un vampiro.
Si parte!

Il vampiro, inutile negarlo, durante l’ormai sua ultracentenaria esistenza letterale, ha ispirato tutti i campi dell’arte. Ha colpito ed ammagliato molti di noi con il suo fascino romantico e solitario ma al tempo stesso temibile e sanguinario.
Questo perché volenti o nolenti, il vampiro è comunque parte della nostra cultura, ha creato ammiratori fanatici, fan-club, ha permesso la creazione di un’apposita e specifica ala di letteratura e di cinema, è in definitiva uno dei più amati personaggi della cultura fantastica occidentale e non.
Ma come per tutti i miti , confondere fantasia con realtà diventa spesso una tappa obbligatoria, questo perché si cerca di creare la leggenda,la possibilità di mettere la sua esistenza in uno status di discutibilità.
Il vampiro, che ha oltretutto creato un vero e proprio life style per alcuni seguaci devoti (ad esempio persone che modificano i propri canini, etc..), non è solamente una leggenda, ma qualcosa in cui credere ciecamente.
Ovviamente come quando il baccano si fa assordante, ci sono state persone, e ci sono tuttora, che sostengono di avere prove inoppugnabili e concrete dell’esistenza dei vampiri nella storia e persino del mondo moderno.
Anche se queste prove non sono mai state rese pubbliche, così come per molti altri campi del paranormale, mi sento comunque di dire che vi è un fondo di verità nell’esistenza del vampiro.

Capiamoci meglio;i vampiri, intesi come non-morti ritornati dalla tomba, invincibili, se non per mezzo di croci ed aglio e paletti piantati nel cuore,che dormono in bare foderate di lusso e seducono giovani pulzelle con un finto accento creolo-europeo, sono e restano un’invenzione, su questo nessun dubbio,ma cosa ha ispirato Bram Stoker nello scrivere Dracula? Da dove è arrivato lo spunto?

La principale ispirazione dello scrittore irlandese (tra l’altro in giovane età ricercatore medico) , è una rarissima malattia del sangue trasmessa generalmente per cause ereditarie; la Porfiria.
Vedrete infatti delle sbalorditive connessione tra le caratteristiche di questa malattia e le particolarità del vampiro.

Giusto per onor di cronaca, è corretto dire che tale malattia è oggi quasi scomparsa e totalmente curabile. L’ultimo censimento a riguardo contava 100.000 persone affette in tutto il mondo.
E’ una sindrome clinica (o meglio gruppo di sindromi cliniche) determinata da un alterato metabolismo delle porfirine. È dovuta a mutazioni nei geni che regolano la biosintesi dell’eme, gruppo prostetico dell’ emoglobina;
La Porfiria è suddivisa in diversi gruppi, associati a disturbi di diversa intensità e caratteristiche sintomatologiche, non che varianti di evoluzione del virus stesso nell’organismo ospite.

Ma vediamo in linea semplificata in cosa consiste generalmente questa malattia.
Nella forma di Porfiria eritropoietica congenita o Morbo di Gunther (CEP),i principali sintomi sono una fortissima anemia (da qui il classico pallore dei vampiri) e fotosensibilità alla luce del Sole. Questa è forse la peculiarità più conosciuta delle debolezze del vampiro. Infatti, proprio per come accadrebbe ad un nosferatu, il malato di Porfiria deve evitare di esporre la pelle direttamente al Sole, altrimenti la zona interessata dall’esposizione diretta ai raggi UV si ustionerebbe favorendo seguitamente lo sviluppo di bolle e cisti.
Altra insolita e bizzarra caratteristica di questa malattia è l’eritrodonzia, disturbo che colora letteralmente i denti di un colore fosforescente, facendo così suggerire un’ allungamento spropositato dei medesimi, addirittura visibili in ambienti poco illuminati.
Tale fluorescenza è dovuta alle porfirine che si depositano nel fosfato di calcio dei denti.
E non è finita.
Il malato di Porfiria non può assolutamente mangiare,e nei casi più estremi nemmeno toccare il comune aglio. Questo perché l’aglio,contrariamente a quanto succede nelle persone sane,nei malati di Porfiria esalta le tossine presenti nel sangue e fa peggiorare notevolmente la malattia.

In altri casi meno frequenti, la Porfiria può causare anche retrattilità della gengive ,che associata all’eritrodonzia farebbe sembrare i denti un qualcosa di inumano, rachitismo degli arti, in particolare delle mani (aggravato tra l’altro dalla mancanza di contatto alla luce del Sole)facendo così prendere alla mano umana una forma bestiale.
La mancata assimilazione di raggi UV inoltre, potrebbe negli anni deformare leggermente un viso umano, che già soggiogato da un pallore estremo e dai sintomi sopra riportati,prenderebbe le sembianze di un vero e proprio grugno demoniaco.

Un’altra forma di Porfiria ad esempio la Porfiria Cutanea Tarda (PCT), seppur manifestando la stessa comune fotosensibilità con conseguente lesione cutanee al contatto diretto con il Sole, incrementa la crescita di peluria all’altezza del viso, in particolare degli zigomi. E’ ragionevole quindi presumere che sia da questa particolarità che il vampiro abbia in molte delle sue varianti una folta peluria selvatica simile a quella di un lupo, di un pipistrello o di una fiera.

Il sistema nervoso, dopo quello circolatorio, è il secondo bersaglio di questa malattia.
Un malato di Porfiria infatti, può occasionalmente avere forti disturbi neurologici seguiti da una forte paralisi che lasciava il soggetto in uno stato di catalessi anche per giorni….in alcuni casi simile alla morte.
Non sono rari nel passato i casi in cui un malato di Porfiria si svegliasse durante l’estremo saluto mentre era comodamente messo dentro ad una bara.
Ecco quindi un’altra spiegazione delle caratteristiche abitudinarie del vampiro; la catalessi in una bara seguita da un risveglio.

I famigliari dei malati di Porfiria, credendo di fare il bene del proprio caro, lo invitavano insistentemente a bere sangue bovino o suino per ovviare il pallore e la malattia in generale.
Questo però, contrariamente a ciò che si sperava di ottenere, non solo metteva in pericolo il malato esponendolo ad altre malattie, ma scatenò l’azione della Chiesa che inquisì tutti i malati di Porfiria perché associati alle forze nefaste della Bibbia.
Questo appunto perché nella mentalità medievale, vedere una persona mortalmente pallida evitare il Sole (e quindi Dio), muoversi di notte con denti lucenti ed un viso massacrato dalla malattia, magari cercando di andare a racimolare dal sangue da bere, era la perfetta incarnazione del Demonio..
La severità dell’Inquisizione Cattolica portò Bram Stoker infatti a connettere l’odio del vampiro verso la Croce e Dio.

L’associazione tra vampiri e animali selvatici inoltre, potrebbe dare spiegazione anche ad un’altra delle caratteristiche del vampiro, ovvero la sua estrema forza fisica e il modus operandi nel creare i propri simili.
In passato l’uomo veniva molto più spesso a contatto con animali come lupi, volpi, orsi e pipistrelli di quanto non avvenga oggi.
Poteva facilmente succedere che questi animali, mediante un morso o il semplice contatto con la saliva, trasmettessero la volgarmente chiamata Rabbia, che ricordiamoci può essere contratta anche dall’uomo..
L’associazione tra la Rabbia ed il vampiro è perfetta quasi quanto la Porfiria.
Il vampiro, di fatto molto affine alla figura del lupo e del pipistrello, crea appunto altri vampiri mordendo le sue vittime e succhiandone il sangue (poppisma).

Vi è un’altra cosa da precisare sulla rabbia e la sua connessione al vampiro.
La Rabbia , negli animali, si manifesta sotto due varianti diverse; la Rabbia Furiosa e la Rabbia Muta.
Sebbene entrambe portino alla morte del soggetto entro una settimana dalla manifestazione dei primi sintomi, la Rabbia Furiosa si manifesta nel 70% circa dei soggetti.
Se la Rabbia Muta è manifestata con paralisi mascellare in primis, e muscolare nel giro di 1-2 giorni, la Rabbia Furiosa si manifesta con sintomi letteralmente opposti, soprattutto negli animali.
Il soggetto che ha sviluppato questa variante del virus è iperattivo, quindi non dorme favorendo così un’innaturale “vagabondaggio” ,è inoltre estremamente aggressivo e non solo attacca qualsiasi essere vivente venga a contatto, ma scaglia la propria pazzia anche contro oggetti inanimati.
Da dire inoltre che tale soggetto è propenso ad una forte sovreccitabilità, ed infatti da qui vi è la prorompente forza sessuale del vampiro letterario.
In alcuni soggetti è stata anche diagnosticata paura ed intolleranza alla luce del Sole e anche l’eisoptrofobia, che è il forte disagio nel vedere la propria immagine riflessa.
Quindi mi sembra ovvissima la connessione tra il mondo fantascientifico e quello medico.
Infine, per concludere la mia ricerca dico solamente che nessuna forza paranormale colpiva queste persone, nessun demonio e certamente nessuna spiegazione satanica v’era alla base di tutto.
Queste persone erano costrette a vivere in uno stato di isolamento, braccate dalla Chiesa e dall’ignoranza dell’epoca.
Il primo romanzo che ha dato origine a tutto; Dracula, altro mi sento di dire che non era che la manipolazione di questa malattia, e come spesso accade per il paranormale, un’ovvia manipolazione ed una diversa interpretazione della realtà.

Tengo infine a precisare che vi sarebbe altro materiale a riguardo, molto più approfondito e professionale,ma che non ho potuto riportare per via dell’uso di un linguaggio prettamente medico e quindi di non facile comprensione, ed anche per una questione di spazio ed immediatezza.
Sono felice di lasciarvi comunque i link sottostanti per approfondire la ricerca in modo più completo possibile.
Grazie per la lettura.

Ricerca ed articolo di Andrea Pellegrini

L’INTRAMONTABILE FASCINO DI MOSTRI E VAMPIRI
Da Frankenstein a Batman
Festival della creatività, Istituto degli Innocenti 22 ottobre 2010-10-06


Ero una bambina solitaria e amavo leggere. In particolare amavo Sindbad il marinaio e Aladdin le cui avventure avevo trovato adattate per i bambini in un libro che mi avevano regalato. Il Genio trasformista che si ribellava al suo destino di prigioniero della lampada per esaudire i desideri degli altri,le avventure marine di Sindbad, a me che ero nata e crescevo sul mare piacevano ed emozionavano, e poi il tappeto volante, l’uccello che ti portava in groppa in volo sulla città erano per davvero consolatori ed esaltanti.
Mi piacevano le avventure, i corsari di Salgari, mi identificavo con Sussi e Biribissi e mi appropriavo della loro sconclusionata sete d’avventura e la loro ironia verso il mondo dei grandi. La stessa ironia che mi faceva diventare Gianburrasca, con il gusto allo sberleffo di quel mondo piccolo borghese -si direbbe oggi- da cui mi sentivo oppressa e limitata, quel mondo pieno di tic e impedimenti, assurdo e impacciato dai limiti auto-imposti che ho ritrovato, adulta, nel divertente libro di Marchesa Colombi, Un matrimonio di provincia.
Mi piacevano molto anche le novelle che mi raccontava nonna Elsa, che veniva dalla provincia pistoiese: nei suoi racconti spadroneggiavano i gatti neri e le streghe, i vampiri succhia- sangue, che di notte mentre uno dormiva arrivavano leggeri a tirargli i piedi per spaventarlo, i fantasmi e tutti gli altri numerosi abitanti il mondo della notte. Mi affascinavano quelle storie e ancora oggi hanno lasciato in me un retaggio di fascinazione e curiosità antropologica. Non mi spaventavano affatto, mi catturavano e stimolavano verso sogni proibiti, verso il mondo struggente e affascinante della natura decadente e dei cimiteri. Lo sfioravo con la fantasia e mi rassicuravo che il male ed il dolore erano solo finzioni, che la morte non mi riguardava, apparteneva a tombe vecchissime, reperti archeologici, apparteneva ad un racconto bello e spaventoso e finiva con quella storia.
Le novelle tradizionali non mi piacevano. Il lupo cattivo era lontanissimo da me, Cenerentola, Biancaneve mi annoiavano. Invece Pollicino, Hansel e Gretel mi spaventavano a morte. Avevo terrore d’essere abbandonata come loro. Ma perché, mi domandavo un babbo lascia nel bosco da solo, in mezzo a tremendi pericoli il suo bimbo? E perché me lo raccontano proprio a me? Sarà per caso un ammonimento? E quella strega che vuol far ingrassare Hansel per mangiarselo, non farebbe meglio a rubare un pollo, che so io…Era tutta una storia troppo violenta e assurda e davvero cattiva. Meglio le storie dei mostri e dei vampiri di nonna Elsa,che mi raccontava le storie che i nonni avevano raccontato a lei, loro erano figurazioni di un mondo inventato, in poche parole erano l’incarnazione di un prodigio, che suscitava spiazzamento e paura sulle prime ma indicava anche qualcosa di estraneo, unico, raro. Affascinante. Nasceva dalla pura invenzione. Ecco perché mi piaceva insieme ai draghi dal fiato fiammeggiante che l’eroe Beowulf sconfiggeva e mi faceva venire a mente l’illustrazione di un San Giorgio raffigurato in un santino, e la spada nella roccia che avevo visto a San Galgano: gli eroi buoni c’erano, la spada l’avevo vista e loro ti salvavano sul serio. Verso i dieci anni mi appassionai alle avventure di Batman, il supereroe misterioso, idealista, coraggioso, dotato di superpoteri, di poche parole e molti fatti, in lotta col male dei mafiosi, terroristi e soprattutto con il male metafisico, irragionevole incarnato da Joker, il malvagio dal sorriso indelebile del clown stampato sul volto. Mi rendevo conto che il volto di un clown non rassicurava più né divertiva, anzi era triste, malinconico, forse pericoloso e il volto del malvagio era quello di un uomo qualunque. Al circo non ci volevo andare. Poi da adulta ho riflettuto sul fatto che la figura tradizionale del malvagio viene sovvertita nel mondo contemporaneo il mostro può essere un dolce e indifeso alieno come ET, un orco un divertente e generoso irsuto abitante dei boschi come Shrek, un vampiro un magro e pallido dolce e indifeso personaggio come Edward manidiforbice e persino il fantasma che abita le notti e gli incubi appare ora di giorno, diventa allegro e spiritoso come il fantasma di Canterville di Wilde o assume una missione di riscatto sociale come nel racconto di Natale di Dickens. .
Oggi i cattivi sono altri ed hanno aspetti familiari: sono il vicino di casa, l’uomo che regala le caramelle, lo sconosciuto gentile che pretende di portarti a casa in macchina. Sono loro gli orchi . I loschi seduttori. Gli imbonitori. Anche se nelle vesti rassicuranti di un clown, come in IT di Stephen King. In tantissime fiabe, di ogni epoca si ha la certezza che il vero pericolo è la seduzione. Sì, la seduzione. Lo percepivo anche da piccola che il pericolo reale stava nella seduzione. Anche nelle fiabe tradizionali si mettevano in guardia i bambini. Attenti: le Sirene, il Pifferaio, il Lupo, il Gatto Mammone, l’Uomo nero, usano raffinate arti seduttive come il canto, la musica, la parola mielosa per compiere i loro delitti. La seduzione è quell’arte maligna che il babau, il mangia- bambini, l’uomo nero conoscono bene per irretire le vittime.
Una fiaba terribile sul tema della seduzione e dell’incesto è Pelle D’Asino. Qui il gioco è scoperto, il padre è preso da un incontrollabile desiderio per la piccola figlia, tanto da dichiarare di volerla sposare e questa deve imbruttirsi, nascondersi per sfuggire alle oscene voglie del genitore. Non capivo bene perché ma se quella novella era oscena perché la raccontavano ai bambini?
L’Orco, brutto, irsuto, non mi spaventava. Apparteneva ad un mondo che non conoscevo. Mi piaceva il fatto che parlasse una sua lingua per non farsi capire. C’era magia nella lingua del mostro orco. Tolkien, che era un filologo, aveva creato una neo-lingua orchica, ispirato dai suoi studi linguistici del currito, lingua non indoeuropea. Perché anche la lingua è fascino, magia e mistero, e per tradurre, dispiegare l’oscuro e minaccioso senso di terrore che ci prende durante un racconto l’uso di una lingua poetica insolita e sconosciuta accresce la tensione, crea un climax drammatico e sospeso.
Per inciso anche la formula Abracadabra forse di derivazione araba o aramaica che veniva trascritta a forma di triangolo, un triangolo magico è affascinante nel suo mistero linguistico, e proprio perché insolita e ambigua traduce il mistero e la magia del mistero.
Che piaccia o meno il vampiro e la sua controparte femminile sono nostri compagni di strada, nostre ombre, fanno parte di quella società di non morti, ingordi di vitalità a cui noi stessi apparteniamo. Il vampiro, così spesso evocato nella comunicazione di massa è personaggio ambiguo e misterioso, equivoco, che ha origine dai tetri non luoghi del nostro sistema morale. Nella sua contraddittorietà ha talvolta la dignità e il fascino di un mito insieme antichissimo e moderno. Non porta con sé solo il retaggio di angoscia del morto che torna attraverso le nebbie del tempo, ma ha la vitalità del mito che si rinnova attraverso l’elaborazione simbolica dei contenuti esistenziali e i riferimenti religiosi, antropologici, sociali. Se il Vampiro della tradizione è legato ai ritmi dell’agricoltura il vampiro moderno, il vampiro letterario nasce con la rivoluzione industriale. E’ infelice, insoddisfatto, si muove in un mondo invitante, forse affascinante nel quale, lui eroe o antieroe non riesce a trovare pace, sosta, lenimento al dolore, all’insoddisfazione di vivere. L’idea della mortalità è estranea all’inconscio, si sa,ecco perché gli uomini hanno inventato religioni, dei, aggrappandosi ad una religione che affermasse la prosecuzione della vita oltre il suo termine. La malinconia è il sentimento prevalente e condiviso da tutti coloro che si sentono prossimi alla rovina, annientati, svuotati , dispersi ed è sentimento legato alla visione delle rovine di un mondo disgregato, di una storia sfilacciata nella quale non si riesce a cogliere la trama, il messaggio. E.A.Poe ha saputo tradurre mirabilmente il senso di questo smarrimento nel racconto Il crollo di casa Usher. E’ lui che mi ha regalato il piacere della scrittura in quei ahimé anni remoti.
Il Settecento segna il trionfo della ragione, della moderna ricerca scientifica finalmente affrancata dai veti religiosi; è il secolo delle scoperte di nuove galassie e di mondi nuovi, ma è anche il periodo storico che vede nascere una letteratura vampirica che non svolge soltanto trame terribili e sanguigne ma storie con rimandi a fatti e situazioni reali, a riflessioni sull’esistenza e la convivenza. Al razionalismo Illuminista corrisponde l’oscura, atrofizzante paura di una parte di Europa, Ungheria, Boemia, Moldavia, dove proliferano i racconti dei non morti che compiono efferati e immotivati crimini, fenomeno questo che testimonia che il momento storico che propone l’uomo e la ragione al centro dell’universo, spesso nasconde al suo interno un rigurgito d’irrazionale, di esoterismo, di paranormale. Sono tuttavia gli anni segnati da un grande slancio scientifico e tecnologico. È grazie alle nuove sofisticate tecnologie che si fabbricano automi, bambole meccaniche, prototipi dei futuri robot. Sono stupefacenti marionette animate che preannunciano la creazione di nuove forme vitali, per la soddisfazione di scienziati che con l’elettricità sperano di creare vita, gettando le basi della cibernetica e della biologia contemporanea. Nel Ottocento il Vampiro non è dunque solo un succhia- sangue ma un essere disperato e malinconico che vorrebbe sfuggire al destino che lo segna, e la Cosa, il mostro creato da Mary Shelley vorrebbe una compagna per trovare pace negli affetti famigliari. Tra Mary ed il mostro sembra stabilirsi una relazione empatica, mediata da tenerezza e compassione, forse per lei lo scriverne è l’occasione di tentare una rappresentazione altra di sé. Questi sentimenti ridimensionano l’elemento conturbante, spaesante, straniante di quella sfumatura dello spaventoso e di quella inquietudine che contrassegna tanta letteratura fantastica, di primo ottocento,i racconti di Hoffman ad esempio che lei ben conosceva
Nel mondo dei supereroi è il personaggio di Batman, nato alla fine degli anni trenta in contemporanea con Superman. Il suo ideatore Bob Kane miscelò nel personaggio icone e fonti diverse: L’uomo volante di Leonardo da Vinci, Zorro, l’eroe solitario che combatte le ingiustizie, l’uomo ombra, personaggio ammantato della stessa aura leggendaria che sarà la caratteristica di Batman, il cavaliere oscure e il Bat, il pipistrello che ne ispira il travestimento. Batman combatte i criminali, Joker, il Pinguino o l’assurdo Uomo Lampadina, o minacce fantascientifiche. Batman viaggia nel tempo e nello spazio.
E’ un Beowulf attuale che lotta col mostro Grendel, un novello San Giorgio che vince il drago, l’incarnazione dell’eroe mitico delle saghe e delle fiabe.
Nella saga di Batman che si svolge nell’arco di settant’anni, compaiono richiami ad alcuni personaggi di Alice nel paese delle meraviglie: lo Stregatto, il Cappellaio Matto, o i tre fantasmi del racconto di Natale, con caratteri esasperati e sovvertiti. E’ un segno che introduce Barman nella tradizione del racconto fantastico.
E’ negli anni trenta che inizia il processo di sovvertimento dei ruoli a cui accennavo precedentemente: se il mostro, la creatura ibrida e abnorme era adatta nel passato a trasmettere la raffigurazione del male, associata al brutto e all’abnorme, è proprio negli anni trenta che l’abnorme, l’anomalo il freak assume il ruolo positivo. Il film Freaks che vedremo è del 1932, King Kong è del 1933. (Tratti del suo carattere si ritrovano nella figura del Selvaggio in A brave new world di A.Huxley.)
King Kong e il Selvaggio trovano una fine ingloriosa, l’uno in cima all’Empire State Building assediato dagli aerei che gli contro sparano senza sosta, l’altro in cima ad un faro dove si è rifugiato terrorizzato.
Da prendere nota è il fatto che Batman nasce nel 1939. Flash Gordon è del 1934.
I mostri sono buoni e sempre animati da spirito solidale, generosi, aperti, d’ora in poi..
E’ la società dei normali ad essere violenta, cattiva, irragionevole, assurdamente feroce. E’ in quella società, stretta ai suoi dettati morali, al suo perbenismo zeppo di luoghi comuni, ottusa e vuota che nascono i veri mostri E’ quella la società dei normali che si prepara ai massacri della seconda guerra mondiale.

KIKI FRANCESCHI-

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venerdì 22 ottobre 2010


Mistero nella Vita di Anne Perry



Se oggi Anne Perry è ancora in vita, e se è stata in grado di ricostruirsi un’esistenza, lo deve anche e soprattutto alla benevolenza dei giudici dell’epoca che, nel 1959, dopo soli cinque anni di detenzione, le consentirono di uscire dal carcere di massima sicurezza di Mt.Eden, dove venne rinchiusa dopo essere stata riconosciuta, sotto il suo vero nome, Julet Hulme, colpevole di omicidio di primo grado nei confronti di Honora Parker, in complicità con la figlia della vittima, Pauline.
Ma chi è dunque alla fine questa sorprendente scrittrice capace di passare con tanta disinvolta sicurezza da dure atmosfere belliche a soffici frivolezze salottiere?
Nata a Londra nel 1938, deve la sua fortuna alla brillantezza dei suoi personaggi vittoriani, alla fedeltà con cui ha saputo riproporre un mondo competitivo e spietato falsamente celato sotto uno strato apparente di perbenismo, delle sue opere sono state vendute oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo.
Premiata dunque per le capacità introspettive e per la rigorosa fedeltà delle ricostruzioni storiche, Anne Perry è una profonda conoscitrice delle tematiche etiche e sociali, a cui nel 2000 è stato perfino tributato anche un Edgar Award per il racconto breve Heroes.
Ma Anne Perry ha nella sua vita un trascorso drammatico, la cui vicenda è stata accuratamente ricostruita nel film Heavenly Creatures, Creature del Cielo, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1994, Vincitore del Leone d’Argento e Candidato alla Nomination degli Oscar per la miglior sceneggiatura originale.



La pellicola, a regia di Peter Jackson, magistralmente interpretata da Melanie Lynskey e Kate Winsley, narra di un torbido rapporto tra due adolescenti, nella Nuova Zelanda del 1954, che conduce alla fine all’omicidio della madre di una di loro, uccisa a colpi di pietra su un sentiero di campagna, al ritorno da una festosa escursione di shopping in città.



La storia di Julet Hulme e Pauline Parker è stata anche riportata nel libro Assassine di Cinzia Tani, edito da Mondadori, e coinvolge molto da vicino la scrittrice Anne Perry, che oggi è viva solo perché all’epoca, secondo la legislazione vigente, i minorenni, anche se riconosciuti colpevoli, non potevano essere soggetti alla pena di morte, ma venivano sottoposti a pena detentiva secondo quanto indicato direttamente dal Tribunale di Sua Maestà.



Se oggi Anne Perry è ancora in vita, e se è stata in grado di ricostruirsi un’esistenza, lo deve anche e soprattutto alla benevolenza dei giudici dell’epoca che, nel 1959, dopo soli cinque anni di detenzione, le consentirono di uscire dal carcere di massima sicurezza di Mt.Eden, dove venne rinchiusa dopo essere stata riconosciuta, sotto il suo vero nome, Julet Hulme, colpevole di omicidio di primo grado nei confronti di Honora Parker, in complicità con la figlia della vittima, Pauline.



Quando nel 1994, a cinquanta anni precisi dal delitto, Anne Perry, sotto la sua nuova identità, è stata rintracciata ed intervistata in proposito, in concomitanza con l’uscita del film dedicato alla sua vicenda, si è stupita molto di suscitare tanta attenzione, affermando di aver solo aiutato l’amica, Pauline Parker, a liberarsi della madre e di averlo fatto perché la riteneva instabile e la vedeva così sofferente da temere che alfine, un giorno, potesse giungere a suicidarsi.



Anne Perry, alias Julet Hulme, riteneva di avere un “debito d’onore” con quella che fu la sua compagna durante gli anni adolescenziali e pagò questo impegno morale con una condanna per omicidio di primo grado.



Ma vediamo come si svolsero all’epoca i fatti secondo la ricostruzione effettuata dalla Professoressa Cinzia Tani, docente di Storia e Sociologia del Delitto presso l’Università La Sapienza di Roma.



Siamo nel 1954 in Nuova Zelanda, Julet Hulme e Pauline Parker sono praticamente coetaneee, e presto diventano inseperabili amiche a scuola, pur provenendo da famiglie drasticamente diverse.



Pauline Paker è nativa del luogo, figlia generata nel 1937 nella città di Christchurch da Honora Parker e Herbert Risper, i suoi non sono sposati, ma lei ancora non lo sa. E’ la seconda di quattro fratelli, tutti con gravi problemi di salute, uno dei suoi fratellini muore, un altro è colpito dalla Sindrome di Down, il terzo è costretto a vivere in un sanatorio. Lei stessa a cinque anni di età contrae una grave forma di osteomielite e viene operata per ben cinque volte, con esito incerto, rimanendo alla fine claudicante. Rimarrà per tutta la vita impossibilitata a praticare sport e tagliata fuori di fatto dalle maggiori occasioni di socializzazione e mondanità.



Julet Hulme invece proviene da Londra, dove è nata nel 1938, è figlia di Hilda Marion ed Henry Hulme, uno dei più insigni scienzati di tutta l’Inghilterra, fine matematico e in seguito rettore del Canterbury University College, proprio lì a Chirchchurch. Anche Julet però, come l’amica, ha problemi di salute, ad otto anni viene colpita dalla polmonite ed i medici le consigliano un cambiamento d’aria, per amor suo una delle menti più eccelse del suo tempo accetterà di abbandonare Londra per ricoprire l’incarico di rettore presso un anonimo collegio universitario in un’oscura cittadina della Nuova Zelanda.



Ma il sacrificio della famiglia Hulme, che dopo due anni segue la giovane Juliet in Nuova Zelanda, sembra ben ripagato, entrambe isolate da tutto e da tutti a causa della loro malattia, le due ragazze sembrano legare, sono compagne inseparabili, eccelgono negli studi, sono ambiziose e determinate, sognano di diventare scrittrici e di andare a vivere negli Stati Uniti.



Entrambe le famiglie sono soddisfatte di questa profonda amicizia che di fatto estrae le ragazze dal loro forzato isolamento e le accomuna in un progetto preciso, le due fanciulle sono spesso ospiti una dell’altra, le famiglie si conoscono reciprocamente e socializzano, nonostante le profonde differenze sociali. Il padre di Pauline è solo un pescivendolo e il padre di Julet un insigne matematico, ma gli interessi delle figlie per loro vengono prima di ogni altra cosa, e finchè le ragazze ne traggono beneficio, quell’unione va bene per tutti.



Ma presto il mondo rigorosamente selezionato di Julet e Pauline si fa troppo rarefatto, la loro amicizia diventa ossessiva, in famiglia inziano a sospettare un rapporto innaturale, perfino i loro voti a scuola peggiorano, i genitori si consultano.



Proprio in questo momento così delicato Julet scopre sua madre a letto con l’amante, il padre, informato, risolve di lasciare la Nuova Zelanda per far ritorno ai suoi studi in Inghilterra, manderà la giovane figlia presso dei parenti in Sud Africa, dove il clima le sarà di giovamento e dove ella sarà fuori dalla cattiva influenza di Pauline.



La madre di Pauline, Honora Parker, informata, è d’accordo. Le due ragazze stanno trasformando la loro amicizia in un rapporto eccessivamente morboso, che nuoce ad entrambe, vanno separate, per il loro stesso bene.



Sarà però una decisione tardiva, che alla resa dei conti non otterrà altro risultato che quello di far precipitare, rapidamente, la catena degli eventi fino all’epilogo finale.



Pauline Parker alla sola idea di perdere la sua amica, la sua complice e la sua confidente precipita nel panico più assoluto, in preda al delirio progetta, assieme a Julet, l’assassinio di Honora Parker, che ancora ostinatamente si rifiuta di concederle il permesso per accompagnare in Sud Africa l’amica, fosse pure per una breve vacanza.



Gli appunti sul diario sono inequivocabili e si riveleranno più che determinanti per l’incriminazione e la condanna delle due ragazze per omicidio di primo grado, e quindi premeditato, senza la concessione di alcun tipo di attenuanti, eccettuata quella, fisiologica, della giovanissima età.



Pauline scrive: “ Abbiamo discusso di nuovo i particolari dell’omicidio. Mi sento euforica come se stessimo organizzando un Party a sorpresa. Mamma c’è cascata in pieno e il felice evento avrà luogo domani pomeriggio. Così la prossima volta che scriverò questo diario mamma sarà morta. Che strano, e che bello.”



Il 22 Giugno del 1954 l’inconsapevole Honora Parker accompagna le due ragazze in paese per fare shopping, sulla strada del ritorno devono attraversare un parco, Julet che cammina davanti lascia cadere un sasso rosa, che ha portato appositamente con sé, richiama l’attenzione della madre sul sassolino, questa si china, e la figlia la colpisce con un pezzo di mattone avvolto in una calza, l’arma del delitto, già opportunamente predisposta. Poi porge il mattone all’amica perché infligga anche lei un colpo, rendendola indissolubilmente complice di omicidio.



Quando le due ragazze, candidamente, in conformità al loro ingenuo piano, tornano di corsa in paese simulando una disgrazia, vorrebbero far credere che Honora inciampando in una radice si sia fratturata il cranio, non vengono credute e subito aleggia fortissimo un clima di sospetto.



Il ritrovamento del diario con le incaute e chiarissime frasi annotate da Pauline proprio il giorno prima del delitto non contribuisce certo a migliorare la loro posizione già gravissima. Le ragazze, sottoposte a uno stringente interrogatorio confessano, entrambe.



Giudicate colpevoli di omicidio di primo grado nel corso di un legittimo processo vengono però salvate dalla pena di morte dalle leggi attuali che sanciscono che un minore, anche se colpevole, non possa essere giustiziato, e vengono condannate a una pena detentiva.



Pauline è rinchiusa nel carcere minorile di Arohata, Julet in quello durissimo di Mt.Eden, insieme ai condannati a morte, vengono rilasciate dal tribunale nel 1959, a soli cinque anni dal crimine, con il divieto assoluto di incontrarsi ancora.



Pauline scompare dalle scene e di lei non si saprà più nulla per lunghissimo tempo, Juliet si ricongiunge a sua madre in Inghilterra, assumendo il nuovo cognome di Perry, dal nuovo marito di quest’ultima, Walter Perry. Per un certo periodo lavora come segretaria, poi emigra a San Francisco, si converte alla religione mormone, e a questo punto di lei si perdono le tracce.



Ricompare in Inghilterra sotto il nome di Anne Perry come celebre scrittrice di gialli ambientati in epoca vittoriana, e oggi vive in Scozia con tre cani e due gatti.



Sulla vicenda viene di nuovo attirata l’attenzione della stampa quando, nel 1994, a 50 anni di distanza dall’omicidio di Honora Parker, Peter Jackson, il regista neozelandese, gira il film Creature del Cielo.



Si identifica Julet Hulme in Anne Perry e solo tre anni dopo, nel 1997, si rintraccia Pauline Parker sotto il nome di Hilary Nathan, e si scopre che ha vissuto per trent’anni in un villaggio inglese insegnando equitazione ai bambini. Nessuno degli abitanti riuscirà a credere di aver convissuto per anni con un’assassina e di averle affidato i propri figli.



Intervistata in proposito Anne Perry non ha mai negato la sua reale identità e anzi si è dichiarata sorpresa che un fatto avvenuto tanti anni prima potesse ancora riscuotere un simile interesse, affermando di aver soltanto voluto aiutare Pauline per timore che questa si suicidasse, “Avevo con lei un debito d’onore”, ha detto ai giornalisti.



Oggi Anne Perry, pagato il suo debito con la giustizia, è una splendida ed elegante signora inglese di sessantasette anni, giallista di fama indiscussa, e protagonista di un giro promozionale con la Casa Editrice Fanucci che vi consigliamo assolutamente di non perdere, secondo le tappe del seguente calendario.

I SENTIERI DELLE FATE

Nessuno osa in Irlanda costruire o invadere la dimora delle fate, è considerato cattivo augurio e si teme possa comportare qualche sciagura!!!

Gli irlandesi li chiamano "i sentieri delle fate" sono le cosidette linee di forza che corrono tra le colline, secondo la tradizione, queste linee appartenevano alle fate. Nel 1935, l'irlandese Michael O'Hagan, ostruì, ingrandendosi casa, un sentiero delle fate, da quel momento misteriose disavventure invasero la sua vita e quella della sua famiglia, compreso vari malanni. L'uomo allora decise di tagliare un'angolo della sua abitazione che ostruiva il sentiero delle fate, da quel momento, tutte le misterioe disavventure cessarono.
Si dice che le fate ci segnalano la loro presenza con dei loro simboli, uno in particolare è la pianta di biancospino in particolare quando si tratta di un albero solitario che cresce in uno spazio aperto e segna il confine tra vicini, nei pressi di un pozzo sacro,o di un cerchio delle fate.
La saggezza popolare ci informa che è pura follia tagliare o danneggiare un biancospino:
Alcuni anni fa, fa nella contea di Antrim, nell'Irlanda del nord durante la costruzione di un'immensa fabbrica, un biancospino non venne nemmeno sfiorato dagli operai. I "ragazzi" del posto abbatterono tutto il resto ma non lo toccarono ne lo disturbarono in nessun modo. La compagnia alla fine lo fece togliere da un inglese. L'uomo abbatte l'albero e strappò le radici con un bulldozer: La fase successiva era quella di interrare dei pilastri di cemento larghi 30 centimetri e alti 3 metri: per mettere le fondamenta. Li piantarono ma quando tornarono la mattina dopo erano tutti spostati di un metro! Così li dovettero sistemare di nuovo. Il mattino dopo i pilastri erano spostati sempre di un metro ma nella direzione opposta rispetto alla prima volta! Così fecero una riunione per scoprire di chi fosse la colpa. Ad un tratto un'uomo basso entrò nell'ufficio dove c'era l'assemblea e disse: "L'unico modo in cui potrete costruire la vostra fabbrica è rimettendo il nostro albero dove si trovava".
E gli altri ribatterono: "Come facciamo dato che lo abbiamo tagliato?" L'uomo rispose: "Fatelo innestare". Nessuno gli credette all'inizio, naturalmente. Allora chiamarono uno specialista di alberi olandese. Questi innestò le radici sull'albero. Adesso c'è un cortile in mezzo alla fabbrica con al centro un albero di biancospino. Nessuno ha più visto l'uomo delle fate ma il biancospino cresce rigoglioso.
SBF

mercoledì 20 ottobre 2010


Francesco I de’ Medici e Bianca Capello: veleno o febbre terzana?
Ecco a voi una vecchia storia di amori e veleni nella Firenze granducale rivisitata grazie all’aiuto di Luca Filippi medico appassionato di indagini sui fatti del passato ed autore del testo in corsivo nel quale ripercorre le tappe di una famosa indagine.

Nel gennaio del 1565 Francesco de’ Medici sposa l’arciduchessa Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I e nipote di Carlo V. Un’alleanza prestigiosissima per l’erede del granduca Cosimo I e per la famiglia che si governa Firenze, ma nel frattempo non ha mai abbandonato l’attività mercantile e bancaria considerata all’epoca particolarmente inappropriata per una casa regnante. Giovanna infatti si sente decisamente “svenduta”, ma anche lo sposo non è che faccia i salti di gioia: l’arciduchessa è bruttina e petulante e lui da un anno è perdutamente innamorato di un’altra. La donna che occuperà per tutta la vita il cuore di Francesco I de’ Medici si chiama Bianca Capello, è veneziana, bellissima e già sposata con un giovanotto fiorentino. Bianca proviene da una famiglia prestigiosa e il matrimonio “riparatore” con Pietro Bonaventura non è un successo, anzi tutto il contrario. A Firenze la splendida veneziana langue fino al momento in cui il suo sguardo incrocia quello del giovane de’ Medici che perde la testa all’istante. I due diventano amanti con il tacito assenso del Bonaventura al quale il favore (e il denaro) granducale fa dimenticare le corna. Quando Francesco si sposa nulla cambia nella relazione appassionata con Bianca che fra l’altro rimane opportunamente vedova poiché il marito viene ucciso in una rissa. Ogni notte il Granduca folle di passione si reca dall’amante, senza che ciò naturalmente gli impedisca di fare il suo dovere di marito. Giovanna mette al mondo una dietro l’altra una serie di bambine (una di queste, Maria, sarà regina di Francia accanto a Enrico IV, un’altra Eleonora sposa il Vincenzo Gonzaga quello della prova di virilità) e infine un giorno, mentre è incinta per la undicesima volta, cade e il parto prematuro la uccide. Pochi mesi dopo Bianca, odiata dai fiorentini (che la accusano di stregoneria) e detestata dalla famiglia de’ Medici al gran completo, sposa Francesco I al quale, fra l’altro, aveva tentato di rifilare un figlio “fasullo” inscenando una falsa gravidanza. Gli anni di regno di regno dei due ex amanti non sono fra i migliori nella storia di Firenze, Francesco è un uomo intelligente e appassionato di scienze, ha ereditato il carattere dissoluto e tirannico del padre ma non la sua indiscussa abilità politica ed amministrativa. Il Granduca muore nella villa di Poggio a Caiano nell’autunno nel 1587 e la moglie Bianca gli sopravvive di sole dieci ore.

Non riposano in pace i granduchi di Toscana. Da quasi cinque secoli il sospetto dell’omicidio aleggia sulla morte di Francesco I de’Medici e della sua seconda moglie Bianca Cappello. Il principale indiziato, all’epoca, fu il fratello del granduca, Ferdinando, cardinale di Santa Romana Chiesa, che per succedere al trono di Firenze dismette la tunica porporata e assume il governo dello Stato. Ma andiamo con ordine. La sera dell’8 ottobre 1587, dopo una giornata di caccia proprio in compagnia del cardinale Ferdinando, i due coniugi cominciano a sentirsi male. Vomito, e febbre elevata e intermittente: in soli undici giorni di agonia entrambi i granduchi rendono l’anima al creatore, senza che l’uno venga a sapere della morte dell’altra. Il primo sospetto fu, neanche a dirlo, che fossero stati avvelenati dal cardinale Ferdinando, il quale era prestante, amante delle belle donne, e la tonaca porporata gli stava decisamente stretta. Pare che avesse perso la testa per la bellissima Clelia Farnese, figlia del suo acerrimo nemico il grancardinale Alessandro. Alla morte di Francesco I, Ferdinando salì al trono di Toscana, ebbe una sposa legittima e molte amanti, ma Clelia, a quanto pare, non cedette mai alle profferte del potente granduca. Dopo secoli di silenziose illazioni, l’ipotesi dell’avvelenamento ritorna prepotentamente alla ribalta in seguito alla pubblicazione di uno studio del tossicologo Francesco Mari. In un articolo apparso sulla prestigiosa rivista British Medical Journal (BMJ 2006, 333), Mari e collaboratori affermano di aver trovato prove a supporto della tesi dell’arsenico. Lo studio, ripreso da diversi quotidiani e oggetto di una grande inchiesta di Archeologia Viva (Francesco e Bianca: arsenico e vecchi merletti) si basava sull’analisi di alcune formazioni pilifere trovate sul teschio di Francesco e sull’esame dei visceri dei defunti granduchi. Dopo l’autopsia, infatti, le auguste frattaglie della coppia vengono riposte e conservate in alcuni vasi all’interno della chiesa di Santa Maria a Buonistallo. L’analisi tossicologica delle viscere avrebbe rivelato la presenza di arsenico, e lo studio del DNA antico avrebbe consentito di attribuire le viscere proprio al corpo d Francesco I. Lo studio di Mari e collaboratori, tuttavia, suscita alcune perplessità in ambito accademico e, su un numero successivo della medesima prestigiosa rivista, compaiono delle contestazioni da parte del professor Gino Fornaciari (Università di Pisa) e della professoressa Laura Ottini (Università di Roma “La Sapienza”). Le principali critiche mosse allo studio del tossicologo riguardano le non appropriate tecniche di scavo nella cripta e di recupero dei vasi con le viscere. La concentrazione di arsenico potrebbe essere spiegata dai metodi usati per trattare e conservare le viscere, metodi che prevedevano l’impiego di composti a base di arsenico. Inoltre, al momento dell’esumazione dei resti mortali del granduca non era stata rinvenuta alcuna formazione pilifera. Il DNA analizzato da Mari e colleghi, dunque, potrebbe essere legato a contaminazione accidentale da parte degli operatori o della flora batterica. Dunque, emergono nuovi dubbi e il lavoro interpretativo ricomincia. L’equippe del Professor Fornaciari riprende a indagare dai momenti iniziali, quella fatidica giornata di ottobre che segna l’inizio dell’agonia del granduca. Francesco de’Medici, secondo gli archiatri di corte, comincia a star male l’8 ottobre del 1587 dopo tre giorni di intensa caccia nella tenuta di Poggio a Caiano, allora territorio coltivato a risaia. La febbre, accompagnata da vomito e diarrea, sale vertiginosamente fino al giorno 9, per poi risolversi nei giorni successivi. Spossato dai salassi, estenuato dalle sudorazioni e dalla perdita di liquidi, Francesco si sente meglio, nei giorni 10 e 11. Ma di nuovo la febbre e i sintomi a essa associati ricompaiono il giorno 12 e perdurano per i successivi due giorni. Questa altalena va avanti fino al giorno 19, quando il granduca, ormai allo stremo delle forze, chiede l’estrema unzione, detta le sue ultima volontà. Poco dopo, spira. La stessa sorte, con qualche giorno di differenza, tocca alla granduchessa Bianca a cui Ferdinando, che odiava la cognata, nega la sepoltura accanto al legittimo consorte. All’epoca gli archiatri di corte diagnosticano una febbre malarica, una febbre dal tipico andamento alternante detta, appunto, terzana. Nel 2009 le analisi condotte dal Laboratorio di Parassitologia della Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Torino ripropongono la tesi della morte per malaria. L’esame dei campione di tessuto osseo spugnoso estratto dallo scheletro del ganduca è risultato positivo per la ricerca delle proteine del Plasmodium falciparum, l’agente causale della malaria. nsomma, a distanza di quasi cinque secoli, la Scienza sembra scagionare definitivamente Ferdinando, e l’arsenico e I vecchi merletti, a braccetto, abbandonanto il palcoscenico di questa movimentata saga familiare.

Effettivamente Ferdinando odia la cognata che chiama “la pessima Bianca” e di lei cancella ogni traccia. Ai funzionari che gli chiedono istruzioni per la sepoltura il nuovo granduca risponde “dove volete, ma non con noi”, cioè non nelle tombe medicee. La corte viene in un certo senso “bonificata” e lo Stato fiorentino, governato da un nuovo sovrano generoso, equilibrato e saggio, guadagna il rispetto ed il prestigio che erano venuti meno negli anni precedenti a causa del temperamento del fratello e dello scandalo legato alla presenza di Bianca. Ferdinando I sarà l’unico dei discendenti di Cosimo a lasciare di sé una fama duratura. Egli restituisce al paese l’ordine e al governo l’integrità, promuove una riforma fiscale, sostiene il commercio, incoraggia il progresso tecnico e scientifico. Il suo nome è legato a grandi opere pubbliche, quali la bonifica della Val di Chiana e il potenziamento del porto di Livorno. Della città, che al tempo del padre era un modesto villaggio di pescatori, egli fa, mediante una legge speciale, un asilo aperto ad ogni sorta di perseguitati religiosi e politici: ebrei, ugonotti in fuga dalla Francia, cattolici dall’Inghilterra, profughi di tutti i paesi.