domenica 26 dicembre 2010
La vita di Fara ,la barbara che divenne santa(2 parte)
Sei mesi dopo Eustasio fece il suo rientro. Per tutto il tempo Fara si era dedicata assiduamente alla preghiera. Egli attaccò con veemenza Cagnerico rimproverandogli la sua inumana condotta. Gli disse Eustasio: “Io avevo un amico che mi aveva fatto una promessa solenne sulla quale io contavo, ma mi ha ingannato con una grande perfidia. Io ne ho provato un amaro dolore e non posso dimenticare questo oltraggio” . Cagnerico, in risposta: “Voi avete ragione, non vi è niente di più ingiurioso della mancanza di parola, soprattutto a un religioso, che rappresenta nella sua persona Gesù Cristo stesso” . Ottenendo, a sua volta, la seguente, inequivocabile risposta: “Non vi condannate più. voi siete quest’uomo, voi mi avevate promesso di non opporre ulteriore resistenza ai pii desideri di vostra figlia: ecco che avete mancato allo Spirito Santo. Se non riparate a questo peccato, esso non vi sarà perdonato” .
Ottenne il suo ravvedimento e dispose che la funzione di consacrazione di Fara di svolgesse nella Cattedrale di Meaux, nelle mani del vescovo Gondoaldo. Correva l’anno 614. Certamente fu rispettata la liturgia del doppio rituale di vestizione, articolato secondo l’uso di quel tempo in due fasi: la professione monastica, che rappresentava la rinuncia al mondo con i segni esteriori della tonsura che separa dalle vanità del mondo, della lettura di un chirographum o carta di professione, dello scambio degli ornamenti del mondo con il vestito di lana grossolana: nella fattispecie la cocolla bianca di Luxeuil; la velatio, o imposizione del velo, segno di consacrazione delle Vergini risalente ai primordi della Cristianità.
Insieme con alcune fanciulle nobili del vicinato e alcune parenti fondò un’oasi presso Champeaux, in una villa di proprietà, alternando preghiere e penitenze, in un vero ritiro claustrale. Jacque Bossuet, vescovo di Meaux nel XVII sec., scrisse di lei: “non avrebbe voluto esser vista, né vedere”. Un gran numero di persone si aggregarono a lei, abbracciando il suo genere di vita. La Delsart riferisce come sino al secolo XIX fossero visibili in Champeaux la casa in cui visse Santa Fara e una croce detta il Calvario di Santa Fara. Si tratta certamente della casa in cui ella visse in ritiro nel periodo antecedente la costruzione del monastero ad Eboriac.
Eboriac diviene Faremoutiers: Cagnerico, volendo riscattarsi dalla sua condotta, offrì una parte del suo feudo perché vi sorgesse un monastero. La costruzione del complesso monastico, della quale furono incaricati i monaci di Luxeil, che impiegarono il legno disponibile in gran copia nelle vicine foreste, terminò nell’anno 627: sorgeva su una collina, tra i due fiumi Gran-Morin e Aubetin, irrorata da abbondanti sorgenti, proprio in prossimità della via romana che congiungeva Sens a Boulogne-sur-Mer, varcando il Gran Morin con un guado o, presumibilmente, con un ponte. Tale collina fungeva da cinta naturale e i campi, per la favorevole esposizione, già dovevano prestarsi alla coltura del grano. Eboriac ha una probabile radice nel latino ebur: avorio. Il toponimo la designava, dunque, come la “collina d’avorio”: Eboriacum o Evoriacum. Il celebre libro di Giona di Bobbio sul monastero di Fara avrà per titolo, infatti: “Miracula evoriacensia”.
Le costruzioni, in realtà, furono duplici. Non distante dal monastero voluto da Fara ne sorse un altro per monaci, che attendessero al culto e ai lavori pesanti, secondo una consuetudine diffusa nel Medioevo. Al monastero femminile si affiancò così la chiesa di “Notre-Dame et Saint Pierre”, a quello maschile la chiesa di “Santo Stefano”. Mabillon sostiene a buona ragione, che la chiesa parrocchiale di San Sulpicio in Faremoutiers, sia sorta nel XII secolo proprio sulle rovine della preesistente chiesa di Santo Stefano.Al termine dei due anni di lavori, Fara prese possesso del complesso a capo di un gran numero di vergini, proprio come aveva visto anni prima nel suo sogno. Cagnerico arricchì poi ulteriormente la donazione. Il monastero da allora prese il nome di Faremoutiers (monastero di Fara o di Eboriac: il percorso etimologico proposto sarebbe: Farae monasterium, Fare-monstier, Faremoutiers). La chiesa fu dedicata alla Vergine e a S. Pietro Apostolo. Su indicazione di Cagnoaldo, fratello di Burgundofara, le suore si dettero la regola di Colombano sotto la direzione di Fara. La liturgia adoperata fu dunque quella di ispirazione irlandese, così come era stata importata dal Santo irlandese. Cagnoaldo e Walbert – anch’esso santo – furono incaricati della formazione delle monache di Faremoutiers.
La regola di Colombano si caratterizzava per il suo rigore; prescriveva disciplina, umiltà, pazienza, silenzio, mansuetudine, lavoro, digiuno, mortificazioni corporali, veglie notturne di preghiera. In questo periodo, a seguito dei dialoghi tra Fara e il suo fratello Farone, questi si convertì e manifestò i suoi mutamenti presso la corte del re Clotario che lo proteggeva. Tale incontro venne poi effigiato da Rabel per la Vie de Saincte Fare di Padre Robert Regnault. A tale incisione, che riportiamo di fianco, si ispirarono gli artisti che hanno rappresentato Fara e le sue opere nei secoli successivi. La sua conversione, poi, lo condusse alla deliberazione di entrare in monastero. La stessa decisione fu presa da sua moglie Blichedilde. Nel 627/28, alla morte del vescovo Gondoaldo, che aveva sempre promosso l’operato dell’abbadessa Fara, il ruolo di vescovo di Meaux fu assunto da Farone. Un’ulteriore prova per lei fu la morte dell’abate Eustasio, maestro e confidente.
La grande fioritura spirituale di Eboriac (ormai Faremoutiers) spinse la Chiesa del tempo a invitare Fara a fondare altri centri di vita contemplativa. Obbedendo a tale invito, Fara inviò delle monache a Champeaux, nella Brie, dove aveva trascorso i primi giorni. Lì fu fondata una chiesa in onore di S. Martino. Di tale fondazione si rintracciano notizie nelle fonti storiche dal 700 d. C.
L’eretico Agrestius: Un episodio degno di nota è certo quello del monaco Agrestius di Luxeil, cresciuto con gli insegnamenti di Colombano, ma poi traviato da certe eresie scismatiche di stampo nestoriano. Egli era stato notaio del re Thierry.
Egli, pur non essendo assolutamente preparato e, forse, dotato, si volle dare alla predicazione. Dopo qualche resistenza, Eustasio, si vide costretto a lasciarlo andare via dal monastero. Raggiunse allora la Baviera e ad Aquileia fu coinvolto dalle tendenze eretiche cui accennavamo. Tornò a Luxeil e provò, con accesi dibattiti a coinvolgere proprio Eustasio, suo maestro. Vistosi respinto, si recò a Ginevra, dove poteva contare sull’appoggio di un parente vescovo, Abellenus. Riprese la sua predicazione tentando di influenzare il re Clotario. Il re, allora, indisse Concilio a Macon nel 626. Gli scismatici attaccarono proprio Colombano e i suoi insegnamenti. Eustasio confutò i rilievi mossi alla regola e condannò in pubblico Agrestius, il quale, fingendo di pentirsi all’istante, si allontanò dal Concilio ma si recò altrove per fare proseliti, riuscendo ad allignare persino a Luxeil, portando via qualche monaco.
Nelle sue peregrinazioni toccò anche Faremoutiers. Qui, sebbene fossero presenti monaci e monache nei due complessi tanto vicini tra loro, la dignità abbaziale era già tutta nelle mani della giovane Burgundofara, a dispetto dell’età ma certo a riprova di un carattere forte e di una preparazione teologica salda. Essa, pur avendo al proprio cospetto un monaco ben più anziano di lei, non si perse d’animo e rispose col tono giusto, stando a quanto riporta Giona di Bobbio nella sua “vita Sancti Eustasi”: “Sei tu venuto qui a spargere veleno sul miele e cambiare gli elementi di vita in amarezza mortale? Tu cerchi di disprezzare quello [Colombano, ndr] di cui personalmente hai conosciuto le virtù, dal quale ho ricevuto la salutare dottrina di Cristo, ed il cui insegnamento ha portato un gran numero di anime nella patria celeste”. Giungendo infine a citare Isaia 5,20: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene”, e “allontanati, fuggi e abbandona rapidamente questa follia“. Effettivamente Agrestius e i suoi monaci si dispersero bene presto con i loro propositi, finendo per lo più in modo inglorioso o violento.
L’episodio del dialogo in cui Fara censurò il comportamento e le tendenze eretiche di Agrestius le conquistò una grande stima. Forse anche per questo nel celebre epitaffio tramandato dal Mabillon – che di seguito riportiamo – Fara viene definita, appunto un faro lucente.
Eustasio morì nel 629. Gli successe Walbert. Cagnoaldo era ormai vescovo, da prima del 627, a Laon.
Il Testamento di Fara: Nel 627 Fara redasse un testamento. In quel tempo ella doveva avere circa 27 anni e la cosa può sembrare strana. In più diversi storici hanno dubitato sull’attendiblità del documento a causa dei ricorrenti riferimenti, attraverso il testo, all’attesa della morte e al giudizio universale. In realtà altri storici hanno fatto rilevare come questi due temi siano sempre stati a fondamento della formazione dei monaci, anche giovani. Quanto alla necessità di far testamento in giovane età occorre fare qualche riflessione, che cercheremo di schematizzare in modo opportuno:
• Fara si era ammalata due volte in modo molto grave, lasciando temere la sua morte come uno scenario non inverosimile. L’episodio della monaca Gibitrude, che verrà illustrato in seguito, può essere iluminante;
• Il padre Cagnerico era deceduto poco tempo prima, lasciando alla figlia la parte di eredità che le spettava e che, nelle sue intenzioni originarie, doveva costituire la sua dote di contessa. Poichè tale quota ereditaria doveva confliggere con il voto di povertà monastico, dovette rendersi necessaria una redazione delle ultime volontà in modo da attribuire le prorpietà all’Ordine.
Tuttavia non è assolutamente da escludere che, ferma restando l’autenticità dell’atto, se ne possa mettere in discussione l’originalità: può trattarsi di una riscrittura tardiva (XI sec.) di un originale più antico oggi non più disponibile.
Le funzioni del Monastero: Nel Medioevo non si disponeva di una agevole rete di strade per spostarsi da una città all’altra. I monasteri spesso fungevano da foresterie per accogliere temporaneamente i viandanti. Erano l’”asilo di tutte le miserie, centro caritatevole di tutto il paese. In foresteria ci si occupava degli ospiti, ma più spesso i monasteri accoglievano malati e fanciulli da educare. È assai probabile che, in quell’epoca, non essendo in uso la grata, segno di separazione claustrale, vi fossero monache addette personalmente a ciascuna delle mansioni anzidette. In più, il monastero svolgeva una considerevole funzione sul piano sociale. Le terre confinanti, spesso parte dei donativi che consentivano di edificare i monasteri, attraevano lavoratori, servi, schiavi e coloni, ai quali i monaci insegnavano a dissodare la terra nonché a coltivarla. In cambio del lavoro e di parte dei prodotti, la Chiesa offriva lavoro, aiuto e protezione, necessaria in quei tempi in cui impazzava il brigantaggio e l’aggregazione era l’unico rifugio. Il Testamento di Fara del 26 Ottobre 627 fa esplicito riferimento alle categorie degli schiavi e dei coloni. Fu volontà della Santa che i primi fossero liberati alla sua morte senza perdere il lavoro.
La funzione per cui Faremoutiers si distinse fu l’educazione fu l’educazione delle giovani donne, anche venute da lontano, dei fanciulli, nonché la cura degli ammalati. Fara ebbe un ruolo nella direzione spirituale di diverse nobildonne del tempo: la regina Batilide, che si recava spesso da Fara, Sedrida ed Edilburga, figlie del primo re degli anglosassoni che vestirono l’abito monastico, sotto Fara. Queste ultime, nell’ordine, successero proprio a Fara, nel ruolo di guida del monastero. Tali notizie ci sono state tramandate da S. Beda, che chiama Fara “Abbatissa nobilissima vocabulo Farae“.
“Padre Carcat, narra che un giorno, in tempo di carestia, venuto a mancare il pane per la comunità, l’economa si rivolse alla buona madre abbadessa. Fara, fiduciosa nella Provvidenza, ordinò alle suore di elevare preghiere. Intanto il fratello Farone, per speciale illuminazione divina, essendo venuto a conoscenza delle necessità in cui versava il monastero, inviò due carri di grano con l’impegno da parte di coloro che guidavano il convoglio, di trovarsi al monastero la mattina seguente
I monasteri di Fara accolsero presto la regola benedettina, anche se le fonti storiche illustrano come il passaggio non sia stato immediato, bensì graduale: è certo che a Luxeil, sotto la guida di San Walbert, vi sia stata fusione tra le due regole di Colombano e Benedetto, la qual cosa lascia supporre che un fatto analogo sia avvenuto a Faremoutiers, che da quello dipendeva direttamente. Nell’VIII secolo la Regola di Colombano cadde in disuso.
Miracula Evoriacensia – i miracoli di Eboriac: Attraverso l’opera del monaco Giona di Bobbio, testimone degli eventi connessi alla fondazione e la crescita del monastero di Fara, ci è pervenuta la gran parte delle informazioni coeve in nostro possesso. In particolare, il testo intitolato “Miracula Evoriacensia” narra, con dovizia di particolari, i miracoli avvenuti nel monastero, prima e dopo la morte di Fara. Ne citiamo alcuni, riportati anche nel volume della Delsart, presente in bibliografia. Si tratta di una serie di eventi miracolosi connessi con le vicende terrene di sante e monache vissute intorno a Fara; il tramandarsi della memoria di queste vite esemplari aveva un evidente fine storico ma soprattutto didascalico.
La monaca Sisetrude ebbe il privilegio di conoscere tramite gli angeli la data della propria morte con quaranta giorni di anticipo. Al momento della morte, alla quale Sisetrude pervenne perfettamente preparata, anche le altre monche, con a capo la madre Fara, udirono cori angelici.
Non meno significativo l’esempio di Gibitrude. All’origine della sua esperienza religiosa ci furono diversi ostacoli opposti da persone che la circondavano: la nutrice e la madre. Entrambe furono colpite improvvisamente da mali inspiegabili, dai quali furono liberate solo dopo che la futura santa si impegnò ad impetrare la loro guarigione presso Dio dietro promessa di esser lasciata libera di seguire la propria vocazione. Accadde poi che la Madre abbadessa Fara si ammalasse di febbri molto forti, che ne mettevano a serio rischio la sopravvivenza. Gibitrude chiese allora di morire al suo posto con un voto assai coraggioso. In risposta alle sue insistenti richieste udì una voce dall’alto: “Va’ serva di Cristo, tu hai ottenuto ciò che domandavi. Ella [Fara, ndr] continuerà a dimorare tra i vivi, e tu sarai sciolta prima di lei dalle catene della terra”. Fu portata in cielo ma subito ricondotta in terra al fine di consentirle di appianare eventuali contrasti che ella potesse avere con qualche consorella permettendole, al momento del trapasso, di accedere direttamente al Regno di Dio. Avvenne infatti che ella predisse il giorno e l’ora della propria morte, avvenuta a causa di febbri sei mesi dopo gli eventi descritti. Durante la celebrazione del trigesimo nella Chiesa si sparse un odore soave per tutta la chiesa e tutte le monache lo percepirono.
La monaca Ercantrude aveva infranto la Regola e per punizione il giorno dopo non avrebbe potuto assumere le Sacre Specie per ordine di Fara. Ella si addolorò tantissimo per tale restrizione anche perché il giorno appresso si celebrava la festa di San Martino. Stette tutta la notte vegliando in preghiera per implorare il perdono e lo ottenne dallo stesso Gesù che le ordinò di riferire a Fara di averla perdonata egli stesso. La Madre, dotata evidentemente di un discernimento adeguato, cancellò la punizione deliberata.
La monaca Blitilide era in fin di vita. Chiese allora che si accendesse un lume affinché la sua cella fosse illuminata durante le ore notturne. Il lume fu riempito con acqua e olio. Giona riferisce che la suora rimase sola tutta la notte. La mattina dopo la monaca che aveva riempito il lume, dovendolo spegnere, vi trovò olio e latte. Ne fu sorpresa perché a quanto pare tale bevanda non era adoperata nel Monastero in quel momento preciso. Fu interpellata la Madre Fara, la quale ordinò che olio e latte fossero divisi. Quando la parte di latte fu rimossa l’olio cominciò a crescere finendo col traboccare. Fara e gli altri testimoni – Walbert e Farone – interpretarono il segno come il passaggio di Cristo dalla cella della monaca durante la notte per additarne la santità. L’olio venne raccolto e trasportato devotamente in sacrestia. Giona riferisce che diversi miracoli furono operati da Fara per mezzo di tale unguento di origine soprannaturale.
La morte di Fara: Morì il giorno 7 dicembre del 658 (Altri credono che la morte sia avvenuta il 3 aprile del 655, ma la data assegnata per la sua festa, indicata anche dal Martirologio romano, è quella del 7 dicembre). Le sue esequie, curate dal fratello Farone, furono solenni, tanto che vi intervenne il vescovo di Parigi. Fara fu sepolta in una tomba di pietra, fatta preparare da lei stessa. Dopo quarant’anni fu fatta la ricognizione del suo corpo, alla presenza di molti fedeli e vari vescovi. Le sue reliquie furono deposte in un ricco reliquiario. “
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