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giovedì 15 novembre 2012
martedì 6 novembre 2012
LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE
LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE
Il complesso di forze naturali,
sociali e culturali che hanno plasmato l'alimentazione dell'uomo nel corso dei
millenni e gli incessanti tentativi individuali e collettivi posti in essere per
procurarsi una dieta più abbondante e migliore hanno contribuito a orientare,
talvolta in modo decisivo, seppure più spesso appena avvertibile o addirittura
inconsapevole, il movimento complessivo della storia dell'uomo, perché il cibo
è, che lo si voglia o no, storia.
Basta riflettere sulla condizione individuale e sociale di tutti gli esseri viventi, sulle variabili geometeorologiche dell'ambiente circostante, sulla irregolarità della ciclicità stagionale vegetazionale, sulla imprevedibile occasionalità della disponibilità di risorse nutrizionali per concludere che l'uomo, il più intelligente fra tutti gli esseri viventi, fin dalla più remota antichità ha dovuto esercitare uno sforzo adattivo continuo per superare la durezza dell'esocondizionamento alimentare individuale e approdare a una situazione di endosufficienza nutritiva collettiva, programmata e controllata.
Il lunghissimo processo evolutivo è partito dal primo ominide non più scimmia, assillato dalla sua terragna condizione di fame di milioni di anni fa, per approdare all'uomo ormai astronauta della opulenta società occidentale odierna, libera dai rischi di indisponibilità alimentare, miseria e fame. L'uomo è cioè passato dall'individuale e ancora animalesca quotidiana necessità di caccia a fini di sopravvivenza alla attuale agiata e sovrabbondante disponibilità di cibo, dalla monoassillante attività del cacciatore-raccoglitore preistorico alla creativa poliedricità occupazionale dell'uomo moderno, ormai libero dal primario condizionamento nutrizionale.
Ma per farlo ha dovuto trasformarsi da occasionale profittatore delle risorse alimentari naturali in produttore-programmatore di risorse alimentari industriali. Il passaggio dalla "naturalità" alla "industrialità" alimentare è stata possibile solo dagli sforzi dell'intelligenza umana, che ha fatto acquisire all'uomo una "scienza" dell'alimentazione che gli ha consentito di sviluppare una "tecnologia" alimentare via via sempre più articolata: è l'uso regolare di cibo "conservato" dalla tecnologia scientifica elaborata dall'uomo che ha potuto innescare il processo di civilizzazione umana, perché ha consentito all'uomo di dedicarsi ad altre attività creative e produttive. Senza cibi "conservati" l'uomo sarebbe ancora all'età della pietra: ecco perché la storia del cibo è storia dell'uomo.
Stabilire correlazioni fra le tante informazioni fornite in anni recenti dalle nuove discipline scientifiche nei campi dell'archeologia e antropologia, della biologia, ecologia, economia, tecnologia e zoologia, disperse in molte fonti, getta oggi una luce preziosa sul ruolo svolto dal cibo nei millenni, anche a partire dai tabù alimentari di origine religiosa, dall'influenza unificatrice del pasto familiare e dalle sfumature politiche dell'ospitalità, così come studiare i primordi della coltivazione delle piante e della domesticazione degli animali, gli ingredienti speciali usati nelle cucine delle civiltà antiche, le diete delle popolazioni nomadi e gli effetti del commercio delle spezie è utile ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza su ciò che ha indotto nell'antichità un nuovo e diverso dinamismo nei popoli, ha elaborato i più antichi metodi di conservazione dei cibi e delle nuove tecniche speciali di cottura che questi richiedevano (TANNAHILL, p. 7).
Questi argomenti aprono stimolanti quesiti sul cibo, sulla nutrizione, sull'antropologia, sulla storia, sull'ecologia e su tutta un'altra vasta gamma di argomenti che questo libro si propone di introdurre, se non di colmare, sviluppando l'idea che la "conservazione" del cibo è stato il più potente fattore di civiltà e che, fra gli alimenti "conservati" di origine vegetale e animale, i salumi, con tutto il peso delle loro calorie indispensabili all'alimentazione umana, sono quelli che più degli altri hanno assolto con efficacia alla loro insospettata funzione di sorprendenti agenti di progresso e benessere.
Benché esistano relativamente poche informazioni precise sul mondo prima del 100.000 a.C., gli archeologi hanno riportato alla luce, nei loro scavi, utensili e residui di cibi che permettono di delineare, sia pure a grandi linee, un quadro essenziale della dieta dell'uomo preistorico. Essenziale, perché ciò che l'uomo mangiò durante i lunghi millenni del periodo paleolitico ebbe un'influenza fondamentale sulla rivoluzione neolitica e sul corso di gran parte dello sviluppo successivo: il cibo contribuì a fare dell'uomo ciò che egli è. La trasmutazione della scimmia in uomo ebbe inizio circa quattro milioni di anni fa e fra gli studiosi c'è accordo sul fatto che il mutamento fu avviato da una scarsità di uova, di nidiaci e di frutta, che spinse la scimmia a scendere dal suo habitat familiare sugli alberi per andare a cercare cibo nelle praterie. Là trovò piccoli animali di cui si cibò con un entusiasmo tale da condannare quasi all'estinzione, nel corso dei millenni, un certo numero di specie più piccole.
Nei successivi tre milioni di anni l'uomo-scimmia imparò a uccidere animali di dimensioni maggiori, scagliando contro di loro grossi sassi, con una tecnica di caccia che gli richiese di muoversi su tre zampe e, infine, su due anziché quattro. La sua intelligenza si acuì ed egli entrò in concorrenza con il leone, con la iena e con la tigre dalle zanne a sciabola, che condividevano con lui gli stessi terreni di caccia. I suoi denti, che non gli servivano più per la lotta, mutarono forma e modificarono l'apparato orale: così cominciò a svilupparsi il linguaggio umano, mentre le sue zampe anteriori si trasformarono in mani, che si rivelarono capaci di produrre utensili.
Tuttavia fino al 100.000 a.C. circa l'uomo fu poco più che un predatore efficiente che viveva secondo la legge naturale e che riusciva a sopravvivere perché a essa si era adattato. Sapeva come combattere, come produrre utensili e indumenti, come dipingere immagini sulle pareti delle sue caverne e anche come cucinare, anche se non aveva ancora, sul mondo esterno, un'influenza maggiore di quella che poteva esercitarvi il leone, il lupo o lo sciacallo. Era stato l'istinto di autoconservazione e la necessità della ricerca di cibo che avevano trasformato, durante milioni di anni di evoluzione, un tipo particolare di scimmia in un superanimale bipede: l'uomo. Ma quando, all'inizio della rivoluzione neolitica, l'uomo scoprì come coltivare piante e come addomesticare gli animali, imboccò una via divergente che avrebbe infine mutato il volto della Terra e la vita di quasi tutti gli organismi che la abitavano. Fino a questo punto la ricerca di cibo aveva contribuito a trasformare la scimmia in un ominide: mezzo milione di anni fa l'uomo-scimmia, l'Australopithecus, più scimmia che uomo, era diventato l'Homo erectus, più uomo che scimmia.
L'uomo di Pechino, la prima vera personalità della storia, risale all'incirca a quest'epoca fra il 310.000 e il 290.000 a.C.. Il suo aspetto era ancora molto scimmiesco ma, pur essendo alto solo un metro e mezzo, era pronto ad affrontare avversari pericolosissimi come la tigre, il bufalo e il rinoceronte. Ossi di questi animali sono stati infatti ritrovati sparsi nelle sue caverne, così come ossi di lontra, di pecora selvatica e di cinghiale. L'uomo di Pechino deve comunque la sua fama principale al fatto che egli fu probabilmente il primo a fare uso del fuoco, anche se non necessariamente ad accenderlo. I sei metri di ceneri vegetali ritrovate nella caverna di Ciu-Ciu-Tien in Cina dimostrano infatti che era in grado di organizzarsi al fine di conservarlo. E' plausibile che lo facesse anche per impiegarlo nelle stagioni adatte per provocare artificialmente l'incendio dei boschi al fine di creare radure erbose, in previsione del notevole incremento del prodotto della caccia e della raccolta dei vegetali commestibili (FORNI, p. 96). Col passare del tempo, anche altri uomini in altre parti del mondo scoprirono l'uso del fuoco. Luce e calore all'interno delle caverne ebbero una grande influenza nel processo di umanizzazione, specialmente durante i millenni in cui i ghiacciai avanzarono durante la glaciazione fino a coprire vaste aree della Terra. Col fuoco come alleato, l'uomo non aveva la necessità di ritirarsi precipitosamente dinnanzi all'avanzata dei ghiacci, ma poteva restare in prossimità dei loro margini, adattando a questo nuovo clima le sue tecniche di caccia e la sua dieta, mangiando la carne di animali di grandi dimensioni e resistenti al freddo, come il mammuth lanoso.
All'inizio di uno dei periodi di freddo intenso, attorno al 75.000 a.C., sulla scena preistorica apparve una razza di Homo sapiens dal cervello più grande dell'Homo erectus, l'Homo neanderthalensis, che aveva sviluppato propri riti e rituali, aveva perfezionato una tecnica chirurgica primitiva e aveva cominciato a prendersi cura dei malati e degli anziani. Solo dopo la scomparsa dell'uomo di Neardenthal dalla storia, attorno al 30.000 a.C., diventa possibile trattare meno sommariamente lo sviluppo delle abitudini alimentari, poiché dopo i neardenthaliani emerse una razza di uomini più evoluti che, in un clima temporaneamente mite, riuscirono a produrre utensili più perfezionati e attorno all'11.000 a.C., quando il ghiaccio cominciò a ritirarsi per l'ultima volta e il clima si addolcì, gli uomini, gli animali e la vegetazione cominciarono ad adattarsi ancora una volta: ma ora la tecnologia dell'uomo era abbastanza evoluta perché il suo adattamento potesse assumere una forma più radicale. A questo punto il cibo aveva già svolto il suo ruolo nella genesi dell'uomo: ora esso avrebbe condizionato la storia e questo condizionamento non avrebbe mai avuto un carattere più decisivo di quello assunto tra il 10.000 e il 3.000 a.C., il periodo di gestazione della moderna civiltà.
Quando i ghiacci si ritirarono verso nord, la distribuzione della vegetazione cominciò a modificarsi. Le renne, e gli uomini che da esse dipendevano, seguirono i muschi e le felci che crescevano ai margini del ghiacciaio. Altri animali rimasero indietro e quelli più piccoli trovarono il loro habitat più congeniale ai bordi delle foreste che cominciarono a svilupparsi. Sotto l'influenza dei venti caldi, campi estesi di frumento selvatico apparvero in varie aree del Vicino Oriente. In precedenza l'uomo era stato un cacciatore, non un pastore, un raccoglitore di cibi vegetali, non un coltivatore. Ma a soli duemila anni dal ritiro dei ghiacci avevano avuto inizio la coltivazione deliberata delle piante e la domesticazione deliberata di animali, erano stati fondati i primi villaggi e lentamente la conoscenza dell'agricoltura si diffuse in molte parti d'Europa, dell'Africa e dell'Asia occidentale.
Quando i ghiacci avanzarono per la prima volta un milione di anni fa, si stima che sulla Terra esistesse circa mezzo milione di ominidi. Intorno al 10.000 a.C., alla vigilia della grande rivoluzione neolitica, l'Homo sapiens contava già circa tre milioni di individui. Nel 3.000 a.C., dopo settemila anni di agricoltura e di allevamento, la popolazione mondiale era esplosa sino a raggiungere il traguardo di ben cento milioni di individui. A tanto aveva contribuito il cibo della nuova alimentazione, poiché nella preistoria la vita umana era breve e durante il periodo dei neanderthaliani, ad esempio, meno della metà della popolazione sopravviveva oltre l'età di vent'anni e nove su dieci dei restanti adulti morivano prima dei quarant'anni. Carenze vitaminiche, malnutrizione stagionale, veleni vegetali e cibi contaminati si combinavano in modo tale che un quarantenne sembrasse centenario, con tutto quello che la precoce senescenza poteva comportare.
Ma se l'estrema giovinezza o l'età avanzata dei componenti di quelle comunità primitive non costituivano un ostacolo all'esercizio di attività di base necessarie alla sopravvivenza del gruppo, quali la pesca e la raccolta di cibi vegetali, soltanto i membri più attivi e più capaci di quelle comunità diventavano abili cacciatori e il cacciatore preistorico era indubbiamente abile. Tuttavia l'uccisione della preda, che pure rappresentava un'attività faticosa e spesso pericolosa, poteva rappresentare per lui un compito ben meno difficile di quello necessario a provvedere al suo trasporto e soprattutto a quello della sua conservazione nel tempo. Basti pensare a cosa potesse rappresentare per l'uomo di allora il trasporto a spalle della carcassa di un grosso ruminante ucciso e soprattutto l'assillo di doverne preservare a lungo le carni senza rischiare di innescare processi di putrefazione, in modo da poterle distribuire a scopo alimentare su un arco di tempo abbastanza lungo fra una non facile e occasionale predazione e l'altra.
Basta riflettere sulla condizione individuale e sociale di tutti gli esseri viventi, sulle variabili geometeorologiche dell'ambiente circostante, sulla irregolarità della ciclicità stagionale vegetazionale, sulla imprevedibile occasionalità della disponibilità di risorse nutrizionali per concludere che l'uomo, il più intelligente fra tutti gli esseri viventi, fin dalla più remota antichità ha dovuto esercitare uno sforzo adattivo continuo per superare la durezza dell'esocondizionamento alimentare individuale e approdare a una situazione di endosufficienza nutritiva collettiva, programmata e controllata.
Il lunghissimo processo evolutivo è partito dal primo ominide non più scimmia, assillato dalla sua terragna condizione di fame di milioni di anni fa, per approdare all'uomo ormai astronauta della opulenta società occidentale odierna, libera dai rischi di indisponibilità alimentare, miseria e fame. L'uomo è cioè passato dall'individuale e ancora animalesca quotidiana necessità di caccia a fini di sopravvivenza alla attuale agiata e sovrabbondante disponibilità di cibo, dalla monoassillante attività del cacciatore-raccoglitore preistorico alla creativa poliedricità occupazionale dell'uomo moderno, ormai libero dal primario condizionamento nutrizionale.
Ma per farlo ha dovuto trasformarsi da occasionale profittatore delle risorse alimentari naturali in produttore-programmatore di risorse alimentari industriali. Il passaggio dalla "naturalità" alla "industrialità" alimentare è stata possibile solo dagli sforzi dell'intelligenza umana, che ha fatto acquisire all'uomo una "scienza" dell'alimentazione che gli ha consentito di sviluppare una "tecnologia" alimentare via via sempre più articolata: è l'uso regolare di cibo "conservato" dalla tecnologia scientifica elaborata dall'uomo che ha potuto innescare il processo di civilizzazione umana, perché ha consentito all'uomo di dedicarsi ad altre attività creative e produttive. Senza cibi "conservati" l'uomo sarebbe ancora all'età della pietra: ecco perché la storia del cibo è storia dell'uomo.
Stabilire correlazioni fra le tante informazioni fornite in anni recenti dalle nuove discipline scientifiche nei campi dell'archeologia e antropologia, della biologia, ecologia, economia, tecnologia e zoologia, disperse in molte fonti, getta oggi una luce preziosa sul ruolo svolto dal cibo nei millenni, anche a partire dai tabù alimentari di origine religiosa, dall'influenza unificatrice del pasto familiare e dalle sfumature politiche dell'ospitalità, così come studiare i primordi della coltivazione delle piante e della domesticazione degli animali, gli ingredienti speciali usati nelle cucine delle civiltà antiche, le diete delle popolazioni nomadi e gli effetti del commercio delle spezie è utile ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza su ciò che ha indotto nell'antichità un nuovo e diverso dinamismo nei popoli, ha elaborato i più antichi metodi di conservazione dei cibi e delle nuove tecniche speciali di cottura che questi richiedevano (TANNAHILL, p. 7).
Questi argomenti aprono stimolanti quesiti sul cibo, sulla nutrizione, sull'antropologia, sulla storia, sull'ecologia e su tutta un'altra vasta gamma di argomenti che questo libro si propone di introdurre, se non di colmare, sviluppando l'idea che la "conservazione" del cibo è stato il più potente fattore di civiltà e che, fra gli alimenti "conservati" di origine vegetale e animale, i salumi, con tutto il peso delle loro calorie indispensabili all'alimentazione umana, sono quelli che più degli altri hanno assolto con efficacia alla loro insospettata funzione di sorprendenti agenti di progresso e benessere.
Benché esistano relativamente poche informazioni precise sul mondo prima del 100.000 a.C., gli archeologi hanno riportato alla luce, nei loro scavi, utensili e residui di cibi che permettono di delineare, sia pure a grandi linee, un quadro essenziale della dieta dell'uomo preistorico. Essenziale, perché ciò che l'uomo mangiò durante i lunghi millenni del periodo paleolitico ebbe un'influenza fondamentale sulla rivoluzione neolitica e sul corso di gran parte dello sviluppo successivo: il cibo contribuì a fare dell'uomo ciò che egli è. La trasmutazione della scimmia in uomo ebbe inizio circa quattro milioni di anni fa e fra gli studiosi c'è accordo sul fatto che il mutamento fu avviato da una scarsità di uova, di nidiaci e di frutta, che spinse la scimmia a scendere dal suo habitat familiare sugli alberi per andare a cercare cibo nelle praterie. Là trovò piccoli animali di cui si cibò con un entusiasmo tale da condannare quasi all'estinzione, nel corso dei millenni, un certo numero di specie più piccole.
Nei successivi tre milioni di anni l'uomo-scimmia imparò a uccidere animali di dimensioni maggiori, scagliando contro di loro grossi sassi, con una tecnica di caccia che gli richiese di muoversi su tre zampe e, infine, su due anziché quattro. La sua intelligenza si acuì ed egli entrò in concorrenza con il leone, con la iena e con la tigre dalle zanne a sciabola, che condividevano con lui gli stessi terreni di caccia. I suoi denti, che non gli servivano più per la lotta, mutarono forma e modificarono l'apparato orale: così cominciò a svilupparsi il linguaggio umano, mentre le sue zampe anteriori si trasformarono in mani, che si rivelarono capaci di produrre utensili.
Tuttavia fino al 100.000 a.C. circa l'uomo fu poco più che un predatore efficiente che viveva secondo la legge naturale e che riusciva a sopravvivere perché a essa si era adattato. Sapeva come combattere, come produrre utensili e indumenti, come dipingere immagini sulle pareti delle sue caverne e anche come cucinare, anche se non aveva ancora, sul mondo esterno, un'influenza maggiore di quella che poteva esercitarvi il leone, il lupo o lo sciacallo. Era stato l'istinto di autoconservazione e la necessità della ricerca di cibo che avevano trasformato, durante milioni di anni di evoluzione, un tipo particolare di scimmia in un superanimale bipede: l'uomo. Ma quando, all'inizio della rivoluzione neolitica, l'uomo scoprì come coltivare piante e come addomesticare gli animali, imboccò una via divergente che avrebbe infine mutato il volto della Terra e la vita di quasi tutti gli organismi che la abitavano. Fino a questo punto la ricerca di cibo aveva contribuito a trasformare la scimmia in un ominide: mezzo milione di anni fa l'uomo-scimmia, l'Australopithecus, più scimmia che uomo, era diventato l'Homo erectus, più uomo che scimmia.
L'uomo di Pechino, la prima vera personalità della storia, risale all'incirca a quest'epoca fra il 310.000 e il 290.000 a.C.. Il suo aspetto era ancora molto scimmiesco ma, pur essendo alto solo un metro e mezzo, era pronto ad affrontare avversari pericolosissimi come la tigre, il bufalo e il rinoceronte. Ossi di questi animali sono stati infatti ritrovati sparsi nelle sue caverne, così come ossi di lontra, di pecora selvatica e di cinghiale. L'uomo di Pechino deve comunque la sua fama principale al fatto che egli fu probabilmente il primo a fare uso del fuoco, anche se non necessariamente ad accenderlo. I sei metri di ceneri vegetali ritrovate nella caverna di Ciu-Ciu-Tien in Cina dimostrano infatti che era in grado di organizzarsi al fine di conservarlo. E' plausibile che lo facesse anche per impiegarlo nelle stagioni adatte per provocare artificialmente l'incendio dei boschi al fine di creare radure erbose, in previsione del notevole incremento del prodotto della caccia e della raccolta dei vegetali commestibili (FORNI, p. 96). Col passare del tempo, anche altri uomini in altre parti del mondo scoprirono l'uso del fuoco. Luce e calore all'interno delle caverne ebbero una grande influenza nel processo di umanizzazione, specialmente durante i millenni in cui i ghiacciai avanzarono durante la glaciazione fino a coprire vaste aree della Terra. Col fuoco come alleato, l'uomo non aveva la necessità di ritirarsi precipitosamente dinnanzi all'avanzata dei ghiacci, ma poteva restare in prossimità dei loro margini, adattando a questo nuovo clima le sue tecniche di caccia e la sua dieta, mangiando la carne di animali di grandi dimensioni e resistenti al freddo, come il mammuth lanoso.
All'inizio di uno dei periodi di freddo intenso, attorno al 75.000 a.C., sulla scena preistorica apparve una razza di Homo sapiens dal cervello più grande dell'Homo erectus, l'Homo neanderthalensis, che aveva sviluppato propri riti e rituali, aveva perfezionato una tecnica chirurgica primitiva e aveva cominciato a prendersi cura dei malati e degli anziani. Solo dopo la scomparsa dell'uomo di Neardenthal dalla storia, attorno al 30.000 a.C., diventa possibile trattare meno sommariamente lo sviluppo delle abitudini alimentari, poiché dopo i neardenthaliani emerse una razza di uomini più evoluti che, in un clima temporaneamente mite, riuscirono a produrre utensili più perfezionati e attorno all'11.000 a.C., quando il ghiaccio cominciò a ritirarsi per l'ultima volta e il clima si addolcì, gli uomini, gli animali e la vegetazione cominciarono ad adattarsi ancora una volta: ma ora la tecnologia dell'uomo era abbastanza evoluta perché il suo adattamento potesse assumere una forma più radicale. A questo punto il cibo aveva già svolto il suo ruolo nella genesi dell'uomo: ora esso avrebbe condizionato la storia e questo condizionamento non avrebbe mai avuto un carattere più decisivo di quello assunto tra il 10.000 e il 3.000 a.C., il periodo di gestazione della moderna civiltà.
Quando i ghiacci si ritirarono verso nord, la distribuzione della vegetazione cominciò a modificarsi. Le renne, e gli uomini che da esse dipendevano, seguirono i muschi e le felci che crescevano ai margini del ghiacciaio. Altri animali rimasero indietro e quelli più piccoli trovarono il loro habitat più congeniale ai bordi delle foreste che cominciarono a svilupparsi. Sotto l'influenza dei venti caldi, campi estesi di frumento selvatico apparvero in varie aree del Vicino Oriente. In precedenza l'uomo era stato un cacciatore, non un pastore, un raccoglitore di cibi vegetali, non un coltivatore. Ma a soli duemila anni dal ritiro dei ghiacci avevano avuto inizio la coltivazione deliberata delle piante e la domesticazione deliberata di animali, erano stati fondati i primi villaggi e lentamente la conoscenza dell'agricoltura si diffuse in molte parti d'Europa, dell'Africa e dell'Asia occidentale.
Quando i ghiacci avanzarono per la prima volta un milione di anni fa, si stima che sulla Terra esistesse circa mezzo milione di ominidi. Intorno al 10.000 a.C., alla vigilia della grande rivoluzione neolitica, l'Homo sapiens contava già circa tre milioni di individui. Nel 3.000 a.C., dopo settemila anni di agricoltura e di allevamento, la popolazione mondiale era esplosa sino a raggiungere il traguardo di ben cento milioni di individui. A tanto aveva contribuito il cibo della nuova alimentazione, poiché nella preistoria la vita umana era breve e durante il periodo dei neanderthaliani, ad esempio, meno della metà della popolazione sopravviveva oltre l'età di vent'anni e nove su dieci dei restanti adulti morivano prima dei quarant'anni. Carenze vitaminiche, malnutrizione stagionale, veleni vegetali e cibi contaminati si combinavano in modo tale che un quarantenne sembrasse centenario, con tutto quello che la precoce senescenza poteva comportare.
Ma se l'estrema giovinezza o l'età avanzata dei componenti di quelle comunità primitive non costituivano un ostacolo all'esercizio di attività di base necessarie alla sopravvivenza del gruppo, quali la pesca e la raccolta di cibi vegetali, soltanto i membri più attivi e più capaci di quelle comunità diventavano abili cacciatori e il cacciatore preistorico era indubbiamente abile. Tuttavia l'uccisione della preda, che pure rappresentava un'attività faticosa e spesso pericolosa, poteva rappresentare per lui un compito ben meno difficile di quello necessario a provvedere al suo trasporto e soprattutto a quello della sua conservazione nel tempo. Basti pensare a cosa potesse rappresentare per l'uomo di allora il trasporto a spalle della carcassa di un grosso ruminante ucciso e soprattutto l'assillo di doverne preservare a lungo le carni senza rischiare di innescare processi di putrefazione, in modo da poterle distribuire a scopo alimentare su un arco di tempo abbastanza lungo fra una non facile e occasionale predazione e l'altra.
lunedì 8 ottobre 2012
Maria Goretti vista da Guerri
Maria Teresa Goretti nacque a Corinaldo (Ancona) il 16 ottobre del 1890. Sua madre Assunta era stata abbandonata neonata nella “ruota” della Casa degli Esposti di Senigallia e affidata in seguito ad una coppia di Corinaldo, persone indigenti ma di “buona condotta”, erano “rigorosi in fatto di morale e la salvaguardavano dai divertimenti cattivi e dalla vita cattiva, abituandola ai dolori e alle privazioni della vita”. Assunta sposò Luigi, garzone di un podere lì vicino e ben presto arrivarono i figli, sei, uno dopo l’altro: Maria Teresa (da sempre chiamata Maria) fu la seconda. All’epoca la media di figli era di 4-5 per matrimonio, a fronte di una mortalità infantile elevatissima: un bambino su cinque moriva prima di compiere 5 anni. Nelle Marche la percentuale saliva ad uno su quattro, e ciò era dovuto più all’ignoranza dei genitori che all’arretratezza della medicina. Data la situazione, la Chiesa aveva stabilito che i neonati dovessero essere battezzati “entro le 24 ore”: che almeno l’anima si salvasse. Scriveva un medico lombardo alla fine dell’Ottocento: “Io veggo ne’ miei paesi essere immensa la mortalità de’ bambini nella stagione invernale e penso che l’egoistico pregiudizio comandato dai preti ai nostri villici, di farli trasferire al sacro fonte battesimale appena usciti alla luce e sotto qualsiasi rigore atmosferico, sia la principal sorgente della strage loro”. In quell’epoca un individuo su due era analfabeta (molti di più se si considerano solo le donne), la vita media era di 17 anni, comprese le morti infantili; arrivava a 60 anni se valutiamo la vita media di chi sopravviveva ai primi 5 anni. Il mondo dorato, tutto trine e galanterie della Belle Epoque, era un mondo riservato a pochissimi, isole circondate da un popolo lacero e aggressivo. Alcuni dati: nel decennio 1891-1900, con una popolazione che era metà di quella attuale, gli omicidi volontari furono quasi 4000 all’anno contro i 1400 dei nostri “feroci” anni Settanta; i “fatti di sangue” fra il 1890 e il 1911 raggiunsero i 2 milioni; alle voci “rapine, estorsioni e sequestri di persona” abbiamo il 25 per cento in più di oggi, e assai di più erano i galeotti. Era questa la bella epoca di Maria. I Goretti si trasferirono ben presto nel Lazio, a Paliano (Frosinone), nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, e qui conobbero un’altra famiglia marchigiana, i Serenelli, originari di Torrette, vicino ad Ancona, famiglia composta dal padre Giovanni e dai due figli Vincenzo e Alessandro. Ma la vita era durissima, si lavorava dall’alba al tramonto e a cena non si riusciva a mettere insieme una fetta di polenta. Dopo varie proteste con conseguente licenziamento da parte del padrone del terreno, i Goretti e i Serenelli si trasferirono nell’Agro Pontino (Roma). Le Paludi Pontine, un’estensione di circa 50 chilometri per 30 fra Anzio, Cisterna, Terracina e il Circeo, avevano resistito a numerosi tentativi di bonifica nel corso dei secoli. La zona, con l’acqua stagnante brulicante di miliardi di insetti, l’aria malarica, il caldo insopportabile in estate, la totale mancanza di igiene e la fame, era un autentico inferno: le statistiche parlano di circa 1500 morti all’anno su una popolazione di poche migliaia. Questo era il mondo di Maria, un mondo di silenzi e duro lavoro nei campi, di disperazione e abbrutimento, di miseria e ignoranza. In queste condizioni non si può parlare di “fede” ma di credenze popolari, di superstizioni, divieti e fobie: Assunta aveva trasmesso a Maria una profonda avversione per qualunque contatto fisico, considerato peccato: “Più volte io avevo raccomandato alla Maria di tenere bene coperta la Teresa [appena nata] specialmente quando c’erano i fratelli, e le avevo detto che stesse attenta, perché altrimenti si offendeva il Signore, come pure avevo detto che essa non guardasse i fratelli, perché era peccato”. D’altronde era questa la concezione del sesso e del corpo umano che si aveva all’epoca, di cui abbiamo testimonianza in un noto manuale per confessori nel quale si legge: “E’ peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale, ancorché eccitata casualmente. Pericolosi sono anche i movimenti disordinati. E’ lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli. Non v’ha dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche senza passione di libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti genitali, o vicine ad esse, o nelle mammelle, imperocché evidentemente si esporrebbe a pericolo venereo e certo prenderebbe parte alla libidine altrui; è perciò tenuta a respingere subito chi la tocca, rimproverarlo, percuoterlo, allontanare con forza le di lui mani, fuggire, o gridare se potesse mai avere speranza di soccorso”. Il mezzo migliore per sfuggire ai pericoli della carne è pensare alla morte, al giudizio di Dio, all’inferno, all’eternità”. Nel 1901-1902 Alessandro Serenelli aveva 18-19 anni e non aveva mai toccato una donna. Sfogava la sua voglia di sesso masturbandosi di continuo ma era allo stesso tempo terrorizzato dagli ammonimenti dei confessori scatenati contro i giovani “che si toccano”: gli dicono che potrà più generare, che il suo midollo spinale diventerà acqua, che ingobbirà e che forse rimarrà anche paralizzato: “Non vi ha vizio più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e specialmente se maschi” dice il manuale per i confessori “perché presi da questa prava consuetudine, indurano lo spirito, inebetiscono, dispregiano la virtù, disdegnano la religione; la loro indole diventa malinconiosa, incapace di energia, inetta a qualsiasi proposito tenace; le forze del corpo mancano, gravi infermità sopravvengono, si appalesa una caducità prematura, e spesso si muore di morte vergognosa”. Alessandro era un ragazzo chiuso, silenzioso, con evidenti problemi di personalità; diverse volte aveva tentato di avvicinare Maria, senza riuscire nel proprio intento. Fino al fatale 5 luglio 1902, quando prende dalla cassetta degli attrezzi una specie di lungo chiodo quadrangolare lungo 23 centimetri e mezzo, con il manico d’osso, e va in cerca della ragazzina, la vede, l’afferra, la trascina in casa e la costringe a sdraiarsi su un basso panchetto di legno lungo un metro. E qui la vista, per la prima volta forse, della cucca (o pentecana) fa impazzire l’adrenalina del ragazzo: finalmente farà scarpetta, il suo sogno si avvera, deve solo mettere u' cellu lì dentro. Ma non ci riesce e non per la resistenza di Maria ma per una sua incapacità organica a farlo, e allora afferra il punteruolo e la colpisce quattordici volte di cui cinque proprio sotto l’ombelico. Per Alessandro fu, come sanno bene gli psichiatri che si occupano di questi delitti, un coito traslato, una scarpetta col punteruolo nell’impossibilità di usare lo strumento apposito. Il punteruolo che sfonda e riemerge, che sfonda e riemerge nelle carni gli dà un’estasiante sensazione di possesso, fino a portarlo all’orgasmo. Poi si placa, getta il punteruolo dietro il cassone e, convinto di averla uccisa, va in camera sua e si sdraia sul letto. I soccorsi per Maria arrivano dopo alcune ore, viene trasportata al più vicino ospedale ma le sue condizioni appaiono subito disperate: viene operata per due ore (senza anestesia e senza nessuna protezione antisettica) al polmone sinistro, al diaframma, all’intestino: morirà dopo altre lunghe ore di atroce agonia. La prima preoccupazione di Assunta è di sapere se “oltre l’averla ammazzata non l’avrà anche disonorata”. Il medico la rassicura: “Sta’ tranquilla, che essa è proprio come è nata”. Assunta ringrazia il Signore. Intanto l’Italia viveva anni di cambiamenti: le prime automobili, la luce elettrica, il cinema, la psicoanalisi… perfino riviste e romanzi avevano contenuti sempre più “turpi e immorali”, secondo la Chiesa. Inoltre il pericolo che le idee degli anticlericali toccassero e corrompessero perfino le masse popolari, la cui religiosità si basava proprio sul rispetto dell’autorità ecclesiastica e su forme di superstizione (culto dei santi patroni, processioni, miracoli), spinse gli esponenti della chiesa locale a promuovere la causa di Maria, scelta come rappresentante della “più sublime delle virtù” contro “le virtù di bagasce sacrificatesi turpemente sull’ara di Venere”. Il processo di beatificazione, molto lungo e travagliato, rallentato dalla mancanza di qualsiasi elemento che provasse la santità della ragazzina, subì una improvvisa accelerazione nel 1943, dopo lo sbarco degli americani a Roma: i liberatori portano nella capitale della cristianità i chiari segni del loro accompagnarsi col demonio, tra cui danze oscene e musiche scostumate, anticoncezionali, nuovi modelli di vita… e allora occorrono degli argini, la religione ha bisogno di esempi e una vergine e martire è quel che ci vuole per dare l’esempio contro la corruzione dei costumi. Tutto fu quindi fatto con velocità estrema: le testimonianze in favore della sua santità furono ampiamente “aggiustate” e molti fatti inventati di sana pianta, i ricordi di Alessandro e Assunta (interrogati più volte) modificati e manipolati al fine di dare di Maria l’immagine che si voleva. Si trovarono anche dei malati guariti per la sua intercessione. Maria fu proclamata beata il 27 aprile 1947 da Pio XII. La successiva canonizzazione avvenne il 24 giugno 1950. Alessandro, dopo il delitto, venne subito arrestato condannato a 30 anni di carcere con un processo velocissimo, scontò una parte della pena a Regina Coeli, poi a Noto, nel sud della Sicilia, in seguito in Sardegna. Passava il tempo a masturbarsi e non è difficile credere che, ancora illibato, in lui esplose di nuovo il bisogno della carne. Il carcere lo portò all’omosessualità e probabilmente, data la sua impotenza, il suo destino fu quello di diventare la donna dei suoi compagni di cella. Fu liberato con due anni di anticipo, per buona condotta, aveva 47 anni ma ne dimostrava 70. Quando ottenne il permesso di lavorare, cominciò a girare di fattoria in fattoria, ovunque ce ne fosse bisogno. Più tardi sacerdoti e passionisti gli trovarono lavoro come domestico in vari santuari e monasteri, per ultimo il convento dei cappuccini di Macerata. Morì senza conoscere donna, a 89 anni.
mercoledì 25 luglio 2012
domenica 22 luglio 2012
mercoledì 18 luglio 2012
A Re Conchobar
A Re Conchobar
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Choncobuir, cid no taí,
do-rurmis dam brón fo chaí? Is ed ám; cein no mair do serc lim níba romáir. |
Conchobar, che cosa vuoi? Tu che mi gravasti di dolore e di pena? Davvero: se anche a lungo vivessi mai avrei vero amore per te. |
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In rop áilliu lim fo nim
ocus in rop inmainim; ruccais úaim mór in bét, connách aicciu co m'éc. |
Colui che sotto il cielo era più
bello, e colui che più mi era caro, tu mi strappasti (grave misfatto) e non lo rivedrò fino alla morte. |
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A ingnais is torsi lemm
tucht do-m-adbat mac Uislenn; caurnán círdub tar corp n-gel ba suachnid sech ilar †mban [fer?]. |
Davvero pesante è l'assenza di lui, del viso che il figlio di Uisliu mostrava; nerissime rocce sul candido corpo; tra folle di donne [uomini?] egli eccelleva. |
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Dá gruad
chorcra cainiu srath, béoil deirg, abrait fo daildath; déthgein némanda fo lí amail sóerdaith snechtaidi. |
Due
guance arrossate più belle dei prati,
le labbra vermiglie, le ciglia corvine, le file di denti che eran gioielli, splendenti di puro biancore di neve. |
giovedì 12 luglio 2012
I Santi taumaturghi e le malattie mentali
I Santi taumaturghi e le malattie mentali |
Nel Medioevo la perdita
delle antiche certezze e l’angosciosa ricerca di verità e conoscenza portarono
l’arte medica a percorrere nuove strade per il raggiungimento del sapere; ma per
quanto riguarda la cura delle malattie mentali si assiste ad una involuzione del
pensiero medico: infatti i disturbi della sfera psichica sono relegati nell’area
religiosa con la conseguenza che gli interventi terapeutici diventano oggetto di
esame e cura esclusiva dei ministri della fede. La follia era ritenuta un vizio
giustificato dall’intervento del demonio; così per cacciare il maligno
dall’anima, gli amuleti e le terapie usati nell’antichità vengono sostituiti con
altri riti religiosi come il segno della croce, l’aspersione dell’acqua
benedetta, l’intercessione dei Santi Taumaturghi. I santuari in cui si
conservano le reliquie dei Santi considerati protettori delle malattie nervose,
diventano meta continua di pellegrinaggi per ottenere la guarigione. Nei
trattati di medicina si tenta comunque di dare alcune spiegazioni dei diversi
turbamenti cerebrali: a seconda della gravità del disturbo, i folli vengono
sottoposti a percosse e ad esercizi coercitivi. Un esempio significativo dei
medicamenti più comuni per la cura delle malattie mentali è il trattato di Pietro Ispano (1226-1277) conosciuto sotto
il nome di THESAURUS PAUPERUM. In un’epoca in cui
dilagava la terapia preziosa con l’utilizzo dell’oro e delle pietre preziose,
Ispano cercò di fornire un manualetto di rimedi a poco prezzo, facili da trovare
e alla portata di tutti. Si trattava di una medicina empirica ma non certo
immune da credenze superstiziose. La carne del lupo, per es., era considerata un
toccasana per guarire i “ fantastici “ ma nei casi di pazzia conclamata, l’unica
cura possibile era l’esorcismo; convinzione ancora radicata nel Seicento in una
parte dell’ambiente medico, sicuro che questo tipo di malattia fosse da
imputarsi a possessioni demoniache. Secondo la medicina popolare, la malattia proveniva da forze malvagie provocata dall’invidia e dal malocchio o conseguenza dell’ira divina per i peccati commessi. In questi casi si ricorreva all’opera del guaritore dotato di “fluido benefico” o al mago capace di interrogare le stelle e creare amuleti apotropaici. A tale riguardo segnaliamo che forse l’amuleto apotropaico più famoso è l’Occhio di Santa Lucia; indossato, portato al collo o inserito nei brevi scaccia il “mal occhio” ( è una conchiglia che sezionata assomiglia ad un occhio). Quando il medico, l’erborista, la medichessa, il guaritore o il mago avevano fallito, al poverino non rimaneva che affidarsi con fiducia all’intercessione di qualche Santo Taumaturgo specializzato nella guarigione del suo disturbo. La fede riposta nelle immaginette devozionali (santini), nelle medagliette sacre, negli scapolari o nei “ brevi” sono una antica usanza pagana, frutto di superstizione, che opera un potente effetto “placebo” portando al miglioramento dei disturbi nervosi e talvolta, producendo il “miracolo”. I brevi, o brevetti, sono dei sacchetti di stoffa contenenti frammenti di pane, canfora, cenere di olivo, immagini sacre ecc. Ma spesso la vera fede cede il passo a pratiche magico-religiose come per es., l’usanza legata ai talismani eduli (edulus, commestibile). Queste piccole immagini sacre raffigurate su sottilissimi foglietti di carta erano chiamati dal popolo “ bocconcini “ , perché venivano mangiati in caso di malattia. |
lunedì 9 luglio 2012
Almalberga
Antichissima era la tradizione di questo nome tra gli Ostrogoti, tanto che la
loro dinastia era appunto quella degli ‘Amali’. Il nome è attualmente scomparso,
mentre si è molto diffusa la forma abbreviata di ‘Amalia’.
Di s. Amalberga ve ne sono tre, di cui due contemporanee fra loro, e si festeggiano lo stesso giorno il 10 luglio, a volte anche sotto il nome di ‘Amalia’.
S. Amalberga vergine, secondo una ‘Vita’ scritta da un monaco dell’abbazia di S. Pietro di Gand, era nata nelle Ardenne, nella ‘villa Rodingi’ (Belgio), allevata a Bilsen da santa Landrada e avrebbe ricevuto il velo monacale da s. Willibrordo.
Visse tra il VII e l’VIII secolo; trascorse i suoi ultimi anni nella cittadina di Tamise, dove morì nella seconda metà del secolo VIII ed a Tamise fu sepolta. Un secolo dopo le sue reliquie furono traslate nel monastero di S. Pietro di Gand (Belgio), dove furono solennemente esposte nel 1073.
Di lei parla anche un diploma di Carlo il Calvo imperatore (823-877), che in data 1° aprile 870, attesta che le reliquie di s. Amalberga vergine, erano conservate in quel tempo, dai monaci di S. Pietro di Monte Blandino a Gand. La festa si celebra il 10 luglio.
Dell’altra s. Amalberga detta di Maubeuge, le notizie pervenutaci e redatte da un monaco di Lobbes, sono ritenute in gran parte leggendarie e non affidabili. Nacque a Saintes (Brabante) nei Paesi Bassi, fu sposa di Witger e madre di Emeberto (che diverrà poi vescovo di Cambrai) e delle sante Reinalda e Godula.
Amalberga, dopo la nascita di Godula e dopo che suo marito era morto, lasciò il mondo per abbracciare la vita religiosa a Maubeuge; ella avrebbe ricevuto il velo monastico dalle mani di s. Oberto e sarebbe morta alla fine del secolo VII.
Da Maubeuge il suo corpo fu trasportato all’abbazia di Lobbes (Hainaut) attuale Belgio. La sua festa si celebra il 10 luglio.
Di s. Amalberga ve ne sono tre, di cui due contemporanee fra loro, e si festeggiano lo stesso giorno il 10 luglio, a volte anche sotto il nome di ‘Amalia’.
S. Amalberga vergine, secondo una ‘Vita’ scritta da un monaco dell’abbazia di S. Pietro di Gand, era nata nelle Ardenne, nella ‘villa Rodingi’ (Belgio), allevata a Bilsen da santa Landrada e avrebbe ricevuto il velo monacale da s. Willibrordo.
Visse tra il VII e l’VIII secolo; trascorse i suoi ultimi anni nella cittadina di Tamise, dove morì nella seconda metà del secolo VIII ed a Tamise fu sepolta. Un secolo dopo le sue reliquie furono traslate nel monastero di S. Pietro di Gand (Belgio), dove furono solennemente esposte nel 1073.
Di lei parla anche un diploma di Carlo il Calvo imperatore (823-877), che in data 1° aprile 870, attesta che le reliquie di s. Amalberga vergine, erano conservate in quel tempo, dai monaci di S. Pietro di Monte Blandino a Gand. La festa si celebra il 10 luglio.
Dell’altra s. Amalberga detta di Maubeuge, le notizie pervenutaci e redatte da un monaco di Lobbes, sono ritenute in gran parte leggendarie e non affidabili. Nacque a Saintes (Brabante) nei Paesi Bassi, fu sposa di Witger e madre di Emeberto (che diverrà poi vescovo di Cambrai) e delle sante Reinalda e Godula.
Amalberga, dopo la nascita di Godula e dopo che suo marito era morto, lasciò il mondo per abbracciare la vita religiosa a Maubeuge; ella avrebbe ricevuto il velo monastico dalle mani di s. Oberto e sarebbe morta alla fine del secolo VII.
Da Maubeuge il suo corpo fu trasportato all’abbazia di Lobbes (Hainaut) attuale Belgio. La sua festa si celebra il 10 luglio.
mercoledì 27 giugno 2012
Cirillo è per la chiesa romana un santo
Uccidete Ipazia
Piergiorgio Odifreddi. «E il vescovo ordinò: “Uccidete Ipazia”, la prima matematica della storia. Inventò l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio. Fu la vittima del conflitto tra fede e ragione». La Stampa, sabato 21 agosto 1999, supplemento tutto Libri tempo Libero pagina 5.
Se ragione e fede costituiscono i due binarî paralleli lungo i quali si è mossa la storia dell’Occidente negli ultimi duemila anni, i testi che meglio ne rappresentano l’immutabile distanza sono gli Elementi di Euclide e la Bibbia, le due summe del pensiero matematico greco e della mitologia religiosa ebraico-cristiana, la cui efficacia ispirativa è testimoniata dall’incredibile numero di edizioni raggiunte da entrambi (duemila, una media di una all’anno dalla prima “pubblicazione”).L’episodio più emblematico della contrapposizione fra le ideologie che si rifanno ai due libri accadde nel marzo del 415, quando un assassinio impresse, come disse Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, «una macchia indelebile» sul cristianesimo. La vittima fu una donna: Ipazia, detta “la musa” o “la filosofa”. Il mandante un vescovo: Cirillo, patriarca di Alessandria d’Egitto.
Il contesto storico in cui l’avvenimento ebbe luogo è il periodo in cui il cristianesimo effettuò una mutazione genetica, cessando di essere perseguitato con l’editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l’editto di Teodosio nel 380, e iniziando a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri “pagani”.
Gli avvenimenti ad Alessandria precipitarono a partire dal 412, quando divenne patriarca il fondamentalista Cirillo. In soli tre anni il predicatore della religione dell’amore riuscì a fomentare l’odio contro gli ebrei, costringendoli all’esilio. Servendosi di un braccio armato costituito da monaci combattenti sparse il terrore nella città e arrivò a ferire il governatore Oreste. Ma la sua vera vittima sacrificale fu Ipazia, il personaggio culturale più noto della città.
Figlia di Teone, rettore dell’università di Alessandria e famoso matematico egli stesso, Ipazia e suo padre sono passati alla storia scientifica per i loro commenti ai classici greci: si devono a loro le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell’Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione.
In un mondo che ancora oggi è quasi esclusivamente maschile, Ipazia viene ricordata come la prima matematica della storia: l’analogo di Saffo per la poesia, o Aspasia per la filosofia. Anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ma Ipazia fu anche l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, oltre che la principale esponente alessandrina della scuola neoplatonica.
Le sue opere sono andate perdute, ma alcune copie sono state ritrovate nel Quattrocento; per ironia della sorte, nella Biblioteca Vaticana cioè in casa dei suoi sicari. Le uniche notizie di prima mano su di lei ci vengono dalle lettere di Sinesio di Cirene: l’allievo prediletto che, dopo averla chiamata «madre, sorella, maestra e benefattrice», tradì il suo insegnamento e passò al nemico, diventando vescovo di Tolemaide.
Il razionalismo di Ipazia, che non si sposò mai a un uomo perché diceva di essere già «sposata alla verità» costituiva un controaltare troppo evidente al fanatismo di Cirillo. Uno dei due doveva soccombere e non poteva che essere Ipazia: perché così va il mondo, nel quale si diffondono sempre le malattie infettive e mai la salute.
Aggredita per strada, Ipazia fu scarnificata con conchiglie affilate, smembrata e bruciata. Oreste denunciò il fatto a Roma, ma Cirillo dichiarò che Ipazia era sana e salva ad Atene. Dopo un’inchiesta, il caso venne archiviato «per mancanza di testimoni». La battaglia fra fede e ragione si concluse con vincitori e vinti, e il mondo ebbe ciò che seppe meritarsi.
Come si vede, già i puri fatti sono sufficienti a imbastire un discreto romanzo, come ha fatto Caterina Contini in Ipazia e la notte. Se poi questi fatti sono riconosciuti con attenzione psicologica e filosofica, e narrati con scrittura dolce e ispirata, allora diventa ottimo, e permette alla figura di Ipazia di stagliarsi luminosa nel buio della notte che la inghiottì insieme alla verità, sua sposa.
domenica 10 giugno 2012
10 Giugno 1692 :viene uccisa la prima strega di Salem
Le streghe di Salem
Cotton
Mather nel 1688, aveva investigato lo strano comportamento di quattro ragazzi
di Boston, che erano stati presi da convulsioni arrivando perfino a gridare in
coro. Cotton concluse che stregonerie praticate da una lavandaia irlandese,
Mary Glover, erano responsabili dei problemi dei ragazzi. Presentò tali
conclusioni nel suo trattato sull’argomento "Memorable Providences." Cotton era così convinto della presenza della stregoneria
da dichiarare che si sarebbe subito spazientito con chiunque avesse osato
negare l'esistenza dei diavoli o delle streghe. Nel gennaio 1692, due
bambine di Salem (nel Massachusetts), Elizabeth Parris ed Abigail Williams,
iniziarono a comportarsi in modo strano, bestemmiavano, avevano attacchi
epilettici e stati di trance. Dopo pochi giorni questo comportamento si estese
ad altre ragazze della città. Vista l'impossibilità dei medici di diagnosticare
il tipo di malattia, il padre di Elizabeth, il pastore Samuel Parris, trovò
delle similarità tra l'episodio della figlia e quello descritto nel libro di
Cotton Mather e accettò la discutibile tesi di un medico locale che quanto
stava accadendo era opera di Satana. Ben presto la schiava caraibica di Parris,
Tituba e altre due donne, la mendicante Sarah Good e l'anziana e litigiosa
Sarah Osborne, vennero accusate di praticare stregoneria, ma mentre queste
ultime due protestarono la loro innocenza, Tituba peggiorò la sua situazione,
riferendo di incontri con un uomo alto di Boston (ovviamente Satana per i
giudici) e dell'esistenza di una cospirazione di streghe a Salem. Tra marzo e
giugno, il caso si aggravò, centinaia di persone furono accusate di stregoneria
e decine furono imprigionate per mesi senza processo. Il governatore Phips
decise di istituire un tribunale per decidere sul caso, Cotton Mather riuscì ad
influenzare il parere di tre giudici suoi amici e membri della sua
congregazione, sui cinque preposti ad organizzare i processi. Mather scrisse
una lettera ad uno dei tre giudici, John Richards, suggerendogli come dovessero
essere raccolte le prove di accusa, in particolare Mather consigliava di
prendere in seria considerazione le “prove dello spettro” (testimonanzia di una
vittima delle streghe che affermava di essere stata attaccata da uno spettro
con le sembianze della strega) e ritenere la confessione delle streghe la
migliore prova possibile. La prima vittima fu Bridget Bishop, un'anziana
donna accusata di mandare in giro il proprio fantasma per tormentare le persone
e di potersi trasformare in un gatto: Bridget fu impiccata il 10 giugno 1692. Il
4 agosto del 1692, Mather predicò affermando che il Giudizio Finale era alle
porte, e presentava se medesimo come Giustiziere Capo e il Governatore Phips come
capitano dell’attacco finale contro le legioni di Satana.
Seguì un'impiccagione di cinque donne il 19 luglio, tra cui una
pia donna, tale Rebecca Nurse, in un primo momento assolta, ma successivamente
condannata a causa d'indegne pressioni da parte dei giudici sulla giuria. Persero
la vita sia John Proctor, un taverniere intransigente contro la stregoneria,
che l'ex pastore del villaggio, George Burroughs, che si difese strenuamente,
protestandosi innocente fino all'ultimo e dimostrando il 19 agosto, davanti
alla forca, di conoscere il Padre Nostro perfettamente (si supponeva che le
streghe non fossero in grado di recitarlo): solo l'intervento dell'implacabile
Cotton, giunto appositamente sul luogo, potè far proseguire l’esecuzione, affermando
non solo che non era possibile ritornare sulla decisione della giuria ma anche
che spesso il Diavolo poteva trasformarsi in un Angelo di Luce.
Una sola vittima non fu impiccata, si trattava dell'ottantenne
Giles Corey, il quale si rifiutò di farsi processare. Fu deciso di farlo schiacciare
da pesanti lastre di pietra, e tre giorni dopo, la moglie e altre otto presunte
streghe furono impiccate. Furono le ultime vittime di questo attacco di isteria
collettiva: in tutto furono uccise 20 persone e altre 4 morirono in carcere.
Nell’autunno
dello stesso anno, la voglia di trovare streghe cessò di colpo e iniziarono a
circolare lavori che criticavano i metodi addottati nel processo e perfino il
padre di Cotton, Increase Mather scrisse un lavoro intitolato Cases of
Conscience (casi di coscienza), nel quale affermò che era meglio che dieci
presunte streghe fossero rilasciate piuttosto che un innocente fosse
condannato. A Mather furono affidate le registrazioni del processo di Salem,
per preparare un libro “Wonders of the Invisible World”, che i giudici
speravano avrebbe messo un luce favorevole il loro operato, a cui fece seguito la
pubblicazione nel 1700 del More wonders from the invisible world (altre
meraviglie dal mondo invisibile) del mercante di tessuti Robert Calef
(1648-1719), il quale dipinse l'operato di Cotton Mather come così
spietatamente crudele e palesemente tendenzioso che a quest'ultimo fu negata la
presidenza di Harvard e a nulla servì il rogo pubblico (nel cortile del college
di Harvard) di questo libro, organizzato dal padre di Cotton. A nulla servirono
le proteste di Cotton che professava di avere sposato la cautela del padre nel
consigliare ai giudici del processo di non attribuire molto spazio alla “prova
dello spettro”, cercando in tal modo di minimizzare il proprio ruolo negli
eventi accaduti.
mercoledì 6 giugno 2012
lunedì 28 maggio 2012
BANSHHE(mitologia irlandese)
Banshee
________________________________________
La Banshee è uno spirito femminile .Durante le lunghe notti dell’inverno irlandese questa fata usava emettere dolorosi lamenti che erano presagi infallibili di disastri, sia ad una singola famiglia otalvolta ad un intero villaggio..
Banshee appare vestita di verde, indossa un mantello grigio sul suo corpo avvizzito, con lunghi capelli scarmigliati e occhi rossi di pianto. E 'raffigurata sia come una giovane donna e come una vecchia,ma. la sua caratteristica più comune è il lamento luttuoso durante il quale ha sentito ma non visto.
E’ infatti il “sentire”e non il vedere che caratterizza la capacità predittiva della Banshee.
Il termine Banshee attuale deriva dal gaelico Bean Sidhe (Bean Si), che significa 'donna di fata'. In Scozia il Nighe Bean o lavandaia al guado soddisfa le stesse caratteristiche, lavare i vestiti di coloro che stanno per morire. In Galles il ruolo è presa dal Gwarach-y-rhibyn , una strega orrenda che infesta anche antiche famiglie gallesi.
Le onde nere si infrangevano sulle rocce alte della costa.
Il villaggio era appoggiato sulle sponde alte della collina.
Una ventina di case,ma più che case capanne di fango pressato con tetti di paglia spioventi a toccare la terra.
Il silenzio riempiva l’aria.
Fiammelle guizzanti spruzzavano il buio ad ogni piccola finestra.
Il popolo di Yunglee si preparava alla cena.
La casa di Erwinn era l’ultima della fila di costruzioni,le sue piccole finestre si aprivano sulla baia.Nelle giornate limpide di prima estate ,quando il vento del nord spazzava via ogni nube od ombra dal cielo,si potevano vedere le isole Aran,dove coloro che scesero dal cielo ,avevano riposato prima di giungere alla terra verde.
“Il mare si gonfia”La giovane moglie sistemò la ciotola di legno sul tavolo:dentro la zuppa calda fumava.
“Il mare si gonfia”Confermò Erwinn.
Mettendosi seduto accarezzò il ventre gonfio e teso della donna.
Se Eosta avesse gettato il suo sguardo sulla casa ,il bambino poteva nascere prima dello Yule.
Allora la festa sarebbe stata grande e avrebbero bevuto il sidro e mangiato carne di pecora.
Erwinn amava sua moglie di un amore tenero e assoluto.La sua bellezza lo intimidiva ancora ,dopo anni dalla prima volta che l’aveva vista.
Era primavera e lui stava rammendando le reti.
Aveva alzato gli occhi verso il sentiero che saliva al villaggio e l’aveva vista.
Seduta dietro il carro,i capelli lunghi raccolti in una treccia da cui sfuggivano riccioli ribelli,la pelle bianca cosparsa di lentiggini color dell’oro e due occhi verdi che scaldavano il cuore.
Veniva al villaggio con il padre,un commerciante di pelli di lepre che faceva buoni affari con le donne dei villaggi.
Aveva capito da subito che non sarebbe più vissuto senza di lei,ma non osava farsi avanti con una donna così bella e giovane,lui ,un pescatore che sapeva di pesce lontano tre miglia,i capelli rossi arruffati dalla salsedine,le mani spaccate dall’acqua fredda,i poveri vestiti,la misera capanna.
Ma la ragazza lo aveva guardato e gli aveva sorriso ,scoprendo piccoli denti irregolari che la facevano sembrare un topino.
Tre estati e tre inverni erano trascorsi ,prima che Erwinn trovasse il coraggio di chiederla al padre.
Aveva costruito una casa più grande usando parte del vecchio ovile e aveva tinto la sua barca di un verde intenso come gli occhi del suo amore.
Al matrimonio aveva partecipato tutto il villaggio ed erano venuti anche dalle fattorie dell’interno.
Le ginke avevano riempito l’aria per un giorno e una notte e le ragazze avevano ballato fino a gonfiarsi i piedi.
Lei lo aveva guardato per tutto il tempo e aveva volteggiato intorno a lui muovendo i piccoli piedi con l’agilità di un capriolo.
Nessun amore in nessuna parte della terra verde poteva mai essere stato più grande del loro.
A questo ripensava,la testa china sulla sodella di legno ,mentre lentamente mangiava la sua zuppa.
Suo nonno,che era stato pescatore prima di lui e di suo padre,e che era anche un uomo quercia e conosceva di erbe e di cure,diceva che il mangiar lento riempie più a lungo lo stomaco e il sapore del cibo
Rimane più a lungo nell’anima.
Lontano un suono di flauto immalinconiva confondendosi con il soffio del vento che faceva tremare la fiamma del cammino.
La moglie si accarezzava il ventre cullando il bambino .
Fu un attimo,improvviso,una frazione di tempo :lei alzò gli occhi verso la finestra e tra la luce della candela vide ,riflessa nel vetro la faccia della ragazza.
Aveva capelli lunghi e sciolti,scarmigliati e attorcigliati intorno al viso come serpentelli di fiume.Gli occhi,obliqui e stretti come quelli di una lucertola parlavano di una tristezza infinita.
Fu un momento,uno solo e il cuore le si fermò.Aprì la bocca a chiamare il marito,ma l’immagine era sparita e pensò di aver immaginato,sognato ad occhi aperti come spesso le accadeva nella sua solitudine.
Tornò ad accarezzare il bambino e distese la gamba a toccare quella di Erwinn.
La mattina il villaggio fu sveglio assai prima dell’alba.
Scesero tutti ,donne ,bambini assonnati avvolti in pelli di capra e vecchi a veder partire gli uomini per la pesca.
Il mare era nero e le onde si buttavano con violenza contro l’arenile :nell’oscurità si vedeva il bianco della spuma che si innalzava e ricadeva spruzzando intorno perle di acqua gelida.
Gli uomini cominciarono a far scendere le barche incitati dal canto di Gor Ai Tu ,il più anziano di loro.Il canto parlava della pesca miracolosa che era stata fatta nella notte dei tempi sotto la guida di coloro che scesero dal cielo e che avevano insegnato agli uomini come costruire barche che affrontassero il mare.
A gruppi di tre o quattro saltavano sulle barche ,appena queste erano completamente in acqua.
Le imbarcazioni rollavano,si inclinavano,sembravano sparire sotto ogni onda.
Poi presero il largo,nel buio profondo scomparirono ad una ad una e solo il canto ,forte che pareva salire nel cielo che si schiariva appena,si continuò a sentire per minuti.
In silenzio le donne presero i più piccoli in braccio e si incamminarono verso le case.I vecchi rimasero ancora ,chiudendo gli occhi per cercare di vedere le barche nel mare.
Passò tutta la giornata:ognuno occupato nei soliti lavori.
I bambini aiutavano le donne con piccole incombenze e per loro era l’unico gioco.
Alle sette di sera ,che il sole era tramontato già da ore nessuna barca era tornata.
Tornarono alla baia,dove la mattina i pescatori erano partiti.
Si misero così,in piedi le donne,i bimbi intorno,i vecchi dietro,a fissare il mare sempre più grosso ,come se il guardare aiutasse gli uomini a tornare.
La giovane moglie di Erwinn guardava invece verso la collina come se un richiamo antico e conosciuto la guidasse.
Un dolore infinito le pesava nel petto soffocando ogni respiro.
Il lamento acuto ,lancinante riempì l’aria :non era un grido,non era un urlo:era una musica di angoscia .
Fu come se la morte cantasse .
Si fermarono i gabbiani ad udire quel canto che copriva il rumore della tempesta.
I vecchi chinarono la testa ed ogni cosa fu piena del nulla.
mercoledì 25 aprile 2012
Cantarono i poeti
Cantarono i poeti
Potevano
I poeti scrivere
con i corpi dilaniati dei ragazzi,
viscere aperte
proiettili a perforare i cervelli
lame a straziare?
Potevano
I poeti scrivere
con donne violate e torturate
cuori grondanti di sangue?
Potevano i poeti cantare i loro versi
Con bimbi dentro cancelli d’orrore
E vecchi attoniti senza ricordi?
Eppure scrissero
I poeti
E riempirono di suoni
Il vuoto del tempo confuso del putrido odore
Della violenza.
Ora
I poeti
Scrivono d’amori infelici
Di piegate passioni
Di sogni infranti
Si voltano
Sdegnosi
Alla mesta e dolorante miseria.
Susanna Berti Franceschi Copyright
domenica 22 aprile 2012
martedì 17 aprile 2012
MARIA BAKUNIN
«Marussia per gli amici, la Signora per gli altri» [Nicolaus, 2003, p.29], come la ricorda il Professor Alessandro Rodolfo Nicolaus, suo allievo all’Università di Napoli, è la terzogenita del filosofo e rivoluzionario russo Michail Bakunin (1814-1876). Nata in Siberia il 2 febbraio 1873, alla morte del padre, avvenuta a Berna nel 1876, segue a Napoli la famiglia accolta dall’avvocato socialista Carlo Gambuzzi, che sposa la madre.
I fratelli Bakunin frequentano il Liceo classico Umberto I; Carlo si dedica agli studi di ingegneria, Giulia Sofia si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Napoli nel 1893, mentre Maria intraprende gli studi di chimica nella stessa università. Già “preparatore” all’Istituto di chimica dal 1890, si laurea nel 1895 con un lavoro Sugli acidi fenil-nitrocinnamici e sui loro isomeri stereometrici.
Pochi anni dopo sposa Agostino Oglialoro-Todaro (1847-1923), direttore dell’Istituto, di cui era diventata collaboratrice. Nel 1909 inizia ad insegnare chimica applicata alla Scuola superiore politecnica di Napoli e nel 1912 vince il concorso di professore ordinario per la cattedra di chimica tecnologica applicata presso la medesima scuola. Nel 1940 si trasferisce alla cattedra di chimica organica della Facoltà di scienze dell’Università di Napoli dove lavora fino al 1947. Nel 1949 le viene conferito il titolo di “professore emerito”.
Maria Bakunin svolge le sue ricerche prevalentemente nei campi della sterochimica e della fotochimica. Nell’ambito della chimica applicata, all’interno di un progetto del Ministero della pubblica istruzione per una mappatura geologica del territorio nazionale, si occupa tra il 1909 e il 1910 degli scisti bituminosi dell’Italia meridionale. Compie studi preliminari nella catena montuosa di Karvedel in Tirolo, dove già dall’Ottocento venivano sfruttati i giacimenti di scisti bituminosi per la produzione di ittiolo, un olio di origine fossile che veniva utilizzato a fini medicinali; si interessa quindi dei giacimenti di scisti nei Monti Picentini, nella provincia di Salerno, lavorando per alcuni anni come consulente del Comune di Giffoni Valle Piana per lo sfruttamento industriale dei giacimenti locali e la produzione di ittiolo. Nel 1925 partecipa al secondo congresso di chimica pura ed applicata a Palermo, portando un contributo sugli scisti siciliani dei Monti Peloritani.
Donna dalla forte personalità e dal carattere deciso, estremamente popolare nell'ambiente napoletano, Maria Bakunin è una figura di rilievo non solo per la sua figura di scienziata e di "maestra" temuta e stimata, ma anche per il ruolo di direzione di varie istituzioni scientifiche. Nel 1919 diviene vice presidente della Sezione di chimica di Napoli, di cui faceva parte fin dal 1912, anno in cui era stata fondata sotto la presidenza di Arnaldo Piutti (1857-1928). Nel 1932 viene eletta presidente della sezione di scienze fisiche e matematiche della Società di scienze, lettere ed arti di Napoli (1932-1952); socia dell’Accademia pontaniana fin dal 1905, ne assume la presidenza per un mandato nel 1944, alla sua riapertura dopo la sospensione sotto il fascismo. È la prima donna socia dell’Accademia nazionale dei Lincei nella classe delle scienze fisiche nel 1947. La sua fama cittadina è legata alla difesa del "suo" Istituto di chimica durante la Seconda guerra mondiale; come ricorda Nicolaus, «quando i tedeschi misero a fuoco le biblioteche di via Mezzocannone, la Bakunin si sedette in prossimità delle fiamme incrociando le braccia. Il tenente tedesco comandante, stupefatto da tanto coraggio, dette ordine di ritirarsi e i danni furono meno gravi» [Nicolaus, 2003, p. 30]. Maria ha un ruolo importante anche nella vita – personale e professionale – del nipote a cui era molto legata, il noto matematico Renato Caccioppoli (1904-1959) figlio di Giulia Sofia e del chirurgo napoletano Giuseppe Caccioppoli (1852-1947): nel 1938 interviene presso le autorità per impedirne l’arresto per attività antifascista.
Muore nella sua abitazione in via Mezzocannone a Napoli nel 1960.
venerdì 13 aprile 2012
lunedì 9 aprile 2012
Santa Casilda di Toledo Vergine
9 aprile
Toledo-Briviesca (Spagna), secolo XI
Casilda è una giovane musulmana, figlia del governatore di Toledo, l'allora capitale religiosa della Spagna, che gli Arabi hanno conquistato nel 711, e che resterà in mano musulmana fino al 1085. (Secondo certi racconti, suo padre sarebbe addirittura «re» di Toledo). In città tutti conoscono la ragazza per la sua generosità, e soprattutto perché è sempre pronta a soccorrere i cristiani prigionieri, porta soccorsi, e insospettisce suo padre, che comincia a farla controllare. Un giorno la sorprendono mentre porta del pane a quegli infelici; ma, al momento della perquisizione, le pagnotte che porta con sé si trasformano in rose. Accade poi che Casilda sia colpita da una malattia misteriosa, che nemmeno i più famosi medici arabi del tempo riescono a curare. Consigliata dai suoi amici cristiani, lei si fa portare nella zona di Burgos, a Briviesca, per immergersi nell'acqua della fonte San Vincente. Quell'acqua la guarisce, e Casilda decide di farsi cristiana. Ma senza clamore: ricevuto il battesimo, abbandona la vita della città e dei palazzi, scegliendo la condizione anacoretica. Si ritira cioè in un eremo, come ha sentito raccontare che facessero gli antichi Padri del deserto. E nel suo eremo rimane fino alla morte. )
La vergine spagnola Casilda (Casilla) visse probabilmente nell’XI secolo; i primi documenti storici che parlano di lei, risalgono però al XV secolo; il culto fu abbastanza popolare anche se le biografie successive riportano fatti incredibili.
Eliminando gli episodi leggendari, si può dire che Casilda, figlia dell’emiro di Toledo al-Mamun (ma secondo altri, figlia del governatore di Cuenca, Ben Cannon), fu educata nella religione musulmana, nonostante ciò, sin dalla prima giovinezza mostrò compassione verso i cristiani imprigionati dal padre, aiutandoli come poteva.
Siamo al tempo della dominazione araba in Spagna; un giorno si ammalò e non avendo fiducia nei medici arabi, decise di recarsi in pellegrinaggio al santuario di S. Vincenzo di Briviesca (Burgos), molto celebre per le sue acque, ritenute prodigiose, cui facevano uso i pellegrini specie quelli affetti da emorragie.
Anche Casilda guarì, decidendo poi di farsi cristiana e di condurre una vita solitaria e penitente presso la fonte miracolosa che in seguito prese il suo nome.
La vergine penitente visse molti anni, si dice centenaria; l’anno della sua morte non è stato possibile individuarlo; il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Vincenzo.
Il 21 agosto del 1750 le sue reliquie ebbero una solenne traslazione in un nuovo santuario. La sua festa liturgica si celebra il 9 aprile.
Artisti famosi per lo più spagnoli, come il Murillo, Zurbarán, Bayeu y Subias, la raffigurano vestita con gli abiti sontuosi e regali, della loro epoca.
sabato 31 marzo 2012
BERGEN BELSEN
Sentono
Gli uccelli
La stagione che passa,
tra un vento
che balla tra i rami,si staccano,con rapidi guizzi,
le foglie
e ,lente,ondeggiano.
Vola alta
La poiana
Con il suo dolore senza fine.
E noi,come foglie staccate
Dal ramo,ondeggiammo e
cademmo.
E,quando il cancello,
con inavvertito rumore,
si apri,
a noi rimase solo il ricordo
di quella ,inestinguibile,
morte di vivi.
Susanna Berti Franceschi
riproduzione riservata
giovedì 29 marzo 2012
domenica 18 marzo 2012
Chirurghi ma anche patrioti Quei medici che salvarono la gamba dell?eroe Garibaldi
yyA conclusione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, il Complesso del Vittoriano di Roma ospiterà fino al 6 maggio la mostra "Il 150° si racconta. Le manifestazioni celebrative" che, attraverso foto, filmati, documenti, oggetti, ripercorre le molteplici iniziative, le grandi mostre, gli eventi speciali, le manifestazioni musicali, le rappresentazioni teatrali, le pubblicazioni, i discorsi istituzionali dell'anno celebrativo. La mostra al Vittoriano resterà aperta ogni giorno dalle 9.30 alle 18.30 (la domenica e i festivi fino alle 19.30). di Gian Ugo Berti wPISA Il vero problema era che la pallottola non si trovava. Un primo tentativo d'estrarla da parte dei medici presenti all'Aspromonte (Enrico Albanese, Pietro Ripari e Giuseppe Basile)aveva avuto esito negativo. Da quel momento, altri sedici colleghi s'avvicendarono al capezzale di Garibaldi negli 86 giorni che seguirono, fino alla ormai insperata soluzione. Tutti volevano evitare il taglio dell’arto ma nessuno prendeva una decisione concreta, nonostante che fosse Garibaldi stesso a dire: «Se necessario, amputate». Nessuno infatti se la sentiva d'aprire alla cieca, data forse anche l'importanza del paziente. In realtà, la pallottola, che era entrata all'altezza del malleolo interno destro, dopo aver bucato il calzone di panno, lo stivale e la calza di lana, s'era posizionata nelle strutture interne profonde della gamba ( i raggi X vennero scoperti solo trent'anni dopo) e la massa non era palpabile dalla visita esterna. D'altra parte, l'amputazione rappresentava l'intervento in uso per bloccare la gangrena, da eseguire rapidamente, spesso già sul campo di battaglia. Per Garibaldi, da quel 29 agosto 1862 iniziò un vero e proprio calvario, con la beffa che l'autore del ferimento fu involontariamente uno dei suoi garibaldini, il tenente Lucio Ferrari. Il Generale, fatto quindi prigioniero dall'esercito piemontese, fu portato in barella via mare sulla fregata Duca di Genova fino al carcere del Forte di Varignano a La Spezia, dove seguirono numerosi consulti clinici. Senza alcun intervento risolutore, però, la gamba gonfiava e s'infiammava ed inutili erano i linimenti apposti sulla ferita. La tumefazione dal malleolo destro interessò progressivamente tutta la gamba, provocando intenso dolore e febbre alta. Dopo le visite, fra gli altri, di Francesco Rizzoli di Bologna e Luigi Porta di Pavia, a sbloccare la situazione venne l'idea di un chirurgo napoletano, Ferdinando Palasciano, che suggerì d'ascoltare il parere del chirurgo francese Auguste Nélaton. Il consulto confermò l'ipotesi del proiettile ritenuto. Costretto però a rientrare d'urgenza a Parigi, Nélaton inviò ai colleghi italiani due speciali sondini da lui ideati: una piccola sfera di porcellana, usata proprio per individuare i proiettili nelle ferite, una novità assoluta per l'epoca. Introdotta infatti nella ferita, la pallina di porcellana della sonda, a contatto con il piombo del proiettile, s'anneriva, evidenziandone la presenza e la posizione. L'indagine diede i frutti sperati. Ed è a questo punto che entra in scena, la capacità operatoria di Zannetti. Il 23 novembre, a Pisa, il chirurgo pratica nel piede, ormai in pessime condizioni, un'incisione profonda quattro centimetri ed estrae una pallottola di carabina del peso di ben 22 grammi, evitando così l'amputazione. L'anno successivo, da Caprera,Garibaldi gli scrive: «La mia guarigione procede a gonfie vele … sono per la vita vostro di cuore». Eppure nel carteggio di Zannetti,esposto in una mostra rievocativa a Palazzo Medici Riccardi a Firenze, un Gesuita lo accusa d'aver curato un impostore ed un assassino, «…perché - si legge - un uomo che tradisce il suo re non merita altro che il titolo di assassino». Comunque a Firenze, in via Conti 1, per decreto del Comune una lapide ricorda: “Qui abitò ed ottuagenario morì, il 3 Marzo 1881, Ferdinando Zannetti, medico e chirurgo, senatore del Regno e fra i veterani delle patrie battaglie, presidente, degno di passare ai posteri per la scienza onorata sulla cattedra e per l'amore all'Italia”. Garibaldino fu anche Corrado Tommasi Crudeli, arruolatosi nei Cacciatori degli Appennini e poi nella spedizione dei Mille. Fu docente di Anatomia Patologica a Firenze ed autore della riforma sanitaria voluta dal primo ministro Francesco Crispi, nel 1988. Il suo Generale così gli espresse gratitudine: «Il vostro nome mi è noto come quello di uno dei valorosi giovani che hanno combattuto al mio fianco, riportando segni gloriosi delle battaglie combattute». Una fiducia ripagata con i decisivi interventi nei consulti medici al Varignano e a La Spezia, opponendosi decisamente all'ipotesi dell'amputazione. Garibaldi, nel ringraziarlo da Caprera, gli inviò la bandiera tricolore con il logo “Italia Libera”. Aderente alla Giovane Italia di Giuseppe Mazzini, poi combattente a Curtatone e Montanara ed infine garibaldino nelle Due Sicilie, Emilio Cipriani, fiorentino giunse anche alla carica di Senatore in Parlamento per tre legislature nel collegio elettorale di Firenze nel 1881. Grazie ai suoi studi universitari, meritò professionalmente di salire a dirigere, nell'Istituto di perfezionamento, la cattedra di Oculistica presso l'ospedale Santa Maria Nuova. Nella commemorazione in Parlamento il presidente dell'Assemblea, Sebastiano Tecchio, scrive: «Spetta ad Emilio Cipriani la gloria di avere, forse meglio che ogni altro, contribuito al ritrovamento del proiettile e quinci agevolato il prof. Ferdinando Zannetti che potè liberare da sì fiero nemico il piede offeso». «Non ho fatto abbastanza per l'Italia». Furono le ultime parole pronunciate da Leopoldo Pilla a Curtatone, colpito in pieno petto da una cannonata. Era giunto all'Università di Pisa, su chiamata del Granduca di Toscana, nel 1842, diventando uno dei maggiori esperti internazionali di geologia e mineralogia. I moti insurrezionali dell'epoca lo spinsero il 22 marzo ad imbracciare il fucile e partire, con il grado di capitano, comandante la prima compagnia, alla testa dei volontari del battaglione universitario. Infine, ma la lista sarebbe lunga, è da ricordare la figura e l'impegno di Atto Tigri, laureatosi a Pisa dove divenne assistente di Filippo Civinini. Attraverso le sue ricerche si cominciò a parlare di tubercolosi e colera. Come riferisce Luciano Sterpellone nel suo libro “Camici bianchi in camicia rossa”. A lui va forse il merito di aver scoperto, prima del tedesco Karl Joseph Eberth, il bacillo del tifo.
Riproduzione vietata Gian Ugo Berti
venerdì 16 marzo 2012
Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio
Sia Ottaviano, che ne era il nipote, che Antonio, il suo più fidato luogotenente, avrebbero voluto succedere al defunto Cesare. Per evitare di dover abbandonare la propria carica, Decimo Bruto, governatore della Gallia e cospiratore nella congiura, si schierò dalla parte di Ottaviano e del senato contro Antonio. Nel 43 a.C. si giunse allo scontro tra Antonio ed Ottaviano, con la guerra di Modena, al termine della quale Antonio, sconfitto, deve lasciare il potere ad Ottaviano. Ottaviano nel 43 a.C., per rafforzare la propria posizione, si alleò con Lepido ed Antonio, dando vita al secondo triumvirato.
Per vendicare la memoria di Cesare, nel 42 a.C. i protagonisti della congiura, Bruto e Cassio, sono sconfitti ed uccisi dai triumviri nella battaglia di Filippi. Rimasti soli a spartirsi il potere, i triumviri si organizzarono nel seguente modo: Ottaviano ebbe il governo della Spagna e delle isole, Lepido l'Africa ed Antonio la Gallia e l'Oriente. Fu proprio durante il suo soggiorno nella provincia d'Egitto che Antonio si innamorò di Cleopatra ed ebbe da lei tre figli ( Helios, Selene e Cesarione ). Nel frattempo Fulvia e Lucio Antonio - rispettivamente moglie e fratello di Antonio - scatenarono una rivolta che venne sedata con la guerra di Perugia, con cui nel 40 a.C. vennero costretti alla resa. Per scacciare il pesante sospetto di tradimento che pesava su di lui da parte di Ottaviano dopo quanto era appena accaduto, Antonio fu allora costretto a sposare - alla morte di Fulvia - Ottavia, la sorella di Ottaviano, e siglare l'accordo di Brindisi, perfezionato nel patto di Miseno nel 39 a.C.. Nel 36 a.C. Ottaviano si sbarazzò dei pirati di Sesto Pompeo a Naucolo.
Antonio nel 37 a.C. aveva infine sposato - senza ripudiare la moglie Ottavia - Cleopatra e stava favorendo i propri figli, attirandosi le ire di Ottaviano e degli ambienti più ostili alla "orientalizzazione" dello stato romano. Lo scontro tra Ottaviano ed Antonio fu inevitabile e nel 31 a.C., sconfitto da Ottaviano nella battaglia navale di Azio, Antonio cercò infine riparo in Egitto, dove si suicidò assieme a Cleopatra.
Con la vittoria di Azio, che segna anche il termine di quella che canonicamente è detta Epoca Ellenistica ed inaugura il dominio incontrastato di Roma ad Occidente ed a Oriente, Ottaviano trovò campo libero per mettere in atto - senza più oppositori - il proprio progetto politico. Era chiaro che - per quanto il senato e gli ambienti più conservatori ancora non riuscissero ad ammetterlo - la repubblica era ormai morta negli scontri che avevano visto contrapposti Mario e Silla, Cesare e Pompeo ed infine Antonio ed Ottaviano. Ormai bisognava riformare ampiamente lo stato ed Ottaviano, perfettamente consapevole del compito che lo aspettava, vi si accinse di buon grado, finendo per consegnare non solo ai cittadini romani "una città di marmo", da quella di legno che aveva trovato, ma anche una forma di governo, l'impero, che sarebbe durata ben oltre la sua morte.
domenica 11 marzo 2012
MARY SHELLEY
Quando Mary Shelley scrive il suo romanzo è influenzata dalle scoperte scientifiche avvenute all'inizio del diciannovesimo secolo. Proprio in questo periodo gli scienziati cominciarono a chiedersi seriamente se fosse possibile riportare in vita i morti e se la vita potesse tornare spontaneamente da materiale inorganico. Infatti, gli scienziati e i fisici del suo tempo, tormentati dalla sfuggente linea di separazione tra vita e morte, analizzando organismi minori e facendo esperimenti di anatomia umana, tentarono di resuscitare persone annegate o morte recentemente con delle scosse elettriche. L'autrice di Frankenstein segue soprattutto i principi di Galvani. Si capisce chiaramente che Mary Shelley è stata influenzata da questo scienziato dall'espressione "scintilla di vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi" usata per descrivere la nascita del mostro. In ogni modo, quando "Frankenstein" fu pubblicato, la parola galvanismo era implicitamente sulla bocca di tutti; infatti, l'elettricità era considerata una misteriosa forza vitale che aveva l'apparente capacità di ridare vita ai morti. La popolazione era talmente interessata ai principi galvanici che nel 1836 un cartone politico trattava di cadaveri "galvanizzati". Le persone, però, si preoccupavano anche del problema etico delle nuove scoperte; infatti, molti si chiedevano come sarebbe stata la psicologia degli esseri che si sarebbero potute creare con i principi di Galvani. Mary Shelley, grazie al suo libro, risponde a questi dubbi morali dando vita ad una creatura complicata in grado di parlare, leggere, pensare e soffrire; in questo modo supera immaginariamente il tanto sospirato confine tra vita e morte, e mette in guardia gli scienziati troppo ambiziosi sulle probabili conseguenze che potrebbe portare una "creatura di laboratorio", come il mostro cui Victor Frankenstein dà vita. Nel libro Frankenstein, il mostro, intelligente e sensibile, legge il romanzo scritto in poesia "Paradise Lost" (Paradiso Perduto) il cui autore è John Milton. L'orribile creatura si riconosce nelle forti emozioni descritte dal libro; infatti paragona la sua situazione a quella di Adamo, ma il mostro non "è nato dalle mani di Dio come una creatura perfetta", l'essere di Victor è creato orrendamente. Abbandonato dal suo creatore, il mostro si sente sciagurato, inutile e solo. Mary Shelley vuole far capire che dare vita ai morti è una cosa macabra; infatti decide di prendere dei pezzi di corpi differenti per poi legarli insieme (invece di prendere semplicemente un unico corpo), non solo per facilitare il lavoro di Victor Frankenstein, ma anche per dare vita ad una creatura mostruosa, suscitando molto disgusto nel lettore. Infatti, il corpo umano, vivo o morto, diviso in pezzi, può fare sorgere forti emozioni. Bisogna però ricordare che l'autrice di Frankenstein non usa soltanto le nuove scienze di chimica e elettricità per descrivere la creazione del mostro, ma anche la vecchia tradizione rinascimentale della ricerca alchimistica di evocare la possibilità prometeica di rianimare i corpi dei morti.
Da sempre gli scienziati sembrano determinati a rompere le sacre barriere tra vita e morte, una prospettiva che occupa sia la mente che l'immaginazione della popolazione. Ancora oggi i giornali speculano liberamente sull'ipotesi che un giorno si potrà far resuscitare i morti, raggiungendo l'immortalità grazie all'utilizzo di organi artificiali, e alterando la forma genetica delle generazioni future con l'eugenetica. Inizialmente (quando la scienza iniziò ad essere considerata un'importante disciplina) le scoperte furono primitive e molto semplici, come quella di Robert E. Cornish che uccise un cane con il gas neutrogeno e poi lo fece resuscitare, lo sviluppo del "cuore di vetro" (una pompa fatta di vetro Pyrex, destinata a sostenere gli organi rimossi dal corpo per lo studio o il trapianto), oppure il riuscire a tenere in vita cuori, reni, ovaie e altri organi per un lasso di tempo apprezzabile. Tutte queste scoperte contribuirono a far sembrare realizzabile l'antico sogno di alchimisti e scienziati e a cercare nuove tecniche per dare vita a uomini creati in laboratorio.
Nel XX secolo i fautori dell'eugenetica volevano migliorare il genere umano attraverso la sterilizzazione dei criminali, dei ritardati mentali, e altri considerati fallimenti della società; facendo un calcolo approssimativo, due terzi degli americani avrebbero dovuto sostenere queste misure. Questo genere di collegamenti ordinati tra biologia e destino andavano di moda tra gli intellettuali negli anni '2O; tutto ciò, nel suo piccolo, aiuta a completare la trasformazione del mostro creato da Mary Shelley in un'icona culturale.
La scienza corre in fretta e la popolazione ha tuttora, alle soglie del nuovo millennio, paura di una nuova tecnologia che può mettere a rischio l'umanità e che sfida i suoi ideali di esseri umani. Bisogna quindi porsi dei quesiti etici: "Che cosa è accettabile nella scienza e nella medicina? Chi lo decide?" I ricercatori si sono subito posti queste domande psicologiche. La dissezione dei corpi umani per la ricerca medica, come i trapianti di tessuti da una specie all'altra risollevano questa questione. Nel 1993, dei tecnici americani tagliarono in migliaia di pezzi il corpo di un assassino condannato a morte; ci fu un generale malcontento a causa di questo esperimento. Oggi, grazie alla fotografia e alla digitazione è possibile insegnare anatomia e chirurgia; infatti le persone possono prendere visione di documenti che raffigurano pezzi di corpi umani gratuitamente sulla "World Wide Web". Con questo metodo non si deve più tagliare il corpo delle persone e quindi non si va incontro a problemi sociali. I ricercatori che si impegnarono a fare il "Visible Human Progect" (un progetto per la visione dei tessuti umani) ricevettero il permesso dell'uomo condannato ad usare il suo corpo. Il consenso sociale sulla domanda per la dissezione umana, però, ripresentò il dibattito, esistente da prima del tempo di Mary Shelley, nel nostro. Il processo di risoluzione di queste due domande sfociò in un pubblico dibattito; si parlò anche di Victor Frankenstein, solo nel suo laboratorio, dove non avrebbe mai potuto immaginare le terribili conseguenze della sua creazione. Comunque ancora oggi queste domande non hanno avuto una risposta.
Grazie all'avanguardia biomedica si possono trasportare organi di animali di specie diverse per salvare persone ammalate; questo trapianto si chiama "xenograft" (dal greco xenos, straniero o ospite), cioè un trapianto eteroplastico. Questo significa che potremo avere un cuore di babbuino, un fegato di maiale, e altri organi animali. Numerosi sono gli esempi contemporanei che si possono fare per ricordare il mostro descritto da Mary Shelley. Ad esempio un neonato, conosciuto solo con il nome di "Baby Fae" per proteggere la sua privacy, nacque con un fatale difetto cardiaco. Nel 1984, divenne il primo neonato a ricevere il cuore di un babbuino, ma morì venti giorni dopo. Anche Jeff Getty, un paziente ottimista malato di AIDS, nel gennaio del 1996, subì un trapianto eteroplastico. Ricevette il midollo di un babbuino, con il fine di aiutare a incentivare il suo sistema immunitario. Getty è ancora vivo. La domanda che ci sorge spontaneamente è: "Quali sono i rischi che può correre un uomo con un trapianto di questo tipo? Può essere contagiato da virus che colpiscono solo gli animali? E i pericoli morali che nascono dal violare l'ordine naturale?" Le domande rimangono ovviamente irrisolte.
Il mito del mostro creato da Victor Frankenstein si può ricollegare non solo con le scoperte sopra elencate, ma anche con la clonazione della pecora "Dolly", una vera e propria creatura di laboratorio, un vero mostro. Nel 1997, per una fuga di notizie, il mondo seppe che alcuni ricercatori scozzesi avevano clonato una pecora; ci furono stupore e gioia in tutto il mondo per la creazione della pecora. Giornali, riviste e altri mass-media affermarono i dubbi sulla clonazione. Nelle settimane successive alla comunicazione i giornali annunciarono che la scoperta era fondamentale: in Scozia erano riusciti a clonare una pecora con successo. La domanda etica che molti iniziarono a porsi fu: "Possiamo lasciare che gli scienziati che sono a conoscenza del segreto della clonazione procedano senza contrasti? Osiamo abbracciare un beneficio emergente senza curarci dei suoi rischi?" Questa volta la società rispose, senza mezzi termini, "no" ad entrambe le domande. Le persone scrissero lettere al capo redattore del progetto, chiamarono i talk show, entrarono in rete. In quei pochi mesi, la clonazione divenne una preoccupazione sociale; bisognava quindi intervenire immediatamente per decidere come governare le conseguenze dell'inquietante cambiamento scientifico. Mentre lo scienziato di Mary Shelley, Victor Frankenstein, aveva fatto semplicemente ciò che voleva, segretamente, con disastrose conseguenze su sé stesso e sui suoi cari, oggi gli scienziati possono procedere alla loro ricerca solo se il governo è a conoscenza delle loro azioni. Poiché la scienza farà sempre più chiarezza sui segreti della natura, i quesiti morali, come è avvenuto per la clonazione, risorgeranno ancora. Ogni volta che la conoscenza supererà i limiti, Frankenstein farà sentire le sue note di avvertimento.
giovedì 8 marzo 2012
venerdì 2 marzo 2012
LAPIDE III
Il mio nome è Susanna,
anzi
fu il nome della mia prima vita,lo tenni
non per essere riconosciuta,ma
per riconoscere ancora
di quel che restava
qualche frammento.
Ogni mattina
Per me
Fu segnata dal dolore,ma
Allora,da viva
Ancora non sapevo e camminai senza curarmi del buio che mi attendeva.
Fu dopo che
Perduta la memoria dei suoni e di volti
Capii.
Niente era rimasto di quel cammino
Solo il dolore
anche dopo
tenace
al mio fianco non mi lasciò,
come un amico antico.
Copyright Susanna Berti Franceschi
Riproduzione vietata
sabato 25 febbraio 2012
Barbara ,la toscana
Esistono molte redazioni in greco e traduzioni latine della passio di Barbara; si tratta, però, di narrazioni leggendarie, il cui valore storico è molto scarso, anche perché vi si riscontrano non poche divergenze. In alcune passiones, infatti, il suo martirio è posto sotto l’impero di Massimino il Trace (235 – 38) o di Massimiano (286 – 305), in altre, invece, sotto quello di Massimino Daia (308 –13). Né maggiore concordanza esiste sul luogo di origine, poiché si parla di Antiochia, di Nicomedia e, infine, di una località denominata “Heliopolis”, distante 12 miglia da Euchaita, città della Paflagonia. Nelle traduzioni latine, la questione si complica maggiormente, perché per alcune di esse Barbara sarebbe vissuta nella Toscana, e, infatti, nel Martirologio di Adone si legge: “In Tuscia natale sanctae Barbarae virginis et martyris sub Maximiano imperatore”. Ci si trova, quindi, di fronte al caso di una martire il cui culto fino all’antichità fu assai diffuso, tanto in Oriente quanto in Occidente; invece, per quanto riguarda le notizie biografiche, si possiedono scarsissimi elementi: il nome, l’origine orientale, con ogni verisimiglianza l’Egitto, e il martirio. La leggenda, poi, ha arricchito con particolari fantastici, a volte anche irreali, la vita della martire: si tratta di particolari che hanno avuto un influsso sia sul culto come sull’iconografia.
Il padre di Barbara, Dioscuro, fece costruire una torre per rinchiudervi la bellissima figlia richiesta in sposa da moltissimi pretendenti. Ella, però, non aveva intenzione di sposarsi, ma di consacrarsi a Dio. Prima di entrare nella torre, non essendo ancora battezzata e volendo ricevere il sacramento della rigenerazione, si recò in una piscina d’acqua vicino alla torre e vi si immerse tre volte dicendo: “Battezzasi Barbara nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Per ordine del padre, la torre avrebbe dovuto avere due finestre, ma Barbara ne volle tre in onore della S.ma Trinità. Il padre, pagano, venuto a conoscenza della professione cristiana della figlia, decise di ucciderla, ma ella, passando miracolosamente fra le pareti della torre, riuscì a fuggire. Nuovamente catturata, il padre la condusse davanti al magistrato, affinché fosse tormentata e uccisa crudelmente. Il prefetto Marciano cercò di convincere Barbara a recedere dal suo proposito; poi, visti inutili i tentativi, ordinò di tormentarla avvolgendole tutto il corpo in panni rozzi e ruvidi, tanto da farla sanguinare in ogni parte. Durante la notte, continua il racconto seguendo uno schema comune alle leggende agiografiche, Barbara ebbe una visione e fu completamente risanata. Il giorno seguente il prefetto la sottomise a nuove e più crudeli torture: sulle sue carni nuovamente dilaniate fece porre piastre di ferro rovente. Una certa Giuliana, presente al supplizio, avendo manifestato sentimenti cristiani, venne associata al martirio: le fiamme, accese ai loro fianchi per tormentarle, si spensero quasi subito. Barbara, portata ignuda per la città, ritornò miracolosamente vestita e sana, nonostante l’ordine di flagellazione. Finalmente, il prefetto la condannò al taglio della testa; fu il padre stesso che eseguì la sentenza. Subito dopo un fuoco discese dal cielo e bruciò completamente il crudele padre, di cui non rimasero nemmeno le ceneri.
L’imperatore Giustino, nel sec. VI, avrebbe trasferito le reliquie della martire dall’Egitto a Costantinopoli; qualche secolo più tardi i veneziani le trasferirono nella loro città e di qui furono recate nella chiesa di S. Giovanni Evangelista a Torcello (1009). Il culto della martire fu assai diffuso in Italia, probabilmente importato durante il periodo dell’occupazione bizantina nel sec. VI, e si sviluppò poi durante le Crociate. Se ne trovano tracce in Toscana, in Umbria, nella Sabina. A Roma, poi, secondo la testimonianza di Giovanni Diacono (Vita, IV,89), s. Gregorio Magno, quando ancora era monaco, amava recarsi a pregare nell’oratorio di S. Barbara. Il testo, però, ha valore solo per il IX sec.; comunque, è certo che in questo secolo erano stati costruiti oratori in onore di B., dei quali fa testimonianza il Liber Pontificalis (ed. L. Duchesne, II, pp. 50, 116) nelle biografie di Stefano IV (816-17) e Leone IV (847-55).
Barbara è particolarmente invocata contro la morte improvvisa (allusione a quella del padre, secondo la leggenda); in seguito la sua protezione fu estesa a tutte le persone che erano esposte nel loro lavoro al pericolo di morte istantanea, come gli artificieri, gli artiglieri, i carpentieri, i minatori; oggi è venerata anche come protettrice dei vigili del fuoco. Nelle navi da guerra il deposito delle munizioni è denominato “Santa Barbara”.