giovedì 28 ottobre 2010





Una fucilazione dimenticata





il Conte Lechi



L'anno è il 1797 e lo scenario è quello della Valtellina in Lombardia ai confini con la Svizzera.

La repubblica cisalpina è ormai una realtà .
Valtellinesi e Chiavennaschi, con i Bormini sudditi delle Tre Leghe dal 1512, stanchi dei continui soprusi dei magistrati di Coira e del decennale trascinarsi delle loro inascoltate doglianze presso il Governo dei Grigioni, hanno solennemente proclamato la loro indipendenza sicuri della protezione delle truppe francesi vittoriose.

La comunità dei Bormini non sembra avere lo stesso fuoco sacro e, malgrado i ripetuti inviti dei Valtellinesi, esita a dissociarsi dal governo dei Grigioni, sancito da un capitolato di intesa garantito dall'Austria.
Per quale motivo?

Sin dall''epoca della loro adesione, i Bormini riuscirono a mantenere anche sotto il governo dei Grigioni i privilegi di cui godevano con i loro statuti sotto il governo dei duchi di Milano.
Vi era poi una enorme diffidenza dei Bormini nei confronti dei Valtellinesi che traeva origine da una tragica esperienza durata vent'anni: un alleanza con i valtellinesi che portò a dure conseguenze dopo l'insurrezione del 1620, ricordata come "il sacro macello" ( i valtellinesi chiamarono questo avvenimento "la rivolta contro i riformati grigioni. Cesare Cantù, scrivendo nel primo ottocento, di questi avvenimenti, coniò l'intrigante dizione di "sacro macello".) e alle guerre che seguirono. Le rovine furono tali che si trascinarono materialmente e moralmente per più generazioni e crearono nella memoria dei Bormini una traccia indelebile: "mai più con I Valtellini !!". Traccia che trovò la sua concretizzazione persino nei loro statuti civili e nell'edificazione di un muro che separasse le due comunità eretto in località "ponte del Diavolo"( I ruderi superstiti del muro che ha resistito per decenni, furono coperti dalla frana che seppellì Sant Antonio Morignone )

Un passo indietro.
Dal 1785 si era rifugiato a Bormio il Conte Lechi, bresciano , fuggito dai Piombi di Venezia dove avrebbe dovuto scontare vent'anni per un presunto omicidio.
I magistrati dei Grigioni concedevano con riluttanza ed estrema lentezza l'estradizione anche per fatti di sangue. E i rapporti con la Repubblica di S.Marco erano pessimi da quando la repubblica aveva denunciato i trattati ed espulso tutti i sudditi Grigioni dal territorio. Pienamente tranquillo per la sua sicurezza il Lechi, con l'approssimarsi ai confini della valle delle vittoriose truppe napoleoniche portatrici di idee di uguaglianza e libertà, si fece promotore e fondatore di un piccolo e ardente nucleo "giacobino" di cui facevano parte discendenti di famiglie stabilitesi da lungo tempo nel territorio di Bormio ma , per qualche verso, considerate sempre forestiere e quindi mai ammesse a godere degli antichi privilegi.

L'atteggiamento dei Valtellinesi nei confronti delle nuove idee e degli eserciti vittoriosi fu di tale adesione che li portò il 19 giugno 1797 a proclamare solennemente la loro indipendenza dal governo dei Grigioni, che nulla fece per impedirlo timoroso dell'esercito francese e alle prese con dissidi interni.
L'esempio fu presto seguito con qualche eccezione, dal contado di Chiavenna .

Bormio invece resistette alle sollecitazioni anche di alcuni residenti e "patrioti" che la volevano unita all'azione di Chiavenna e Valtellina.

Le ragioni:

Bormio conosceva da lungo tempo non solo privilegi ma anche la parola libertà essendo abituata ad eleggere democraticamente i suoi rappresentanti di governo

La parola "rivoluzione" bandiera giacobina e Napoleonica poteva far presa sui valtellinesi e Chiavennati oppressi così come sui Bresciani insorti in quel periodo contro la Repubblica di S. Marco forti dell'appoggio francese. Nel ricordo dei Bormini tradizionalmente cattolici la parola "rivoluzione" richiamava alla memoria il tragico periodo della persecuzione religiosa (sacro macello) e alle sciagure che seguirono.

Non vi erano tensioni sociali che alimentassero desideri rivoluzionari

Non così la pensavano i Valtellinesi , i Chiavennati e il nucleo giacobino di Bormio guidato dal Lechi.
Non mancò da parte loro un "fraterno ammonimento" ai Bormini : se non si fossero uniti al movimento indipendentista avrebbero patito embarghi commerciali e probabili invasioni dell'esercito della neo repubblica Cisalpina.
Colpiti da questa esortazione e, qual buon peso, dall'assenza di garanzie del governo di Coira, il popolo di Bormio il 9 luglio proclamò l'indipendenza e la propria sovranità " in faccia a tutta l'Europa". La dichiarazione prevedeva si la protezione della repubblica Francese ma anche la totale indipendenza della comunità bormina da qualsiasi governo. Fu issata la bandiera tricolorata della repubblica Cisalpina accanto alla vecchia insegna del contado. I mugugni non mancarono anche se edulcorati dalla convinzione dei propri privilegi.
Privilegi che nei pensieri dei Giacobini e del loro concetto di libertà e di uguaglianza era giunto il momento di abbattere.

Difficile farlo accettare però a una comunità montanara prudente, parsimoniosa, diffidente verso le novità forestiere e così diverse dalla proprie tradizioni.

Il conte Lechi fu richiamato da Brescia, dove nel frattempo aveva potuto nuovamente riunirsi ai suoi familiari, da alcuni compagni del nucleo giacobino di Bormio e, qui ritornato, contestò violentemente il governo bormino e le sue decisione prese in assenza dei "forestieri" ai quali non era stata concessa la facoltà di esprimere la propria opinione in ossequio ai nuovi principi di uguaglianza.

I giacobini che "vagheggiavano e proclamavano ancora una rivoluzione coi fiocchi " si resero responsabili poi di misure restrittive nei confronti di tre delegati del governo bormino in viaggio verso Tirano e di un nuovo progetto di governo presentato al popolo direttamente con gravi minacce per quanti si fossero opposti.

Questo modo brutale di proporre dei rinnovamenti a una popolazione per certi versi conservatrice, era reso ancora più intollerabile perché imposto, più che presentato, da uno straniero e a un apparente acquiescenza fece presto seguito una furibonda reazione popolare che portò il 23 luglio 1797 al massacro di Cepina.

Dopo alcuni brevi scontri a fuoco tra i patrioti bormini e i partigiani del Lechi , in numero ormai esiguo per le numerose defezioni, Lechi e alcuni capi giacobini furono arrestati e condannati a morte.

Offertogli del vino e la possibilità di redimersi il Lechi così si pronunciò:" Bevo il sangue dei Bormiesi dei quali voglio far vendetta". Fu fucilato senza processo di li a poco assieme ad altri compagni per quanto avessero questi fatto atto di contrizione. Vi fu un superstite, l'unico tra gli arrestati: Carlo Filippo Nesini. Gli fu risparmiata la vita per intercessione del genitore a e di alcuni patrioti che gli riconoscevano, malgrado tutto del "buon animo".

Fin qui la vicenda.
Allora dove si annida il mistero ?

Cosa spinse il Lechi pur avendo ritrovato libertà e famiglia a sacrificare la sua vita ? L'ideale o la sete di potere? O che altro? O contò molto la superbia del "nobile" verso i plebei, ancorché fra loro si definissero patrizi?
La Valtellina e Bormio in particolare era ( ed è) sede di sviluppati traffici commerciali.

Cosa spinse il popolo bormino a disfarsi così sommariamente di un manipolo di presunti rivoluzionari che fino a quel momento di fatto non avevano inciso su privilegi e tradizioni di quel contado? Fu solo la presunta minaccia a stili di vita consolidati o timore e insofferenza nei confronti dei… forestieri ? Che ruolo ebbero nella vicenda i "patrizi" del luogo tradizionali custodi di consolidate gerarchie anche economiche ?

Un minimo comune denominatore per noi esiste : l'imperscrutabilità dell'animo umano, delle sue paure , delle sue bramosie, della sua intolleranza e l'ancestrale ricorso al capro espiatorio, comune a tutte le comunità giudaico/cristiane del tempo.
Senza di esse il mistero non esisterebbe.

La discussione è naturalmente aperta e il contraddittorio è il benvenuto.



Bbliografia
Tratto da " La storia dell'uccisione del Conte del Diavolo" di Prete Ignazio Bardea 1807 - a cura di Sandro Massera e Ireneo Simonetti - Edizione Alpinia

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