giovedì 30 dicembre 2010


Solstizio d'inverno :dal 21 al 31 dicembre.

IL CAPODANNO NELLA TRADIZIONE CELTICA :LO YULE

Il Cerchio della Luna propone per Il solstizio d'inverno (Yule) una celebrazione aperta

Mentre l'anno volge al termine, le notti si allungano e le ore di luce sono sempre più brevi, fino al giorno del Solstizio invernale, il 21 dicembre. II respiro della natura è sospeso, nell'attesa di una trasformazione, e il tempo stesso pare fermarsi. E' uno dei momenti di passaggio dell'anno, forse il piö drammatico e paradossale: l'oscuritá regna sovrana, ma nel momento del suo trionfo cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume invernali.

Dopo il Solstizio, la notte piö lunga dell'anno, le giornate ricominciano poco alla volta ad allungarsi.
Come tutti i momenti di passaggio, Yule è un periodo carico di valenze simboliche e magiche, dominato da miti e simboli provenienti da un passato lontanissimo.

Il Natale e' la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio I (337 -352) per il duplice scopo di celebrare Gesö Cristo come "Sole di giustizia" e creare una celebrazione alternativa alla piö popolare festa pagana. Sin dai tempi antichi dalla Siberia alle Isole Britanniche, passando per l'Europa Centrale e il Mediterraneo, era tutto un fiorire di riti e cosmogonie che celebravano le nozze fatali della notte piö lunga col giorno più breve.

Due temi principali si intrecciavano e si sovrapponevano, come i temi musicali di una grande sinfonia. Uno era la morte del Vecchio Sole e la nascita del Sole Bambino, l'altra era il tema vegetale che narrava la sconfitta del Dio Agrifoglio, Re dell'Anno Calante, ad opera del Dio Quercia, Re dell'Anno Crescente.

Un terzo tema, forse meno antico e nato con le prime civiltá agrarie, celebrava sullo sfondo la nascita-germinazione di un Dio del Grano... Se il sole è un dio, il diminuire del suo calore e della sua luce À visto come segno di vecchiaia e declino. Occorre cacciare l'oscuritá prima che il sole scompaia per sempre.

Le genti dell'antichitá, che si consideravano parte del grande cerchio della vita, ritenevano che ogni loro azione, anche la piö piccola, potesse influenzare i grandi cicli del cosmo. Così si celebravano riti per assicurare la rigenerazione del sole e si accendevano falž per sostenerne la forza e per incoraggiarne, tramite la cosiddetta "magia simpatica" la rinascita e la ripresa della sua marcia trionfale.

Presso i celti era in uso un rito in cui le donne attendevano, immerse nell’oscurità, l’arrivo della luce-candela portata dagli uomini con cui veniva acceso il fuoco, per poi festeggiare tutti insieme la luce intorno al fuoco.

Yule, o Farlas, è insieme festa di morte, trasformazione e rinascita. Il Re Oscuro, il Vecchio Sole, muore e si trasforma nel Sole Bambino che rinasce dall'utero della Dea: all'alba la Grande Madre Terra dá alla luce il Sole Dio.
La Dea è la vita dentro la morte, perche' anche se ora À regina del gelo e dell'oscuritá, mette al mondo il Figlio della Promessa, il Sole suo amante, che la rifeconderá riportando calore e luce al suo regno. Anche se i più freddi giorni dell'inverno ancora devono venire, sappiamo che con la rinascita del sole la primavera ritorna.


La pianta sacra del Solstizio d'Inverno è il vischio, pianta simbolo della vita in quanto le sue bacche bianche e traslucide somigliano allo sperma maschile. Il vischio, pianta sacra ai druidi, era considerata una pianta discesa dal cielo, figlia del fulmine, e quindi emanazione divina. Equiparato alla vita attraverso la sua somiglianza allo sperma, ed unito alla quercia, il sacro albero dell'eternitá, questa pianta partecipa sia del simbolismo dell'eternitá che di quello dell'istante, simbolo di rigenerazione ma anche di immortalitá. Ancora oggi baciarsi sotto il vischio èun gesto propiziatorio di fortuna e la prima persona a entrare in casa dopo Farlas deve portare con se' un ramo di vischio. Queste usanze solstiziali sono state trasferite al gennaio, il Capodanno dell'attuale calendariocivile.

domenica 26 dicembre 2010


La vita di Fara ,la barbara che divenne santa(2 parte)

Sei mesi dopo Eustasio fece il suo rientro. Per tutto il tempo Fara si era dedicata assiduamente alla preghiera. Egli attaccò con veemenza Cagnerico rimproverandogli la sua inumana condotta. Gli disse Eustasio: “Io avevo un amico che mi aveva fatto una promessa solenne sulla quale io contavo, ma mi ha ingannato con una grande perfidia. Io ne ho provato un amaro dolore e non posso dimenticare questo oltraggio” . Cagnerico, in risposta: “Voi avete ragione, non vi è niente di più ingiurioso della mancanza di parola, soprattutto a un religioso, che rappresenta nella sua persona Gesù Cristo stesso” . Ottenendo, a sua volta, la seguente, inequivocabile risposta: “Non vi condannate più. voi siete quest’uomo, voi mi avevate promesso di non opporre ulteriore resistenza ai pii desideri di vostra figlia: ecco che avete mancato allo Spirito Santo. Se non riparate a questo peccato, esso non vi sarà perdonato” .
Ottenne il suo ravvedimento e dispose che la funzione di consacrazione di Fara di svolgesse nella Cattedrale di Meaux, nelle mani del vescovo Gondoaldo. Correva l’anno 614. Certamente fu rispettata la liturgia del doppio rituale di vestizione, articolato secondo l’uso di quel tempo in due fasi: la professione monastica, che rappresentava la rinuncia al mondo con i segni esteriori della tonsura che separa dalle vanità del mondo, della lettura di un chirographum o carta di professione, dello scambio degli ornamenti del mondo con il vestito di lana grossolana: nella fattispecie la cocolla bianca di Luxeuil; la velatio, o imposizione del velo, segno di consacrazione delle Vergini risalente ai primordi della Cristianità.
Insieme con alcune fanciulle nobili del vicinato e alcune parenti fondò un’oasi presso Champeaux, in una villa di proprietà, alternando preghiere e penitenze, in un vero ritiro claustrale. Jacque Bossuet, vescovo di Meaux nel XVII sec., scrisse di lei: “non avrebbe voluto esser vista, né vedere”. Un gran numero di persone si aggregarono a lei, abbracciando il suo genere di vita. La Delsart riferisce come sino al secolo XIX fossero visibili in Champeaux la casa in cui visse Santa Fara e una croce detta il Calvario di Santa Fara. Si tratta certamente della casa in cui ella visse in ritiro nel periodo antecedente la costruzione del monastero ad Eboriac.

Eboriac diviene Faremoutiers: Cagnerico, volendo riscattarsi dalla sua condotta, offrì una parte del suo feudo perché vi sorgesse un monastero. La costruzione del complesso monastico, della quale furono incaricati i monaci di Luxeil, che impiegarono il legno disponibile in gran copia nelle vicine foreste, terminò nell’anno 627: sorgeva su una collina, tra i due fiumi Gran-Morin e Aubetin, irrorata da abbondanti sorgenti, proprio in prossimità della via romana che congiungeva Sens a Boulogne-sur-Mer, varcando il Gran Morin con un guado o, presumibilmente, con un ponte. Tale collina fungeva da cinta naturale e i campi, per la favorevole esposizione, già dovevano prestarsi alla coltura del grano. Eboriac ha una probabile radice nel latino ebur: avorio. Il toponimo la designava, dunque, come la “collina d’avorio”: Eboriacum o Evoriacum. Il celebre libro di Giona di Bobbio sul monastero di Fara avrà per titolo, infatti: “Miracula evoriacensia”.
Le costruzioni, in realtà, furono duplici. Non distante dal monastero voluto da Fara ne sorse un altro per monaci, che attendessero al culto e ai lavori pesanti, secondo una consuetudine diffusa nel Medioevo. Al monastero femminile si affiancò così la chiesa di “Notre-Dame et Saint Pierre”, a quello maschile la chiesa di “Santo Stefano”. Mabillon sostiene a buona ragione, che la chiesa parrocchiale di San Sulpicio in Faremoutiers, sia sorta nel XII secolo proprio sulle rovine della preesistente chiesa di Santo Stefano.Al termine dei due anni di lavori, Fara prese possesso del complesso a capo di un gran numero di vergini, proprio come aveva visto anni prima nel suo sogno. Cagnerico arricchì poi ulteriormente la donazione. Il monastero da allora prese il nome di Faremoutiers (monastero di Fara o di Eboriac: il percorso etimologico proposto sarebbe: Farae monasterium, Fare-monstier, Faremoutiers). La chiesa fu dedicata alla Vergine e a S. Pietro Apostolo. Su indicazione di Cagnoaldo, fratello di Burgundofara, le suore si dettero la regola di Colombano sotto la direzione di Fara. La liturgia adoperata fu dunque quella di ispirazione irlandese, così come era stata importata dal Santo irlandese. Cagnoaldo e Walbert – anch’esso santo – furono incaricati della formazione delle monache di Faremoutiers.

La regola di Colombano si caratterizzava per il suo rigore; prescriveva disciplina, umiltà, pazienza, silenzio, mansuetudine, lavoro, digiuno, mortificazioni corporali, veglie notturne di preghiera. In questo periodo, a seguito dei dialoghi tra Fara e il suo fratello Farone, questi si convertì e manifestò i suoi mutamenti presso la corte del re Clotario che lo proteggeva. Tale incontro venne poi effigiato da Rabel per la Vie de Saincte Fare di Padre Robert Regnault. A tale incisione, che riportiamo di fianco, si ispirarono gli artisti che hanno rappresentato Fara e le sue opere nei secoli successivi. La sua conversione, poi, lo condusse alla deliberazione di entrare in monastero. La stessa decisione fu presa da sua moglie Blichedilde. Nel 627/28, alla morte del vescovo Gondoaldo, che aveva sempre promosso l’operato dell’abbadessa Fara, il ruolo di vescovo di Meaux fu assunto da Farone. Un’ulteriore prova per lei fu la morte dell’abate Eustasio, maestro e confidente.
La grande fioritura spirituale di Eboriac (ormai Faremoutiers) spinse la Chiesa del tempo a invitare Fara a fondare altri centri di vita contemplativa. Obbedendo a tale invito, Fara inviò delle monache a Champeaux, nella Brie, dove aveva trascorso i primi giorni. Lì fu fondata una chiesa in onore di S. Martino. Di tale fondazione si rintracciano notizie nelle fonti storiche dal 700 d. C.

L’eretico Agrestius: Un episodio degno di nota è certo quello del monaco Agrestius di Luxeil, cresciuto con gli insegnamenti di Colombano, ma poi traviato da certe eresie scismatiche di stampo nestoriano. Egli era stato notaio del re Thierry.
Egli, pur non essendo assolutamente preparato e, forse, dotato, si volle dare alla predicazione. Dopo qualche resistenza, Eustasio, si vide costretto a lasciarlo andare via dal monastero. Raggiunse allora la Baviera e ad Aquileia fu coinvolto dalle tendenze eretiche cui accennavamo. Tornò a Luxeil e provò, con accesi dibattiti a coinvolgere proprio Eustasio, suo maestro. Vistosi respinto, si recò a Ginevra, dove poteva contare sull’appoggio di un parente vescovo, Abellenus. Riprese la sua predicazione tentando di influenzare il re Clotario. Il re, allora, indisse Concilio a Macon nel 626. Gli scismatici attaccarono proprio Colombano e i suoi insegnamenti. Eustasio confutò i rilievi mossi alla regola e condannò in pubblico Agrestius, il quale, fingendo di pentirsi all’istante, si allontanò dal Concilio ma si recò altrove per fare proseliti, riuscendo ad allignare persino a Luxeil, portando via qualche monaco.
Nelle sue peregrinazioni toccò anche Faremoutiers. Qui, sebbene fossero presenti monaci e monache nei due complessi tanto vicini tra loro, la dignità abbaziale era già tutta nelle mani della giovane Burgundofara, a dispetto dell’età ma certo a riprova di un carattere forte e di una preparazione teologica salda. Essa, pur avendo al proprio cospetto un monaco ben più anziano di lei, non si perse d’animo e rispose col tono giusto, stando a quanto riporta Giona di Bobbio nella sua “vita Sancti Eustasi”: “Sei tu venuto qui a spargere veleno sul miele e cambiare gli elementi di vita in amarezza mortale? Tu cerchi di disprezzare quello [Colombano, ndr] di cui personalmente hai conosciuto le virtù, dal quale ho ricevuto la salutare dottrina di Cristo, ed il cui insegnamento ha portato un gran numero di anime nella patria celeste”. Giungendo infine a citare Isaia 5,20: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene”, e “allontanati, fuggi e abbandona rapidamente questa follia“. Effettivamente Agrestius e i suoi monaci si dispersero bene presto con i loro propositi, finendo per lo più in modo inglorioso o violento.
L’episodio del dialogo in cui Fara censurò il comportamento e le tendenze eretiche di Agrestius le conquistò una grande stima. Forse anche per questo nel celebre epitaffio tramandato dal Mabillon – che di seguito riportiamo – Fara viene definita, appunto un faro lucente.
Eustasio morì nel 629. Gli successe Walbert. Cagnoaldo era ormai vescovo, da prima del 627, a Laon.

Il Testamento di Fara: Nel 627 Fara redasse un testamento. In quel tempo ella doveva avere circa 27 anni e la cosa può sembrare strana. In più diversi storici hanno dubitato sull’attendiblità del documento a causa dei ricorrenti riferimenti, attraverso il testo, all’attesa della morte e al giudizio universale. In realtà altri storici hanno fatto rilevare come questi due temi siano sempre stati a fondamento della formazione dei monaci, anche giovani. Quanto alla necessità di far testamento in giovane età occorre fare qualche riflessione, che cercheremo di schematizzare in modo opportuno:
• Fara si era ammalata due volte in modo molto grave, lasciando temere la sua morte come uno scenario non inverosimile. L’episodio della monaca Gibitrude, che verrà illustrato in seguito, può essere iluminante;
• Il padre Cagnerico era deceduto poco tempo prima, lasciando alla figlia la parte di eredità che le spettava e che, nelle sue intenzioni originarie, doveva costituire la sua dote di contessa. Poichè tale quota ereditaria doveva confliggere con il voto di povertà monastico, dovette rendersi necessaria una redazione delle ultime volontà in modo da attribuire le prorpietà all’Ordine.
Tuttavia non è assolutamente da escludere che, ferma restando l’autenticità dell’atto, se ne possa mettere in discussione l’originalità: può trattarsi di una riscrittura tardiva (XI sec.) di un originale più antico oggi non più disponibile.

Le funzioni del Monastero: Nel Medioevo non si disponeva di una agevole rete di strade per spostarsi da una città all’altra. I monasteri spesso fungevano da foresterie per accogliere temporaneamente i viandanti. Erano l’”asilo di tutte le miserie, centro caritatevole di tutto il paese. In foresteria ci si occupava degli ospiti, ma più spesso i monasteri accoglievano malati e fanciulli da educare. È assai probabile che, in quell’epoca, non essendo in uso la grata, segno di separazione claustrale, vi fossero monache addette personalmente a ciascuna delle mansioni anzidette. In più, il monastero svolgeva una considerevole funzione sul piano sociale. Le terre confinanti, spesso parte dei donativi che consentivano di edificare i monasteri, attraevano lavoratori, servi, schiavi e coloni, ai quali i monaci insegnavano a dissodare la terra nonché a coltivarla. In cambio del lavoro e di parte dei prodotti, la Chiesa offriva lavoro, aiuto e protezione, necessaria in quei tempi in cui impazzava il brigantaggio e l’aggregazione era l’unico rifugio. Il Testamento di Fara del 26 Ottobre 627 fa esplicito riferimento alle categorie degli schiavi e dei coloni. Fu volontà della Santa che i primi fossero liberati alla sua morte senza perdere il lavoro.
La funzione per cui Faremoutiers si distinse fu l’educazione fu l’educazione delle giovani donne, anche venute da lontano, dei fanciulli, nonché la cura degli ammalati. Fara ebbe un ruolo nella direzione spirituale di diverse nobildonne del tempo: la regina Batilide, che si recava spesso da Fara, Sedrida ed Edilburga, figlie del primo re degli anglosassoni che vestirono l’abito monastico, sotto Fara. Queste ultime, nell’ordine, successero proprio a Fara, nel ruolo di guida del monastero. Tali notizie ci sono state tramandate da S. Beda, che chiama Fara “Abbatissa nobilissima vocabulo Farae“.
“Padre Carcat, narra che un giorno, in tempo di carestia, venuto a mancare il pane per la comunità, l’economa si rivolse alla buona madre abbadessa. Fara, fiduciosa nella Provvidenza, ordinò alle suore di elevare preghiere. Intanto il fratello Farone, per speciale illuminazione divina, essendo venuto a conoscenza delle necessità in cui versava il monastero, inviò due carri di grano con l’impegno da parte di coloro che guidavano il convoglio, di trovarsi al monastero la mattina seguente

I monasteri di Fara accolsero presto la regola benedettina, anche se le fonti storiche illustrano come il passaggio non sia stato immediato, bensì graduale: è certo che a Luxeil, sotto la guida di San Walbert, vi sia stata fusione tra le due regole di Colombano e Benedetto, la qual cosa lascia supporre che un fatto analogo sia avvenuto a Faremoutiers, che da quello dipendeva direttamente. Nell’VIII secolo la Regola di Colombano cadde in disuso.
Miracula Evoriacensia – i miracoli di Eboriac: Attraverso l’opera del monaco Giona di Bobbio, testimone degli eventi connessi alla fondazione e la crescita del monastero di Fara, ci è pervenuta la gran parte delle informazioni coeve in nostro possesso. In particolare, il testo intitolato “Miracula Evoriacensia” narra, con dovizia di particolari, i miracoli avvenuti nel monastero, prima e dopo la morte di Fara. Ne citiamo alcuni, riportati anche nel volume della Delsart, presente in bibliografia. Si tratta di una serie di eventi miracolosi connessi con le vicende terrene di sante e monache vissute intorno a Fara; il tramandarsi della memoria di queste vite esemplari aveva un evidente fine storico ma soprattutto didascalico.
La monaca Sisetrude ebbe il privilegio di conoscere tramite gli angeli la data della propria morte con quaranta giorni di anticipo. Al momento della morte, alla quale Sisetrude pervenne perfettamente preparata, anche le altre monche, con a capo la madre Fara, udirono cori angelici.
Non meno significativo l’esempio di Gibitrude. All’origine della sua esperienza religiosa ci furono diversi ostacoli opposti da persone che la circondavano: la nutrice e la madre. Entrambe furono colpite improvvisamente da mali inspiegabili, dai quali furono liberate solo dopo che la futura santa si impegnò ad impetrare la loro guarigione presso Dio dietro promessa di esser lasciata libera di seguire la propria vocazione. Accadde poi che la Madre abbadessa Fara si ammalasse di febbri molto forti, che ne mettevano a serio rischio la sopravvivenza. Gibitrude chiese allora di morire al suo posto con un voto assai coraggioso. In risposta alle sue insistenti richieste udì una voce dall’alto: “Va’ serva di Cristo, tu hai ottenuto ciò che domandavi. Ella [Fara, ndr] continuerà a dimorare tra i vivi, e tu sarai sciolta prima di lei dalle catene della terra”. Fu portata in cielo ma subito ricondotta in terra al fine di consentirle di appianare eventuali contrasti che ella potesse avere con qualche consorella permettendole, al momento del trapasso, di accedere direttamente al Regno di Dio. Avvenne infatti che ella predisse il giorno e l’ora della propria morte, avvenuta a causa di febbri sei mesi dopo gli eventi descritti. Durante la celebrazione del trigesimo nella Chiesa si sparse un odore soave per tutta la chiesa e tutte le monache lo percepirono.
La monaca Ercantrude aveva infranto la Regola e per punizione il giorno dopo non avrebbe potuto assumere le Sacre Specie per ordine di Fara. Ella si addolorò tantissimo per tale restrizione anche perché il giorno appresso si celebrava la festa di San Martino. Stette tutta la notte vegliando in preghiera per implorare il perdono e lo ottenne dallo stesso Gesù che le ordinò di riferire a Fara di averla perdonata egli stesso. La Madre, dotata evidentemente di un discernimento adeguato, cancellò la punizione deliberata.
La monaca Blitilide era in fin di vita. Chiese allora che si accendesse un lume affinché la sua cella fosse illuminata durante le ore notturne. Il lume fu riempito con acqua e olio. Giona riferisce che la suora rimase sola tutta la notte. La mattina dopo la monaca che aveva riempito il lume, dovendolo spegnere, vi trovò olio e latte. Ne fu sorpresa perché a quanto pare tale bevanda non era adoperata nel Monastero in quel momento preciso. Fu interpellata la Madre Fara, la quale ordinò che olio e latte fossero divisi. Quando la parte di latte fu rimossa l’olio cominciò a crescere finendo col traboccare. Fara e gli altri testimoni – Walbert e Farone – interpretarono il segno come il passaggio di Cristo dalla cella della monaca durante la notte per additarne la santità. L’olio venne raccolto e trasportato devotamente in sacrestia. Giona riferisce che diversi miracoli furono operati da Fara per mezzo di tale unguento di origine soprannaturale.

La morte di Fara: Morì il giorno 7 dicembre del 658 (Altri credono che la morte sia avvenuta il 3 aprile del 655, ma la data assegnata per la sua festa, indicata anche dal Martirologio romano, è quella del 7 dicembre). Le sue esequie, curate dal fratello Farone, furono solenni, tanto che vi intervenne il vescovo di Parigi. Fara fu sepolta in una tomba di pietra, fatta preparare da lei stessa. Dopo quarant’anni fu fatta la ricognizione del suo corpo, alla presenza di molti fedeli e vari vescovi. Le sue reliquie furono deposte in un ricco reliquiario. “

venerdì 24 dicembre 2010


Le origini celtiche ella festività del sostilizio d'inverno(Natale)

Molte delle usanze irlandesi ancora oggi in vita risalgono a epoche antichissime, quando alla cultura e alla religione gaelica subentrò il Cristianesimo.

La data in cui si celebra il Natale è legata alle religioni degli antichi Druidi e Romani. Nel periodo del solstizio d’inverno, Alban Arthuan (in inglese “The Light of Arthur”, secondo la credenza che re Artù nacque il giorno del solstizio d’inverno), i Celti celebravano la rinascita del sole così come i Romani celebravano la nascita del dio Sole. Alban Arthuan è noto anche come Yule, che deriva dalla parola anglo-sassone “Yula” o “Wheel of the Year” e indicava la celebrazione del giorno più breve dell’anno e della rinascita del sole.
Inoltre si credeva che Alban Arthuan fosse un periodo di crescente fertilità, come lo erano altre feste celtiche, tipo Samhain o Beltane.
L’usanza di ardere il ceppo di Natale, tradizione legata ancora oggi alle feste natalizie, nacque per onorare la grande dea madre.
Il ceppo veniva acceso alla vigilia del solstizio, usando i resti del ceppo dell’anno precedente, e veniva lasciato ardere per dodici ore come buon auspicio.

La decorazione del ceppo di Natale fu originariamente un’usanza pagana: si appendevano al tronco, solitamente di pino, numerose decorazioni colorate che stavano a significare gli astri tanto significativi per i pagani – luna, sole e stelle – e le anime di coloro che erano morti durante quell’anno.
Oltre a ciò si crede che anche il moderno scambio di regali derivi da una tradizione pagana che vedeva molti doni appesi all’albero in questione come offerte ai numerosi dei.

Per quanto riguarda Babbo Natale, infine, anche tale tradizione sembra risalire in qualche tratto al periodo celtico: i suoi elfi, infatti, sono una modernizzazione del “Nature folk” di origine pagana, e le sue renne sono associare all’”Horned God”, uno degli dei pagani.
Per concludere, dato il credo cristiano, per cui la nascita di Cristo portò nuova luce (e quindi vita) nel mondo, e data anche l’assenza nella Bibbia di una specifica data di nascita di Gesù, risulta logica la decisione di celebrare la festa della nascita di Cristo in coincidenza con il solstizio d’inverno.

SBF

giovedì 23 dicembre 2010


FARA la barbara e Colombano il monaco irlandese(1 parte)

Nella seconda metà del VI secolo, il regno dei Franchi, agitato da feroci lotte dinastiche, perse, per un certo periodo, la sua unità politica. Il regno, suddiviso in: Neustria, Austrasia, Borgogna e Aquitania, ritrovò l’unità sotto il regno di Clotario II (613-629). Si trattò di un periodo di decadenza per la monarchia franca. Suo figlio Dagoberto lasciò nel popolo il ricordo di esser stato il “re buono”, dovendo forse tale fama alla capacità dei suoi consiglieri. Alla sua morte il regno si divise ancora e si ebbe un periodo in cui (il periodo dei re fannulloni o rois fainéants 640-741 d.C.) si fece sempre più forte l’autorità dei “maestri di palazzo”, capi dell’aristocrazia di corte.La debolezza del ceto aristocratico rendeva difficile la resistenza agli Arabi, che avevano già conquistato la Spagna.

La famiglia: In questo quadro storico si innesta la storia della nostra Santa. La sua città natale, Pipimisicum (l’attuale Poincy, secondo quanto riportato dal cronista Giona di Bobbio), a cinque chilometri da Meaux, apparteneva al regno di Austrasia, governato allora da Teodeberto II. Il padre di Fara, Cagnerico era un conte che godeva della protezione del re. La sua fede era quella tipica dei barbari convertiti in quei tempi alla fede in Cristo. Sua moglie Leodegonda, invece, pare fosse dotata di un più robusto spirito cristiano. Egli aveva quattro figli: Cagnoaldo, Farone, Fara (o Burgundofara) e Agnetrude. Alcune fonti riportano un ulteriore fratello, chiamato Agnulfo. Cagnoaldo era un religioso al seguito di San Colombano e Farone fu, poi, vescovo della diocesi di Meaux.

L’incontro profetico con San Colombano: Nell’anno 610, San Colombano, fondatore di Luxeil, scacciato dal suo monastero dalla regina Brunehaut, si recò in Austrasia presso il re Teodeberto II e si fermò a Meaux nella villa di Pipimisicum presso il leudo Cagnerico (le fonti attribuiscono ai leudi il rango di compagni, fedeli ai re Merovingi. Ci sentiamo allora di poter affiancare compagni al latino comites, e dunque, diremmo oggi, conti).
Qui l’Abate fu accolto, dal padre di Fara, con la più cordiale ospitalità. Va precisato che il fratello di Fara, Cagnoaldo, accompagnava in quel viaggio Colombano. Così la piccola conobbe San Colombano. Un giorno andò da lui recando in mano spighe di grano raccolte di fresco e fuori di stagione, come riportato anche da Padre Carcat . Colombano la fissò compiaciuto e, leggendo bene tale segno, le rivolse queste parole: “Mia cara bambina, tu hai scelto la miglior parte; il grano sarà per te”. Poi soggiunse: “Il frumento rappresenta nostro Signore Gesù Cristo, che è stato gettato nel mondo come chicco di grano, e che, dopo essere stato triturato e macinato dai dolori della passione, ha reso per nostra salvezza dei frutti ammirabili ai quali voi avete partecipato già col Battesimo, ma che riceverete con maggiore abbondanza, se corrisponderete al Suo amore per voi”. Gli rispose allora la giovane contessa Fara: “Indicatemi, Padre mio, vi prego, il luogo dove troverò questo Divino Maestro, affinché possa servirlo”, per poi concludere: “è lui forse che si mostra qualche volta a me di notte, talora sotto forma di fanciullo d’una radiosa bellezza che mi fa dei sorrisi amabilissimi, talora sotto quella di un uomo pieno di maestà, ma lacerato da colpi di frusta, coronato di spine, inchiodato a una croce, e accompagnato dalla Santa Madre; talvolta ancora risplendente di gloria e tutto circondato di luce?”. San Colombano non poté far altro che ammirare le meraviglie della grazia presenti nella piccola consigliandole di meditare spesso la Passione di Gesù Cristo.
Andando via, nel benedire la famiglia, trasse in disparte Farone e Burgundofara, consacrandoli entrambi al Signore, manifestando il suo spirito profetico. Non avrebbe più visto quella casa ospitale, ma nella fanciulla, che aveva benedetta, lasciava il suo spirito.

San Colombano (540-615)
Era un monaco irlandese che aveva scelto la via del pellegrinaggio per assecondare la chiamata ricevuta. A trent’anni lasciò il monastero di Bangor e, presi con sé dodici compagni, attraversò l’Inghilterra e raggiunse la Francia finché la sua fama pervenne addirittura al re Sigisberto d’Austrasia, da cui ottenne un fondo per la costruzione del suo primo monastero. Per qualche tempo si spostò in Borgogna, da cui dovette poi allontanarsi per attriti con il re Thierry. Raggiunse Parigi, liberò un ossesso e andò a Meaux; durante tale viaggio si verificò l’episodio delle spighe appena riportato. Secondo il costume irlandese governava i monaci secondo un codice tramandato oralmente, tuttavia egli redasse i capitoli di una Regola, la quale si caratterizzava per la tendenza al rigorismo ascetico, ispirato ai Padri d’Oriente, poi superato da Benedetto. Le sue linee principali si rintracciano nel capitolo intitolato Della perfezione del monaco, di cui ci limitiamo a riportare alcuni punti e qualche brano scritto proprio da Colombano:
Il Monastero è guidato da un solo padre.
Virtù da perseguire: umiltà, pazienza, silenzio, mansuetudine. Obbedienza.
Nutrimento semplice e consumato di sera, allo scopo di non apportare la sazietà e l’ubriachezza e di sostenere, non di nuocere. Si trattava di erbe, legumi, farina miscelata con acqua e un pane cotto due volte, specie di biscotto detto paximatio. Il pesce era ammesso in certe circostanze. La bibita adoperata era la cervogia, una specie di birra di origine nordica. Il latte, stando a certe fonti, non era consumato abitualmente.
Da una predica di Colombano: “Che cosa ti appartiene di più della tua anima? Non perderla, dunque, per il nulla. Non perdere di vista la cose eterne per quelle che sono passeggere. Il mondo intero è estraneo a te, a te che sei nato nudo e che sarai seppellito nudo […] Pensa dunque alla morte, che mette fine ai piaceri del mondo, e vedi dove vanno a finire i godimenti dei ricchi. Che cosa c’è di più degno delle lacrime che questa condizione, che cosa di più infelice di questa miseria?”.

Proprio nell’anno 610 egli predisse al re Clotario che non più tardi di tre anni agli avrebbe posseduto i regni dei due cugini Teodeberto e Thierry. Nel 613 infatti si avverò la profezia. Fredegario ci ricorda il re Clotario con la seguente definizione: “paziente, letterato, timoroso di Dio, gran benefattore delle chiese e dei preti, caritatevole con i poveri e buono e dolce verso tutti”.
Affidò i figli d’Oltralpe ad Eustasio, degno successore, che incontrò il favore di Clotario. Morì il 23 Novembre del 615 a Bobbio, nella vallata del fiume Trebbia, dove si trova una strada intitolata, ancora oggi, a Santa Fara.

Secondo quanto riportato da Giona “Eustasio fu subito così amato da tutti, che nessuno di quelli che avevano ricevuto gli insegnamenti di Colombano, si lamentava più di averlo perduto, tanto si ritrovava nel discepolo la dottrina del maestro“.

Fara lesse senz’altro le lettere di San Girolamo che scrive sulla velatio, il matrimonio mistico con Cristo delle giovani donne nel momento in cui viene loro imposto il velo sacro. E senza dubbio dovette conoscer bene l’esempio di Santa Genoveffa e Santa Celina di Meaux, compagna della prima.

La vocazione e le vessazioni paterne: Dopo la morte di Colombano, la formazione religiosa di Fara fu curata da Eustasio, suo discepolo. Contro la volontà di suo padre, che aveva organizzato per Fara un matrimonio finalizzato alla promozione sociale della famiglia, la ragazza manifestò la sua intenzione di diventare sposa di Cristo.
Iniziò un periodo di vessazioni e sofferenze: Burgundofara versò tante lacrime da perderne la vista. “Preferisco perdere la vista, che la libertà di consacrarmi a Dio” . Fu rinchiusa in casa e colpita, oltre che dal male agli occhi, anche da febbri fortissime, che spingevano a temere per la sua sopravvivenza. Le parole di Fara furono riferite al padre Cagnerico che non voleva più vederla; persino le ancelle la abbandonarono a se stessa, privandola di ogni compagnia.
A questo periodo risale un sogno profetico nel quale vide avvicinarsi al suo letto un religioso che le rendeva la vista. Poi scorse un gran numero di suore, precedute da Cristo, che le ordinava di presiedere a quelle sante vergini e di andare in un monastero costruito dallo stesso suo padre.
Capitò allora che Sant’Eustasio, successore di Colombano a Luxeil, si trovasse a far visita presso il leudo Cagnerico a Pipimisicum, arrivando a scoprire in quali condizioni versasse Fara, quasi sicuramente tramite Cagnoaldo, suo fratello monaco. Rimproverò il leudo per la sua condotta e si fece condurre da lei, interrompendo il suo stato d’isolamento. Giunto alla presenza della malata, si mostrò disposto a cancellare il voto della giovane, ottenendo, però, in risposta, il sussulto della giovane: mai si sarebbe lasciata piegare a “cambiare i beni del cielo con quelli della terra” . A quel punto Eustasio si prostrò per terra in preghiera e le segnò gli occhi con la croce. Avvenne il miracolo: Fara riacquistò la vista.
A seguito di tali eventi Cagnerico si impegnò a lasciare libera Fara nei suoi propositi. Prima che Fara fosse guarita miracolosamente, il padre avrebbe detto, addirittura: “Volesse il cielo che Ella ritornasse in salute e potesse in tal modo votarsi al servizio divino! non mi opporrei a tali voti!” . Ma ben presto dimenticò le sue promesse, tornando ai propri propositi di costringere la figlia al matrimonio. Addirittura egli affrettò i preparativi per mandare la giovane dal suo fidanzato. Fara, allora, fuggì di casa durante una notte. Si diresse verso il ponte di Trilport e si rifugiò nella chiesa di s. Pietro Apostolo. Cagnerico mandò i soldati a cercarla per riportarla a casa, viva o morta. Essi la trovarono in preghiera nella chiesa. Di fronte alle minacce, Fara replicò: “Voi credete ch’io tema la morte? Fatene la prova su questo pavimento. Io con gioia riceverò la morte, in onore di una tal causa, per Colui che non ha disdegnato di morire per me!” I soldati se ne andarono. Altri servi però andarono poi a prenderla con la forza e la rinchiusero in carcere.

mercoledì 22 dicembre 2010




A CHRISTMAS CAROL by Charles Dickens

Stave 1: Marley's Ghost

arley was dead: to begin with. There is no doubt whatever about that. The register of his burial was signed by the clergyman, the clerk, the undertaker, and the chief mourner. Scrooge signed it: and Scrooge's name was good upon 'Change, for anything he chose to put his hand to. Old Marley was as dead as a door-nail.
Mind! I don't mean to say that I know, of my own knowledge, what there is particularly dead about a door-nail. I might have been inclined, myself, to regard a coffin-nail as the deadest piece of ironmongery in the trade. But the wisdom of our ancestors is in the simile; and my unhallowed hands shall not disturb it, or the Country's done for. You will therefore permit me to repeat, emphatically, that Marley was as dead as a door-nail.

Scrooge knew he was dead? Of course he did. How could it be otherwise? Scrooge and he were partners for I don't know how many years. Scrooge was his sole executor, his sole administrator, his sole assign, his sole residuary legatee, his sole friend and sole mourner. And even Scrooge was not so dreadfully cut up by the sad event, but that he was an excellent man of business on the very day of the funeral, and solemnised it with an undoubted bargain.

The mention of Marley's funeral brings me back to the point I started from. There is no doubt that Marley was dead. This must be distinctly understood, or nothing wonderful can come of the story I am going to relate. If we were not perfectly convinced that Hamlet's Father died before the play began, there would be nothing more remarkable in his taking a stroll at night, in an easterly wind, upon his own ramparts, than there would be in any other middle-aged gentleman rashly turning out after dark in a breezy spot -- say Saint Paul's Churchyard for instance -- literally to astonish his son's weak mind.

Scrooge never painted out Old Marley's name. There it stood, years afterwards, above the warehouse door: Scrooge and Marley. The firm was known as Scrooge and Marley. Sometimes people new to the business called Scrooge Scrooge, and sometimes Marley, but he answered to both names: it was all the same to him.

Oh! But he was a tight-fisted hand at the grind- stone, Scrooge! a squeezing, wrenching, grasping, scraping, clutching, covetous, old sinner! Hard and sharp as flint, from which no steel had ever struck out generous fire; secret, and self-contained, and solitary as an oyster. The cold within him froze his old features, nipped his pointed nose, shriveled his cheek, stiffened his gait; made his eyes red, his thin lips blue and spoke out shrewdly in his grating voice. A frosty rime was on his head, and on his eyebrows, and his wiry chin. He carried his own low temperature always about with him; he iced his office in the dogdays; and didn't thaw it one degree at Christmas.................

Storia e origini del Natale

Tutto nasce dal solstizio d'inverno, il 21 dicembre, giorno in cui, ogni anno le giornate cominciano ad allungarsi: l'inverno è al culmine e da quel momento la sua parabola scende, per far posto alla primavera.


Per gli antichi questo giorno cadeva il 25 dicembre e lo si celebrava con feste diverse e ricche di significati.

In Siria e in Egitto era celebrato come il giorno della nascita del Sole, poiché a partire da questa data i giorni cominciano ad allungarsi e la potenza del sole aumenta. I celebranti si ritiravano in appositi santuari da dove uscivano a mezzanotte, annunciando che la Vergine aveva partorito il Sole, raffigurato come un bambino.

Nell'antica Roma i Saturnalia, che avevano inizio il giorno 19 dicembre e si prolungavano fino al 25, erano feste di gioia, di speranza per il futuro e in tale occasione si rinnovavano i contratti agrari. Quando poi, nel corso dell'ultimo cinquantennio precedente la nascita di Cristo, a Roma fu introdotto il culto del Dio Sole, probabilmente dagli schiavi siriani, si cominciò a festeggiare anche il Deus Sol Elagabalus.


Il Natale pagano diventa cristiano


Il Natale come giorno della nascita di Gesù Cristo nasce in tempi recenti, intorno al IV secolo dopo Cristo.


Poiché i Vangeli non facevano alcun riferimento ad un'eventuale data di nascita, la Chiesa, che originariamente non festeggiava la nascita di Gesù, decise di fissare una data da celebrare, per arginare i culti pagani e possibilmente inglobarli nelle proprie celebrazione.

Nel corso degli anni furono commemorate le date più disparate: il 6 gennaio, il 25 marzo, il 10 aprile, il 29 maggio. La Chiesa d'Oriente si decise per il 6 gennaio che era, presso i Greci, il giorno dell'Epifania (apparizione) di Dionysos. Per la Chiesa D'Occidente la data del 25 dicembre apparve ufficialmente nel corso del quarto secolo dopo Cristo, al fine di fare coincidere la nascita di Gesù con le festività del solstizio d'inverno e della nascita del Sole, celebrate da tempo immemorabile dai popoli europei.

In entrambi i casi ciò che il Cristianesimo fece fu di incorporare nelle proprie tradizioni popolari preesistenti.
I dottori della Chiesa, infatti, si resero conto che gli stessi cristiani avevano una certa inclinazione per quei festeggiamenti pagani: così stabilirono che la natività dovesse essere solennizzata in quel giorno e la festa dell'Epifania il 6 gennaio. L'origine pagana della festa di Natale è implicitamente riconosciuta anche da Sant'Agostino, quando esorta i fratelli cristiani a non celebrare in quel solenne giorno, come facevano i pagani, il sole, bensì colui che aveva creato il sole.

Nel 1100 il Natale era diventata la festa religiosa più importante dell'Europa. La sua popolarità crebbe fino alla Riforma, quando molti cristiani cominciarono a considerare il Natale una festa pagana, e in Inghilterra e in alcune colonie americane, venne considerata fuorilegge.

martedì 21 dicembre 2010



Anne Boleyn's Heart


Henry VIII ripped England away from Catholicism to divorce his first wife and marry the witty and sophisticated Anne Boleyn. But Henry, desperate for a male heir, thought the marriage cursed after Anne produced only a daughter and multiple miscarriages. The king accused her of having affairs with commoners and even her own brother. Anne Boleyn was soon arrested and beheaded at the Tower of London in 1536, and legend has it that on the orders of King Henry, her heart was torn out. Allegedly, Henry secretly kept it in a heart-shaped casket in a church alcove in Suffolk, until it was rediscovered in 1836 and reburied underneath the church's organ.


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lunedì 20 dicembre 2010


UGO DI TOSCANA (Ugo dei Tusci)

La Firenze contemporanea può ammantarsi dell'onore di essere il capoluogo della Regione Toscana grazie, in un certo senso, a quanto decise un "antico toscano", vissuto in un periodo storico lontano, in cui l'Europa moderna ha radice trovando numerosi assetti politici e territoriali fondamento, denominato convenzionalmente Medioevo.
In epoca alto medievale insieme a ` tanti Papi, Imperatori, Re e cavalieri operò un uomo d'alto lignaggio, fra i più illustri e autorevoli del suo tempo, I quale Ugo Marchese di Tuscia, della Toscana (953/4-1001), nome un tempo leggendario nella memoria dei fiorentini, a differenza d'oggi, i quali, fino a circa duecento anni fa, solevano radunarsi al cospetto del sepolcro del Marchese alla Badia fiorentina nel giorno dell'anniversario della sua morte avvenuta il 21 dicembre del 1001.

I cittadini di Firenze furono, infatti, per lungo tempo grati al loro signore non solo per il buon governo che seppe instaurare ma anche per avere fatto della loro urbe la sua sede, trasferendovi la corte da Lucca, tradizionale città dei Marchesi di Toscana, i quali, prima di lui, si intrattenevano a Firenze soltanto per le sedute del tribunale e per altri incarichi amministrativi.
Il Marchese Ugo, al quale piaceva la Toscana tutta, ebbe una predilezione per Firenze: "e a costui piacque la stanza di Toscana, e massimamente nella città di Fiorenza, fececi venire la moglie, e in essa fece suo dimoro, siccome Vicario di Otto Imperatore", come ricorda lo storico Malespini.

Un legame stretto e indissolubile con la città lo leggiamo nei colori dello stemma del Marchese appartenente al casato tedesco dei von Brandenburg, il bianco e il rosso, che da allora sono divenuti i colori di Firenze.
A buon diritto, il Marchese Ugo deve essere considerato l'antenato storico della moderna Firenze che allora toccava il punto più basso della sua lunga storia: poco più di tremila abitanti ritiratisi all'interno dell'antica cerchia romana; una città piccola e in decadenza che all'alba dell'anno 1000, grazie anche al suo nuovo status politico, iniziò a dare segni di ripresa. Con il passaggio al secondo millennio incominciò un periodo di fioritura culturale che ebbe le sue stupende espressioni nel Battistero e nelle Chiese di San Miniato e dei Santi Apostoli, primissime testimonianze di una peculiarità creativa tipicamente fiorentina, alla quale fecero riferimento gli architetti del Rinascimento.



Dalla Toscana la storia del Marchese Ugo, figlio di Uberto e di Willa di Bonifacio Duca di Spoleto e Marchese di Camerino, nipote di Ugo di Arles Re d'Italia, imparentato con le più nobili famiglie dell'epoca e discendente da Carlo Magno, si intreccia con gli intensi rapporti che questa regione ebbe coll'impero di Germania e col papato.

In un tempo di torbidi e di violenze quale il secolo decimo passato alla storia come "il secolo di ferro", quando crisi economiche e politiche si sovrapposero a crisi morali e religiose, il Marchese scelse di non essere soltanto, come il suo alto ruolo imponeva, un valente uomo d'arme. Ugo di Toscana eccelse ancor di più per le sue doti diplomatiche e per la sua equità nelle cose del governo, verso i sudditi. A lungo, dopo la sua morte, venne considerato il prototipo del perfetto principe.

Al governo della Toscana fu uno dei principi laici più potenti del tempo e per un certo periodo uno dei primi personaggi dell'impero, schierandosi apertamente con il programma politico della dinastia sassone. Profondamente convinto del primato imperiale su quello del Papa, divenne un fedelissimo degli Ottoni schiacciando nel proprio territorio la recalcitrante feudalità, privandola di molti privilegi. Restaurando comunque e dovunque l'autorità imperiale accanto all'Imperatore Ottone III, viene considerato il fondatore della compagine della moderna Toscana.

Fecero parte integrante della sua strategia politica il riconoscimento di alcune attribuzioni laiche alle più "duttili" autorità ecclesiastiche, che si impegnò a riformare, e le numerose fondazioni monastiche che volle nel territorio, poiché esse non divennero siti monastici sotto tutela personale di importanti famiglie, com'era solito, bensì furono abbazie marchionali o imperiali, costituite, quindi, per riaffermare il potere dei sovrani e non per indebolirlo. La riforma ecclesiastica era per lui di precipuo interesse politico oltre che religioso. Legato alla figura di San Romualdo, iniziatore dei camaldolesi, fondò ben sette abbazie a partire da Firenze con l'erezione della Badia, i cui monaci, fino oggi cultori della sua memoria e a lui devoti e riconoscenti, ogni anno, a partire dal primo anniversario della sua morte, il 21 dicembre, celebrarono, e ancor celebrano, una messa in suo ricordo, in antico col concorso di molto popolo ed ora alla presenza di autorità e di una rappresentanza in costume rinascimentale del Corteo della Repubblica Fiorentina.

Per la sua saggezza nel governare, caso piuttosto unico fra i potenti del suo tempo, lasciò "per molti secoli di sé grata memoria ai fiorentini"; la fama di Ugo di Toscana si dilatò presso i posteri e su fatti accertati si innestarono numerose leggende a testimonianza di quanta ammirazione aveva suscitato e continuava a suscitare. Lo stesso Dante, che componeva in versi due secoli dopo la sua morte, collocò "il Gran Barone", come lo appellò, nel suo `Paradiso' (XVI, 127-129) e Mino da Fiesole, nel 1481, per lui fu l'artefice del monumento funebre, tuttora visibile alla Badia fiorentina. Ancora alla Badia, a emblema del sempre vivo ricordo, Raffaele Petrucci nel 1618 scolpì la statua con le sembianze del Marchese che venne allocata nel chiostro grande.

SBF
nella foto lo stemma di Ugo dei Tusci

domenica 19 dicembre 2010


La storia seguente potete trovarla all'interno di alcune edizioni del Vangelo delle Streghe di C.G. Leland, anche se non fa parte del testo stesso, ma l'autore l'ha voluta aggiungere a conferma del fatto che l'adorazione di Diana esisteva da lungo tempo, contemporaneamente al Cristianesimo. Il titolo esatto del manoscritto originale, trascritto da Maddalena che l'aveva ascoltato da un Volterrano, è "La pellegrina della Casa del Vento". Va aggiunto che, come si dice nella storia, la casa in questione esiste tuttora.





Volterra - La Casa del Vento
"C'è una casa contadina all'inizio della collina che in salita porta a Volterra ed è chiamata la "Casa del Vento". Vicino ad essa c'era un piccolo palazzo in cui vivevano una coppia di sposi che avevano un'unica figlia che adoravano. Se la bambina aveva anche solo un piccolo mal di testa, cadevano addirittura in preda al panico. A poco a poco la bambina crebbe ed il solo pensiero della madre era che diventasse suora. Ma alla ragazza non piaceva l'idea e sperava di sposarsi come tutte le altre ragazze. Un giorno, guardando dalla finestra, sentì cantare gli usignoli sulla vite e sugli alberi tanto allegramente.

Disse alla madre che sperava di avere una famiglia di uccellini le cantavano attorno in un allegro nido. A sentire ciò, la madre si arrabbiò talmente che le diede uno schiaffo. La ragazza pianse, ma replicò con coraggio che, sebbene venisse trattata in tale maniera o picchiata, avrebbe presto trovato il modo di fuggire perche non voleva assolutamente diventare suora. A queste parole la madre si spaventò, perchè conosceva lo spirito indomito della ragazza e temette che avesse già un innamorato e che avrebbe fatto uno scandalo su questa disgrazia. Pensando e ripensando, si ricordò di una vecchia signora di buona famiglia, ma ormai decaduta, nota per la sua intelligenza, la conoscenza e il potere di persuasione. Pensò quindi: "Questa è proprio la persona che può indurre mia figlia a diventare pia e ispirarle sentimenti di devozione, cosicchè si faccia suora". Chiamò allora questa persona che una volta era governante e fedele servitrice della ragazza, la quale invece di litigare con la sua guardiana, le si era molto affezionata. Tuttavia nel mondo niente va esattamente come ci si aspetta, e nessuno sa se un pesce o un granchio si nasconde sotto la pietra del fiume.

Così accadde che la governante, non essendo affatto cattolica come sembrava, non vessò la sua pupilla con paure o con la esaltazione della vita monastica. Alla ragazza, che era solita restare sveglia nelle notti di luna a sentire cantare gli usignoli, pareva sentire la governante dalla stanza attigua, che aveva la porta aperta, alzarsi e andare sul balcone. La notte successiva accadde la stessa cosa. La ragazza si alzò molto silenziosamente e, non vista, scorse la donna che pregava, o quantomeno era inginocchiata al chiaro di luna.

La cosa le sembrò molto strana, anche perche pronunciava parole che la giovane non capiva e che senz'altro non avevano alcun carattere religioso. Essendo infine molto preoccupata per lo strano fatto, con timide scuse, disse alla governante ciò che aveva visto. Allora quest'ultima, dopo breve riflessione, chiedendole di mantenere il segreto dato che era una cosa di grande pericolo, le disse: "Da giovane i preti mi istruirono, come è successo a te, ad adorare un dio invisibile. Ma una vecchia in cui riponevo molta confidenza, mi disse: Perchè adorare una deità che non posso vedere, quando c'è la Luna visibile in tutto il suo splendore? Adorala! Invoca Diana, la dea della Luna, e lei esaudirà le tue preghiere. Allora questo è quello che anche tu devi fare: obbedire al Vangelo di Diana, che è la regina delle fate e della Luna".

Persuasa, la ragazza si convertì all'adorazione di Diana e della Luna e, avendo pregato con tutto il suo cuore per avere un innamorato (aveva imparato la scongiurazione alla dea - vedi pagina "La Luna come Dea" in questo link) fu presto ricompensata dall'attenzione e dalla devozione di un coraggioso e ricco cavaliere, che era un corteggiatore così ammirevole come non si potrebbe desiderare di più. Ma la madre che era più predisposta ad una vendetta gratificante e ad una crudele vanità, piuttosto che alla felicità di sua figlia, si infuriò e quando

il gentiluomo andò da lei, gli ordinò di andarsene poichè sua figlia era destinata a diventare suora e lo sarebbe stata, viva o morta. La ragazza fu rinchiusa nella cella di una torre senza neppure la compagnia della governante e sottoposta a dure e gravi pene, perchè doveva dormire sul nudo pavimento. Sarebbe morta di fame se non avesse acconsentito all'idea della madre.

In questa situazione disastrosa pregò Diana di liberarla: subito trovò la porta della prigione aperta e scappò. Avendo avuto un abito da pellegrina, viaggiò in lungo e in largo, pregando ed insegnando la religione dei tempi antichi, la religione di Diana, regina delle fate e della Luna, la dea dei poveri e degli oppressi. La fama della sua saggezza e della sua bellezza si sparse per tutta la regione. La gente l'adorava chiamandola la Bella Pellegrina. Alla fine sua madre, saputolo, di venne furiosa più che mai e dopo molta fatica riuscì nuovamente a farla arrestare e chiudere in prigione. Quindi, arrabbiatissima, le chiese di nuovo se voleva diventare suora;
al che rispose che non era possibile, dato che aveva abbandonato la Chiesa Cattolica ed era diventata una seguace di Diana e della Luna. La madre, considerandola ormai perduta, la consegnò ai preti perche la mettessero alla tortura e poi a morte, come facevano a tutti coloro che non erano d'accordo con loro o che avevano abbandonato la loro religione. Ma la gente non era d'accordo, perchè tutti adoravano la sua bellezza e la sua bontà e c'erano poche persone che non avevano goduto della sua carità. Con l'aiuto del suo innamorato ottenne, come ultimo desiderio, che la notte prima di essere torturata e uccisa potesse andare a pregare, scortata da una guardia, nel giardino del palazzo.


Le fu concesso, e sulla soglia della casa - che esiste ancora - pregò Diana alla luce della luna piena, di essere risparmiata dall'orrenda persecuzione a cui era stata soggetta da quando i genitori l'avevano volontariamente destinata a quell'orribile morte. I genitori, i preti e tutti coloro che volevano la sua morte erano nel palazzo per controllare che non scappasse. Quando, in risposta alla sua preghiera, scoppiò una terribile tempesta e un vento opprimente, che si trasformò in un uragano quale nessuno aveva mai visto prima, che infine demolì e spazzò via l'intero palazzo con tutti coloro che vi erano dentro. Non rimase nemmeno una pietra sopra l'altra, nè un'anima vivente tra i presenti. Gli Dei avevano risposto alla preghiera. La ragazza fuggì felicemente con il suo innamorato, si sposò e la casa contadina dove si rifugiò è tuttora chiamata la Casa del Vento".

sabato 18 dicembre 2010


DUPLICITA’ DI LEDA

Leda Rafanelli, 1880-1971, anarchica individualista e musulmana. Intervista a Alessandra Pierotti.



Alessandra Pierotti ha portato a termine un dottorato di ricerca in “Storia delle scritture femminili” presso l’Università La Sapienza di Roma, discutendo una tesi su Leda Rafanelli.

Scrittura e vita vissuta si intrecciano strettamente nell’esperienza di Leda Rafanelli. Per prima cosa, potresti tracciarne il profilo biografico?
Nel panorama del ’900 italiano Leda Rafanelli (1880-1971) è una protagonista anomala e originale. La sua esperienza umana e quella intellettuale si collocano in un arco cronologico molto ampio che comprende avvenimenti della storia politica e culturale italiana che vanno dalla fine dell’800 sino ai primi anni ’70 del ’900. Leda Rafanelli comincia infatti a scrivere come pubblicista e bozzettista negli anni fin de siècle e nel 1905 pubblica il primo romanzo, proseguendo costantemente la sua attività di scrittura fino al 1971, anno della morte. Rafanelli non è isolata, ma appartiene a un nutrito gruppo di scrittrici che operano tra i due secoli, animate dalla spinta alla modernizzazione e all’emancipazione. Attiva all’interno del movimento anarchico, Leda partecipa, attraverso una scrittura in cui passione politica e tensione letteraria sono fortemente connesse, alla formazione di quella “donna nuova”, che la società ormai richiede. Il modello femminile da lei proposto, attraverso la scrittura e la vita, è quello della donna fuori dagli schemi, impegnata in ambito politico e sociale, totalmente libera, e di una libertà che le consente di essere nello stesso tempo anarco-individualista e fedelmente islamica, di sentirsi dunque consapevolmente “duplice”.
Nata a Pistoia, opera nell’area toscana e poi in quella milanese. Durante la sua giovinezza trascorre anche qualche tempo in Egitto. Questo soggiorno le permette, da un lato, di approfondire il suo legame “innato” con l’Oriente (“Ho sangue arabo nelle vene: mio Nonno materno era figlio di uno Zingaro Tunisino .... Fin da bambina ho sempre detto, con ferma convinzione, che ‘ero nata millenaria’”) convertendosi all’islamismo, dall’altro di intrattenere contatti con alcuni gruppi anarchici. In Egitto, infatti, in quegli anni, opera il gruppo di anarchici che ruota intorno alla “Baracca Rossa” (luogo d’incontro di molti, tra i quali Enrico Pea), con cui Leda entra in contatto, assistendo alle persecuzioni contro alcuni del gruppo, accusati, in realtà ingiustamente, di aver progettato un attentato contro il Kaiser Guglielmo II, in visita in quelle zone.
Tornata in Italia, Rafanelli si stabilisce a Firenze dove, frequentando la Camera del Lavoro, ha occasione di incontrare alcuni degli ultimi superstiti della Prima Internazionale, quali Giuseppe Scarlatti e i coniugi Pezzi, e di ritrovare Luigi Polli, giovane anarchico conosciuto in Egitto, che nel 1902 diverrà suo marito. Si tratterà, in realtà, di un “matrimonio bianco” tra due amici e compagni di lotta. Luigi e Leda fondano la ditta Rafanelli-Polli, una casa editrice che si occupa della stampa di opuscoli anarchici, rifornendo di nuovi testi e nuova linfa la propaganda del movimento. In questa fase della sua vita, Rafanelli è particolarmente attiva sul piano delle lotte sociali, come documentano gli articoli da lei scritti, dai toni fortemente polemici, e le prime segnalazioni da parte della polizia. In concomitanza con la fervente produzione di opuscoli e articoli, Leda inizia anche a sperimentare tipologie di scrittura più complesse e comincia a pubblicare romanzi, racconti e bozzetti ispirati alla protesta sociale. Per l’editore fiorentino Giuseppe Nerbini escono, ad esempio, numerosi scritti tra i quali Un sogno d’amore (1905), opera con cui Rafanelli inizia a confrontarsi con il genere romanzesco.
In quegli anni di inizio ’900, Leda conosce il tipografo aretino Giuseppe Monanni, fondatore a Firenze di “Vir”, rivista che si fa portavoce della nuova tendenza anarco-individualista, verso la quale anche lei ben presto si volge. Dal 1909 Rafanelli si trasferisce con Monanni a Milano, città molto attiva politicamente e culturalmente già dalla fine dell’800, con le sue iniziative editoriali, la proliferazione di testate giornalistiche e la presenza operosa delle donne. In contatto con il gruppo anarco-individualista milanese (guidato da Ettore Molinari e Nella Giacomelli, e riunito intorno ai giornali “Il grido della folla” e “La protesta umana”), Leda intensifica la propria attività di propaganda e contribuisce a promuovere la Società Editoriale Milanese (più tardi Casa Editrice Sociale). A Milano, Rafanelli e Monanni dirigono “La protesta umana” e, nello stesso tempo, continuano la loro esperienza autonoma dando vita alla rivista “Sciarpa nera” (1909), successivamente affiancata, nella propaganda di temi anarco-individualisti, dal settimanale “La questione sociale”. Rafanelli trova il tempo anche per proseguire il suo lavoro letterario, nel quale riformula, con modelli diversi, il proprio intento propagandistico.
A partire dagli anni ‘20 e ‘30, la scrittrice (sia per effetto della politica fascista, che per ragioni di natura privata) inizia a condurre vita ritirata. La sua vena narrativa, comunque, non si esaurisce e Leda si orienta in prevalenza verso racconti per ragazzi o articoli di ricordo. Il desiderio di raccontare il proprio passato spinge Rafanelli ad adottare una modalità narrativa basata sulla memoria autobiografica. Sul piano della vita privata Rafanelli attraversa numerose situazioni di sofferenza: dopo la morte dei genitori, arriva la tormentata separazione con Giuseppe Monanni e, nel 1944, la morte del suo unico figlio, Marsilio, avuto dallo stesso Monanni.
La ricostruzione dell’intero percorso intellettuale evidenzia dunque, nell’arco temporale compreso tra l’inizio del ’900 e i primi anni ’70, un passaggio da una scrittura apertamente propagandistica, o comunque segnata da una intenzione politica, a uno stile più intimistico, del ricordo, che lascia intravedere, talvolta, sullo sfondo l’antica passione politica, segno evidente di una continuità di pensiero e di tensioni nella sua esperienza.
In un testo rimasto inedito dedicato a Pietro Gori, una delle figure più carismatiche del movimento anarchico tra ’800 e ’900, Rafanelli scrive “Io sono una irregolare anche nei ricordi”...
Il nucleo intorno al quale Rafanelli sembra radicare la scrittura memoriale elaborata a partire dagli anni ’50 (cioè la sua ultima produzione) è il racconto della storia del movimento anarchico. Si tratta della narrazione di una storia che lei stessa ha vissuto e che sente l’esigenza di fissare sulla carta, riattraversandola, rielaborandola tramite il filtro della propria memoria. Ma procediamo con ordine.
L’inizio della produzione letteraria di Rafanelli si colloca, come detto, nel passaggio tra ’800 e ’900, e risente della poetica verista (“Sono una seguace della letteratura verista, e non amo descrivere che quello che ho veduto e quanto ho provato”). Gli inizi sono quindi legati alla scrittura di bozzetti destinati alla pubblicazione sulle riviste anarchiche, che confluiscono poi in raccolte, oppure sono riediti sotto forma di opuscoli. La centralità del genere bozzettistico rappresenta in quegli anni l’esplicita dichiarazione di una poetica agganciata alla realtà e di una precisa concezione della scrittura come “veicolo di propaganda” dell’ideologia anarchica. Basti ricordare in questo senso la raccolta dei Bozzetti sociali, usciti in due edizioni (1911 e 1921), emblematico esempio, nel percorso intellettuale di Rafanelli, di scrittura breve con intento propagandistico e documentario.
In questa raccolta Leda Rafanelli affronta temi legati al sociale partendo dalla presentazione di personaggi, situazioni, luoghi, condizioni, tratti dalla realtà più umile. Nella prefazione alla prima edizione, l’autrice spiega la scelta del “bozzetto sociale” con queste parole: “Il bozzetto sociale riflette in poche pagine d’impressioni sentite e di sensazioni vissute, i multiformi aspetti della vita moderna”. Attraverso la brevità del bozzetto l’autrice può dunque cogliere più facilmente le numerose sfaccettature del reale, la molteplicità di situazioni in cui esso si articola, rendendo così più efficace la denuncia dei mali sociali contro i quali intende lottare. Personaggi minori, “esseri che il romanziere non vede, che lo storico non conosce, perché nessuna caratteristica li differenzia dalla folla nella quale si agitano”, divengono eroi, protagonisti, vittime di storie di vita quotidiana, strumenti di denuncia dei mali sociali, esempi per stimolare alla ribellione.
La funzione della scrittura come strumento di propaganda trova chiaramente, in questa opera, il suo luogo ideale. Tutti i personaggi ritratti sono cioè funzionali all’esposizione delle idee anarchiche dell’autrice, utilizzati come esempi appositamente selezionati per porre in risalto ciò che della società deve essere cambiato. La scrittrice evita di dare nomi ai personaggi ritratti (oppure usa quasi sempre gli stessi) e non specifica mai le date.
Questa, dunque, la forma di rappresentazione adottata per la storia e per la realtà di quegli anni: siamo nel primo Novecento, nel pieno dell’età giolittiana, periodo di grande attivismo politico, di forte impegno nella lotta sociale, anche da parte di Rafanelli.
Raramente nei Bozzetti sociali l’autrice lascia spazio al ricordo: nei pochi bozzetti in prima persona (soltanto cinque su cinquantanove) la dimensione memoriale sfuma immediatamente nella rappresentazione-denuncia dei mali della società presente o nella critica, a volte severa e spietata, verso coloro che sono incapaci di ribellarsi e lottare.
Col passare del tempo il gusto “bozzettistico” di sapore verista, teso alla rappresentazione della realtà così come si presenta allo sguardo dell’autrice nel momento della scrittura, si contamina in modo sempre più consistente con il genere memoriale-autobiografico. Ho sempre pensato alla vita di Rafanelli come fosse divisa in due fasi: la prima di propaganda intensa, legata al rapporto con Monanni, e la seconda contraddistinta da una maggiore maturità esistenziale che si caratterizza per una scrittura più intimistica, legata ai ricordi. Questo passaggio avviene in seguito alla prima guerra mondiale (“gli orrori imprevisti della prima Guerra Mondiale”, secondo le sue parole) e poi negli anni del fascismo (a causa delle “vili oppressioni” del regime di Mussolini). Su questo mutamento devono avere inciso -l’ho già accennato - anche avvenimenti legati alla sfera privata di Rafanelli, come la morte del padre (nel 1916) e soprattutto della madre (avvenuta nel 1919).
Nella raccolta di novelle Donne e femmine del 1922 è possibile rilevare tracce di questo passaggio dall’impegno pubblico alla dimensione privata. La lettura delle novelle che compongono l’opera consente di percepire un cambiamento della sua scrittura verso una dimensione più intimistica, più legata alla sua passione per il mondo orientale, più assorta e tesa al recupero memoriale, non più spiccatamente propagandistica. Proprio nei ritratti delle donne che Leda ha conosciuto direttamente e ha stimato (Luisa Pezzi e Nella Giacomelli, ad esempio) è da ricercarsi il precedente letterario più vicino ai racconti che ritraggono compagni anarchici, elaborati da Rafanelli nell’ultima fase della sua vita. Questi ultimi saranno pubblicati, negli anni ’60, su “Umanità nova” e “L’adunata dei refrattari”, o rimarranno inediti (come quello dedicato a Pietro Gori).
Prossima al tramonto, l’anziana scrittrice, ormai lontana dall’impegno attivo all’interno dello schieramento anarchico, dà così il suo contributo di ricordi attraverso i quali rielaborare e riscrivere la storia del movimento anarchico, una storia che si frantuma nella storia di tanti individui e nella propria storia.
Ciò che sorprende in Leda Rafanelli è il sentirsi così libera da essere nello stesso tempo anarchica e musulmana...
Leda è una donna interna al movimento anarchico, sostenitrice anzi di un deciso anarco-individualismo, che è per lei un modus vivendi e non solo una militanza politica. Leda è sempre “contro-corrente”, libera, svincolata da regole predefinite. L’origine di questo suo sentimento di libertà è da ricercarsi negli anni della formazione. Ricordando il suo lavoro giovanile in tipografia, scrive ad esempio: “Oh, la carta stampata! Ha riempito, orientato tutta la mia Vita! Lavoro duro, però, poi che di subito -per le mie capacità e la mia naturale intelligenza, fui tolta ai lavori manuali dei garzoni, e adoprata ‘alla cassa’, come compositrice. Riuscii delle migliori, poi che quel lavoro mi piaceva, leggendo sempre, correggendo le bozze di stampa e cercando in tutti gli ‘scarti’ ed i ‘sotto-pagina’ sempre qualcosa da leggere, specie quando erano articoli di un giornaletto socialista, che veniva stampato saltuariamente, e spesso sequestrato. ... Eravamo giovani, sinceri, entusiasti, anche ‘romantici’, di quel sano, sincero, ardente entusiasmo, che ho sempre avuto in me”.
La fase della giovinezza, da lei tematizzata nella scrittura, è sempre collegata a un particolare luogo, la tipografia, luogo della formazione personale ma, soprattutto, punto nevralgico di convergenza del mondo anarchico.
Attorno alle pubblicazioni delle testate giornalistiche si organizzano i molteplici gruppi che animano l’eterogeneo movimento anarchico. Sia le piccole attività di stampa, sviluppate in clandestinità, sia quelle di maggior ampiezza, finalizzate a un lavoro editoriale a più larga diffusione, come l’esperienza della Casa (poi Libreria) Editrice Sociale, presuppongono un luogo tipografico d’origine, centro di incontri, di relazioni, di scambi. Nella rielaborazione scritta dei propri ricordi giovanili, Rafanelli fa così coincidere la sua prima occupazione presso la tipografia pistoiese con la scoperta del proprio anarchismo.
Presto, come già sappiamo, Leda lascia Pistoia per raggiungere Firenze, dove entra in un determinato clima e ambiente, quello fiorentino del primo decennio del ‘900, fitto di scambi, di relazioni culturali e politiche, punto di origine di fermenti innovatori. Leda scrive a questo proposito: “Abitavo ancora a Firenze, e dovevo andar via anche di là, quando Pietro Gori venne a cercarmi a casa mia. Io, in quei giorni, ero assente, e Lui fu ricevuto dai miei genitori, ed ebbe -naturalmente- amichevole accoglienza, come usavano fare con tutte le mie conoscenze, anche le più strane: Compagni che venivano dall’estero, o che erano allora dimessi dal carcere. Io ho avuto, anche in questo, la completa solidarietà della comprensione della famiglia mia. ... Da me, a Firenze, avevano alloggiato, nei loro viaggi di propaganda, Luigi Fabbri, la sua dolce cugina Bianca -che fu poi la sua compagna- ed il caro Ezio Bartalini. Pietro si ritrovò in famiglia”. Emerge da queste parole un breve schizzo della Firenze animata dalla cultura critica anti-giolittiana.
Tu scrivi che, ad uno sguardo complessivo sulla produzione letteraria di Leda Rafanelli, emergono tre nuclei tematici dominanti: il privato, la storia, il femminile. Mi sembra che, fino ad ora, l’ultimo sia rimasto in ombra nella nostra conversazione.
Negli anni successivi alla Grande guerra, l’immagine femminile ribelle e rivoluzionaria della prima produzione narrativa inizia ad essere sostituita dal modello “orientale”, immagine di donna dedita all’amore, capace di obbedienza e sottomissione. Un cambiamento non facile da spiegare. Interrogandosi su quale sia stato esattamente il percorso che ha condotto Leda ad aderire al mito della donna araba, si può utilizzare come chiave di lettura il procedimento di commistione tra letteratura e vita, sempre attuato dall’autrice nella sua scrittura letteraria. Appare allora evidente come le prime esperienze di scrittura di Rafanelli (i romanzi Un sogno d’amore, Seme nuovo e L’Eroe della folla e i numerosi bozzetti e opuscoli), fortemente propagandistiche e incentrate su figure di donne rivoluzionarie, corrispondano, sul piano della vita privata, alla tumultuosa fase di fervente attività anarchica (dagli inizi del ’900 fino alla prima guerra mondiale); mentre le opere successive (Incantamento, Donne e femmine, L’Oasi), in cui i toni propagandistici, laddove presenti, appaiono moderati (o mascherati), e il modello di donna araba diviene prevalente, riflettano, sul piano privato, la fase di progressivo allontanamento dalla militanza anarchica attiva.
A segnare il percorso di vita e quello di scrittura di Leda Rafanelli, giocano un ruolo determinante sia gli avvenimenti drammatici che riguardano il piano storico collettivo (le due guerre mondiali e il ventennio fascista), sia le situazioni di sofferenza sul piano privato (le abbiamo già ricordate: la morte del padre Augusto e della madre Elettra Gaetani, e la morte del figlio Marsilio nel 1944, nonché la tormentata interruzione del proprio rapporto con Monanni).
Da questa prospettiva, il mondo orientale e la religione islamica si configurano sempre più, sul piano del privato, come una sorta di rifugio, una via alternativa a un presente inaccettabile. Sul piano storico, il mondo orientale si pone, invece, come alternativa “politica” al mondo e al pensiero occidentali, traducendosi in vera e propria battaglia contro il colonialismo. Una battaglia poi confluita in opere composte in pieno regime fascista (mi riferisco, in particolare, a due titoli: L’Oasi e Vedere il mondo. Avventure di due ragazzi eritrei).
Riguardo all’avversione di Leda Rafanelli per il regime fascista, puoi aggiungere altri elementi?
L’autrice presenta nella sua produzione un’idea di maternità in contrasto con quella prospettata dal regime fascista che mirava a far leva soprattutto sul concetto di maternità come “dovere”. Quando il materno viene interpretato positivamente è inteso, da Rafanelli, come dono d’amore, come atto sacro, mai come dovere. In altri casi, invece, la concezione del materno assume una valenza negativa, divenendo un peso, un dolore, una “catena”: Rafanelli individua, così, nella maternità una schiavitù inesorabile. Nella rappresentazione ambivalente della maternità, luogo dello “specifico” femminile universalmente riconosciuto, la scrittrice trova, dunque, un territorio narrativo utile a proseguire, seppur velatamente, la propria battaglia contro la politica mussoliniana.
Paradossalmente, Leda Rafanelli è nota ai più soprattutto per la breve relazione sentimentale con il rivoluzionario Benito Mussolini...
La relazione amorosa, o intima amicizia, con Benito Mussolini è scandita da quaranta lettere a lei inviate dal futuro capo del fascismo, tra il 1913 e il 1914. Si tratta di documenti che Rafanelli utilizzerà, a distanza di trent’anni, per pubblicare il libro Una donna e Mussolini, edito da Rizzoli nel 1946. Narrazione di sé, ricostruzione biografica della figura di Mussolini, rilettura della storia italiana nelle decisive fasi che precedettero il primo conflitto mondiale, stabiliscono i punti di riferimento dell’intero impianto testuale: l’io-narrante, onnisciente e consapevolmente distante dai fatti narrati (“a distanza di anni rimpiango questo grano d’incenso, bruciato in perfetta buona fede in onore di un uomo ambizioso”), presenta il personaggio Benito Mussolini con un’attenzione particolare volta a mettere in evidenza le sue ambiguità sin dalla fase socialista.
Il testo svolge così una duplice funzione: da una parte segue il percorso privato del protagonista nel suo rapporto con la scrittrice, dall’altra ne delinea il percorso pubblico, ricostruendo con grande precisione le fasi che accompagnarono il suo abbandono della linea neutralista per abbracciare quella interventista.
Attraverso il filtro della rievocazione memoriale del proprio vissuto, Leda rilegge così momenti importanti della storia italiana e della propria vicenda personale, un saldo intreccio tra ridefinizione autobiografico-romanzesca dei ricordi e tensione alla ricostruzione storica.
Il risultato è una combinazione perfettamente riuscita: un’opera valida sia da un punto di vista storico-politico, che da quello più specificatamente letterario.

venerdì 17 dicembre 2010


Giudicaele,la leggenda del re Bretone

Nella Bretagna in Francia, Giudicaele, che promosse con ogni mezzo la pace tra Bretoni e Franchi e, deposto l’incarico di re, si dice si sia ritirato nel monastero di Saint-Méen.


La Bretagna, odierna regione della Repubblica Francese, a cavallo tra VI e VII secolo fu il territorio su cui regnò San Giudicaele, sicuramente uno tra i sovrani santi meno noti nella folta schiera di santità che ha affollato le corti europee nel corso dei due millenni dell’era cristiana.
San Judicaël nacque all’incirca nel 590 e fu battezzato da un prete di nome Guodenon. Sino all’età di tre anni fu allevato a casa di suo nonno Ausoche, per poi passare alla corte del re di Bretagna Judhaël, suo padre, alla morte del quale avrebbe dovuto succedere alla corona essendo il primogenito tra tutti i suoi fratelli. Egli profuse dunque ogni forza nell’assicurarsi il trono, arrivando a sostenere i suoi diritti anche con l’uso delle armi. Ma Salomone II, suo fratello e suo competitore, lo battè ed conquistò così il trono verso il 605 circa.
Ora però non gli restò che rinunciare al mondo e vestire gli abiti di penitente, all’età di soli vent’anni, entrando nel monastero di Saint-Jean de Gaël sotto la preziosa guida di San Meen. Tutta la Bretagna, afflitta per il ritiro del suo principe, grazie al quale aveva conosciuto grandi speranze, ammirò questa sua grande scelta, presa non senza una dovuta riflessione, che mise ancor più in risalto le sue splendide qualità.
Le numerose leggende sorte sul suo conto narrano cose meravigliose circa il fervore che lo pervase. La sua ascesi fu sin da subito estrema ed avrebbe raggiunto addirittura dei grandi eccessi, se la saggia discrezione di San Meen non l’avesse moderata. Numerosi altri fatti relativi alla sua permanenza in monastero sono inoltre narrati da dettagliati quanto fantasiosi racconti leggendari. Non era passato molto tempo dal suo ingresso nel convento, che giunse già per Judhaël il momento della tonsura clericale e ricevette l’abito monacale, segni del suo ingresso ufficiale nella vita religiosa.
Un giorno però, quasi inaspettatamente, il santo abate Meen rese la sua anima a Dio, lasciando i suoi discepoli in una grande afflizione che nulla fu capace di consolare.
Judhaël decise allora di lasciare il chiostro alla morte di suo fratello Salomone II, verso l’anno 630, riprendendo gli abiti secolari ed assumendo finalmente la corona di Bretagna. Edificò tutta la famiglia reale e tutta la corte con l’esempio delle sue virtù. Sposò Meronoë (o Merovoë), donna proveniente dalla stessa famiglia e dallo stesso paese della regina sua madre. Anch’ella si dimostrò virtuosa come il marito, impregnata di fede e di pietà, e tutto ciò contribuì a mantenere tra loro una pace ed una concordia ammirabili. Governò il regno con autorità e saggezza, puntando principalmente al rispetto della Legge di Gesù Cristo. Le sue qualità diplomatiche gli permisero di concludere una pacifica alleanza con il re dei franchi Dagoberto. Fatto ciò, decise di abdicare per tornare nuovamente alla vita monacale. Nel 640 circa si ritirò dunque nel monastero di Gaël, ma secondo altri in quello di Paimpont da lui fondato. La morte lo colse il 16 dicembre di un anno imprecisato, forse il 658. In tale data è commemorato dalle diocesi di Quimper e Léon, mentre nel Martyrologium Romanum compare il giorno successivo.
Oggi nella chiesa di Saint-Meen si custodisce solo più la parte inferiore di un femore, mentre il resto delle reliquie di San Judhaël scomparvero al tempo della Rivoluzione Francese.
L’iconografia è solita raffigurare il santo con una corona ai suoi piedi e con una scopa in mano, caratteristica dei personaggi che rinunciarono ad una vita brillante secondo il mondo per abbracciare con gioia i servizi più umili nel chiostro.

giovedì 16 dicembre 2010












L'io e la psicologia di massa

Sigmund Freud



Benché Freud non sia particolarmente propenso a riconoscere caratteristiche nuove nel singolo immerso in un gruppo, tuttavia ammette ed individua effetti del tutto particolari.
Sono almeno quattro gli elementi da evidenziare.

Prima caratteristica è che «per l'individuo appartenente alla massa svanisce il concetto dell'impossibile»: «nello stare insieme degli individui riuniti in una massa, tutte le inibizioni individuali scompaiono e tutti gli istinti inumani, crudeli, distruttivi, che nel singolo sonnecchiano quali relitti di tempi primordiali, si ridestano e aspirano al libero soddisfacimento pulsionale»; «non deve quindi sorprendere che nella massa l'individuo compia o approvi cose da cui si terrebbe lontano nelle condizioni di vita normali». «All'interno di una massa e per influsso di questa, il singolo subisce una profonda modificazione della propria attività psichica. La sua affettività viene straordinariamente esaltata, la sua capacità intellettuale si riduce in misura considerevole, entrambi i processi tendendo manifestamente a eguagliarlo agli altri individui della massa; si tratta di un risultato che può venir conseguito unicamente tramite l'annullamento delle inibizioni pulsionali peculiari a ogni singolo e attraverso la rinuncia agli specifici modi di esprimersi delle sue inclinazioni».

In secondo luogo, ritorna il tema della "alienazione" dell'individuo: «Mentre nell'individuo isolato costituisce quasi l'unico incentivo, nelle masse l'utile personale predomina assai di rado. Si può parlare di una moralizzazione del singolo tramite la massa. Mentre la capacità intellettuale della massa è sempre assai inferiore a quella del singolo, il suo comportamento etico può sia superare di molto il livello di quello del singolo, sia esserne di gran lunga inferiore». Le masse, dunque, sono «anche capaci di realizzazioni più alte, quali l'abnegazione, il disinteresse, la dedizione ad un ideale».

Le altre due caratteristiche sono già emerse, in quanto attraversano trasversalmente i punti precedenti: si tratta dell'"abbassamento/annullamento" ovvero "regressione" del singolo a individuo collettivo, e della "contagiante suggestione del prestigio" operata dalla società. Su questi due aspetti, pressoché inseparabili in quanto dipendenti l'uno dall'altro, il pensiero di Freud è chiaro: «Possiamo dire che gli estesi legami affettivi da noi individuati nella massa bastano a spiegare uno dei suoi caratteri: la mancanza di autonomia e d'iniziativa nel singolo, il coincidere della reazione del singolo con quella di tutti gli altri, l'abbassamento del singolo -per così dire- a individuo collettivo.

Ma, se la consideriamo come un tutto, la massa presenta anche altre caratteristiche. Segni tipici come l'indebolimento delle facoltà intellettuali, lo sfrenarsi dell'affettività, l'incapacità di moderarsi o di differire, la propensione a oltrepassare tutti i limiti nell'espressione del sentimento e a scaricarla per intero nell'azione, forniscono un inequivocabile quadro di regressione dell'attività psichica a uno stadio anteriore, affine a quello che non desta meraviglia trovare nei selvaggi o nei bambini. Questo ci ricorda quanti di questi fenomeni di dipendenza appartengano alla costituzione normale della società umana, quanto poca originalità e quanto poco coraggio personale si trovino in questa, quanto ogni singolo sia dominato dagli atteggiamenti di un'anima collettiva che si manifestano come peculiarità razziali, pregiudizi sociali, adesione a regimi totalitari e così via».

martedì 14 dicembre 2010


Celebrare Imbolc
Fisicamente è opportuno praticare una dieta più leggera, dopo che i banchetti delle feste invernali e la forzata sedentarietà trascorsa al chiuso delle nostre case, hanno appesantito il nostro fisico. Possiamo anche decidere di fare una bella pulizia in casa! E’ utile purificare la nostra casa e il nostro corpo con il fumo dell’incenso: vanno benissimo anche i bastoncini di incenso profumati che si trovano ovunque in commercio. Scegliamo pure l’aroma che ci piace di più e lasciamo che il fumo sottile pulisca i nostri corpi energetici.

Psicologicamente è il momento di purificare la nostra mente dai cattivi pensieri e dai sentimenti inadeguati. Una bella pulizia mentale, che ci consenta di fare entrare in noi la luce della Natura rinnovata e di partecipare al risveglio del cosmo dalla lunga notte invernale.

Spiritualmente può essere utile la celebrazione di piccoli rituali legati ai simboli della festa.

Qui di seguito vengono proposti tre riti che possono essere eseguiti per celebrare Imbolc.

Accendere una candela
Un rituale molto semplice può essere quello di accendere una candela bianca (colore di purificazione) dicendo “Accendo la fiamma di Brigit per illuminare il cammino della mia vita”.
Si mediti per un po’ di tempo sui significati della festa: sul nostro bisogno di purificazione, sulla necessità di abbandonare cose e aspetti della nostra vita che non ci piacciono più, sulle nuove cose che vogliamo portare nelle nostre esistenze.
Poi si porti la candela accesa nelle varie stanze della nostra abitazione, facendo il giro degli ambienti in senso orario (magicamente è la direzione propizia, che porta energia). Alla fine si spenga la candela dicendo “Spengo la fiamma di Brigit per farla vivere in me” e si visualizzi la luce della candela che entra in noi.

Festeggiare Brigid in una famiglia
Se si vuole compiere qualcosa di più tradizionale, gli uomini possono uscire dopo l’imbrunire della vigilia di Imbolc, per andare a raccogliere un dono per Brigit (pietra, conchiglia, penna di uccello) da riportare in casa. Le donne invece possono trascorrere la vigilia di Imbolc pulendo la casa e immaginando di ramazzare via le energie morte dell’inverno: la Vecchia dell’Inverno è cacciata fuori dall’uscio di casa con la scopa.
Poi, sempre le donne, con rametti raccolti in precedenza preparano un letto per Brigit dove depongono una bambola fabbricata con spighe tenute da parte per l’occasione, e danno il benvenuto alla Dea accendendo una candela bianca e meditando sulla nuova vita che sta tornando.
Anche gli uomini, ritornati in casa con il dono per Brigit possono accendere una candela bianca e meditare sul ritorno della luce e della buona stagione.

Accendere tre candele
Un rituale invece più complesso, che possono eseguire tutti, consiste nel procurarsi tre candele (sempre di colore bianco!), e disporle in un triangolo, con la punta rivolta verso nord. Nel centro del triangolo così disposto si pone un calice di acqua (simbolo della purificazione) o di latte (simbolo del nutrimento della nuova vita).
Dopo un breve rilassamento, seduti o in piedi, ci si muove verso la candela a nord, la si accende e si dice “Signora dell’Inverno, ti dico addio, la tua stagione è terminata”. Si visualizzi il gelido potere dell’inverno che si allontana. Dopo avere sostato un po’, ci si sposta alla candela di sud-est, la si accende e si dice “Signora della Primavera, ti offro un caloroso benvenuto, la terra è il tuo letto”. Si visualizzi il gioioso potere della primavera che si avvicina. Dopo un po’ si va alla candela di sud-ovest, la si accende e si dice “Signora dell’Estate, presto io ti chiamerò e risveglierò il tuo amante”. Si visualizzi il potere ancora lontano della bella stagione, desideroso di nascere e pulsante di vita nel sottosuolo.
Quando ci si sente pronti, si va al centro del triangolo, si raccoglie il calice e si dice “Io bevo il potere della Triplice Dea. Possa questo potere diffondersi su tutta la terra per segnare la nascita della primavera”. Si beve dal calice e si immagina il potere che fluisce in noi, attraverso di noi per risvegliare la Natura. A questo punto si può inserire qualche usanza ricordata in precedenza, cioè la fabbricazione del letto di Brigit o l’arsione delle decorazione vegetali delle feste invernali. Oppure si può semplicemente concludere la cerimonia andando a ciascuna delle candele, nell’ordine in cui sono state accese: si spengono dicendo mentalmente o ad alta voce “Va’ fuoco e caccia l’inverno, riscalda la terra e risveglia la primavera”. Ovviamente in tutti questi piccoli rituali le parole delle formule possono essere adattate e se lo desideriamo, possiamo utilizzare brevi frasi che noi stessi avremo composto, secondo le nostre capacità e la nostra sensibilità.

lunedì 13 dicembre 2010


LA FESTA DI IMBOLC E LA DEA BRIGID:festività invernali celtiche

Imbolc è una delle quattro feste celtiche, dette “feste del fuoco” perché l’accensione rituale di fuochi e falò ne costituiscono una caratteristica essenziale. In questa ricorrenza il fuoco è però considerato sotto il suo aspetto di luce, questo è infatti il periodo della luce crescente. Gli antichi Celti, consapevoli dei sottili mutamenti di stagione come tutte le genti del passato, celebravano in maniera adeguata questo tempo di risveglio della Natura. Non vi erano grandi celebrazioni tribali in questo buio e freddo periodo dell’anno, tuttavia le donne dei villaggi si radunavano per celebrare insieme la Dea della Luce (le celebrazioni iniziavano la vigilia, perché per i Celti ogni giorno iniziava all’imbrunire del giorno precedente).

Brigid
Nell’Europa celtica era infatti onorata Brigit (conosciuta anche come Brighid o Brigantia), dea del triplice fuoco; infatti era la patrona dei fabbri, dei poeti e dei guaritori. Il suo nome deriva dalla radice “breo” (fuoco): il fuoco della fucina si univa a quello dell’ispirazione artistica e dell’energia guaritrice.
Brigit, figlia del Grande Dio Dagda e controparte celtica di Athena-Minerva, è la conservatrice della tradizione, perché per gli antichi Celti la poesia era un’arte sacra che trascendeva la semplice composizione di versi e diventava magia, rito, personificazione della memoria ancestrale delle popolazioni.

La capacità di lavorare i metalli era ritenuta anche essa una professione magica e le figure di fabbri semi-divini si stagliano nelle mitologie non solo europee ma anche extra-europee; l’alchimia medievale fu l’ultima espressione tradizionale di questa concezione sacra della metallurgia.

Sotto l’egida di Brigit erano anche i misteri druidici della guarigione, e di questo sono testimonianza le numerose “sorgenti di Brigit”. Diffuse un po’ ovunque nelle Isole Britanniche, alcune di esse hanno preservato fino ad oggi numerose tradizioni circa le loro qualità guaritrici. Ancora oggi, ai rami degli alberi che sorgono nelle loro vicinanze, i contadini appendono strisce di stoffa o nastri a indicare le malattie da cui vogliono essere guariti.

Sacri a Brigit erano la ruota del filatoio, la coppa e lo specchio.
Lo specchio è strumento di divinazione e simboleggia l’immagine dell’Altro Mondo cui hanno accesso eroi e iniziati.
La ruota del filatoio è il centro ruotante del cosmo, il volgere della Ruota dell’Anno e anche la ruota che fila i fili delle nostre vite.
La coppa è il grembo della Dea da cui tutte le cose nascono.

Cristianizzata come Santa Bridget o Bride, come viene chiamata familiarmente in gaelico, essa venne ritenuta la miracolosa levatrice o madre adottiva di Gesù Cristo e la sua festa si celebra appunto l’1 febbraio, giorno di Santa Bridget o Là Fhéile Brfd.
Riguardo questa santa, di cui è tanto dubbia l’esistenza storica quanto certa la sua derivazione pagana, si diceva che avesse il potere di moltiplicare cibi e bevande per nutrire i poveri, potendo trasformare in birra perfino l’acqua in cui si lavava!
A Santa Bridget fu consacrato il monastero irlandese di Kildare, dove un fuoco in suo onore era mantenuto perpetuamente acceso da diciannove monache. Ogni suora a turno vegliava sul fuoco per un’intera giornata di un ciclo di venti giorni; quando giungeva il turno della diciannovesima suora ella doveva pronunciare la formula rituale “Bridget proteggi il tuo fuoco. Questa è la tua notte”. Il ventesimo giorno si diceva fosse la stessa Bridget a tenere miracolosamente acceso il fuoco. Il numero diciannove richiama il ciclo lunare metonico che si ripete identico ogni diciannove anni solari.
Inutile ricordare come questa usanza ricordasse il collegio delle Vestali che tenevano sempre acceso il sacro fuoco di vesta nell’antica Roma, ma più probabilmente la devozione delle suore di Kildare si ricollega alle Galliceniae, una leggendaria sorellanza di druidesse che sorvegliavano gelosamente il loro recinto sacro dall’intrusione degli uomini e i cui riti furono mantenuti attraverso molte generazioni.
Allo stesso modo, nel monastero di Kildare solo alle donne era concesso di entrare nel recinto dove bruciava il fuoco, che veniva tenuto acceso con mantici, come ricorda Geraldo di Cambria nel 120 secolo. Il fuoco bruciò ininterrottamente dal tempo della leggendaria fondazione del santuario, nel 60 secolo, fino al regno di Enrico VIII, quando la Riforma protestante pose fine a questa devozione più pagana che cattolica.

Riti tradizionali di Imbolc
I riti di Brigit celebrati a Imbolc ci sono stati tramandati dal folklore scozzese e irlandese.

Il letto di Bride
Nelle Isole Ebridi (che forse devono il loro nome proprio a Brigit o Bride) le donne dei villaggi si radunano insieme in qualche casa e fabbricano un’ immagine dell’antica Dea, la vestono di bianco e pongono un cristallo sulla posizione del cuore. In Scozia, la vigilia di Santa Bridget le donne vestono un fascio di spighe di avena con abiti femminili e lo depongono in una cesta, il “letto di Brid”, con a fianco un bastone di forma fallica. Poi esse gridano tre volte “Brid è venuta, Brid è benvenuta!”, indi lasciano bruciare torce e candele vicino al “letto” tutta la notte.
Se la mattina dopo trovano l’impronta del bastone nelle ceneri del focolare, ne traggono un presagio di prosperità per l’anno a venire. Il significato di questa usanza è chiaro: le donne preparano un luogo per accogliere la Dea e invitano allo stesso tempo il potere fecondante maschile a unirsi a lei. Anche nell’isola di Man veniva compiuta una cerimonia simile, chiamata Laa’l Breesley. Nell’Inghilterra del Nord, terra dell’antica Brigantia, la ricorrenza veniva denominata “Giorno delle Levatrici”.

La croce di Brigid
In Irlanda, si preparano con giunchi e rametti le cosiddette croci di Brigit, a quattro bracci uguali racchiusi in un cerchio, cioè la figura della ruota solare (che è simbolo appropriato per una divinità del fuoco e della luce); lo stesso giorno vengono bruciate le croci preparate l’anno prima e conservate fino ad allora.La fabbricazione delle croci di Brigit deriva forse da un’antica usanza precristiana collegata alla preparazione dei semi di grano per la semina.

Questi oggetti simbolici, confezionati con materiale vegetale, ci ricordano tra l’altro che la luce ed il calore sono indispensabili alla vegetazione che si rinnova in continuazione, anno dopo anno. Le spighe di avena (o grano, orzo, ecc.) usate per fabbricare le bambole di Brigit, provengono dall’ultimo covone del raccolto dell’anno precedente. Questo ultimo covone, in molte tradizioni europee è chiamato la Madre del Grano (o dell’Orzo, dell’Avena, ecc.) e la bambola propiziatoria confezionata con le sue spighe è la Fanciulla del Grano (o dell’Orzo, dell’Avena, ecc.).Si credeva cioè che lo spirito del cereale o la stessa Dea del Grano risiedesse nell’ultimo covone mietuto: come le spighe del vecchio raccolto sono il seme di quello successivo, così la vecchia divinità dell’autunno e dell’inverno si trasformava nella giovane Dea della primavera, in quella infinita catena di immortalità che è il ciclo di nascita, morte e rinascita. E Brigit rappresenta appunto la giovane Dea della primavera.