martedì 6 novembre 2012

LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE

LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE

Il complesso di forze naturali, sociali e culturali che hanno plasmato l'alimentazione dell'uomo nel corso dei millenni e gli incessanti tentativi individuali e collettivi posti in essere per procurarsi una dieta più abbondante e migliore hanno contribuito a orientare, talvolta in modo decisivo, seppure più spesso appena avvertibile o addirittura inconsapevole, il movimento complessivo della storia dell'uomo, perché il cibo è, che lo si voglia o no, storia.
Basta riflettere sulla condizione individuale e sociale di tutti gli esseri viventi, sulle variabili geometeorologiche dell'ambiente circostante, sulla irregolarità della ciclicità stagionale vegetazionale, sulla imprevedibile occasionalità della disponibilità di risorse nutrizionali per concludere che l'uomo, il più intelligente fra tutti gli esseri viventi, fin dalla più remota antichità ha dovuto esercitare uno sforzo adattivo continuo per superare la durezza dell'esocondizionamento alimentare individuale e approdare a una situazione di endosufficienza nutritiva collettiva, programmata e controllata.
Il lunghissimo processo evolutivo è partito dal primo ominide non più scimmia, assillato dalla sua terragna condizione di fame di milioni di anni fa, per approdare all'uomo ormai astronauta della opulenta società occidentale odierna, libera dai rischi di indisponibilità alimentare, miseria e fame. L'uomo è cioè passato dall'individuale e ancora animalesca quotidiana necessità di caccia a fini di sopravvivenza alla attuale agiata e sovrabbondante disponibilità di cibo, dalla monoassillante attività del cacciatore-raccoglitore preistorico alla creativa poliedricità occupazionale dell'uomo moderno, ormai libero dal primario condizionamento nutrizionale.
Ma per farlo ha dovuto trasformarsi da occasionale profittatore delle risorse alimentari naturali in produttore-programmatore di risorse alimentari industriali. Il passaggio dalla "naturalità" alla "industrialità" alimentare è stata possibile solo dagli sforzi dell'intelligenza umana, che ha fatto acquisire all'uomo una "scienza" dell'alimentazione che gli ha consentito di sviluppare una "tecnologia" alimentare via via sempre più articolata: è l'uso regolare di cibo "conservato" dalla tecnologia scientifica elaborata dall'uomo che ha potuto innescare il processo di civilizzazione umana, perché ha consentito all'uomo di dedicarsi ad altre attività creative e produttive. Senza cibi "conservati" l'uomo sarebbe ancora all'età della pietra: ecco perché la storia del cibo è storia dell'uomo.
Stabilire correlazioni fra le tante informazioni fornite in anni recenti dalle nuove discipline scientifiche nei campi dell'archeologia e antropologia, della biologia, ecologia, economia, tecnologia e zoologia, disperse in molte fonti, getta oggi una luce preziosa sul ruolo svolto dal cibo nei millenni, anche a partire dai tabù alimentari di origine religiosa, dall'influenza unificatrice del pasto familiare e dalle sfumature politiche dell'ospitalità, così come studiare i primordi della coltivazione delle piante e della domesticazione degli animali, gli ingredienti speciali usati nelle cucine delle civiltà antiche, le diete delle popolazioni nomadi e gli effetti del commercio delle spezie è utile ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza su ciò che ha indotto nell'antichità un nuovo e diverso dinamismo nei popoli, ha elaborato i più antichi metodi di conservazione dei cibi e delle nuove tecniche speciali di cottura che questi richiedevano (TANNAHILL, p. 7).
Questi argomenti aprono stimolanti quesiti sul cibo, sulla nutrizione, sull'antropologia, sulla storia, sull'ecologia e su tutta un'altra vasta gamma di argomenti che questo libro si propone di introdurre, se non di colmare, sviluppando l'idea che la "conservazione" del cibo è stato il più potente fattore di civiltà e che, fra gli alimenti "conservati" di origine vegetale e animale, i salumi, con tutto il peso delle loro calorie indispensabili all'alimentazione umana, sono quelli che più degli altri hanno assolto con efficacia alla loro insospettata funzione di sorprendenti agenti di progresso e benessere.
Benché esistano relativamente poche informazioni precise sul mondo prima del 100.000 a.C., gli archeologi hanno riportato alla luce, nei loro scavi, utensili e residui di cibi che permettono di delineare, sia pure a grandi linee, un quadro essenziale della dieta dell'uomo preistorico. Essenziale, perché ciò che l'uomo mangiò durante i lunghi millenni del periodo paleolitico ebbe un'influenza fondamentale sulla rivoluzione neolitica e sul corso di gran parte dello sviluppo successivo: il cibo contribuì a fare dell'uomo ciò che egli è. La trasmutazione della scimmia in uomo ebbe inizio circa quattro milioni di anni fa e fra gli studiosi c'è accordo sul fatto che il mutamento fu avviato da una scarsità di uova, di nidiaci e di frutta, che spinse la scimmia a scendere dal suo habitat familiare sugli alberi per andare a cercare cibo nelle praterie. Là trovò piccoli animali di cui si cibò con un entusiasmo tale da condannare quasi all'estinzione, nel corso dei millenni, un certo numero di specie più piccole.
Nei successivi tre milioni di anni l'uomo-scimmia imparò a uccidere animali di dimensioni maggiori, scagliando contro di loro grossi sassi, con una tecnica di caccia che gli richiese di muoversi su tre zampe e, infine, su due anziché quattro. La sua intelligenza si acuì ed egli entrò in concorrenza con il leone, con la iena e con la tigre dalle zanne a sciabola, che condividevano con lui gli stessi terreni di caccia. I suoi denti, che non gli servivano più per la lotta, mutarono forma e modificarono l'apparato orale: così cominciò a svilupparsi il linguaggio umano, mentre le sue zampe anteriori si trasformarono in mani, che si rivelarono capaci di produrre utensili.
Tuttavia fino al 100.000 a.C. circa l'uomo fu poco più che un predatore efficiente che viveva secondo la legge naturale e che riusciva a sopravvivere perché a essa si era adattato. Sapeva come combattere, come produrre utensili e indumenti, come dipingere immagini sulle pareti delle sue caverne e anche come cucinare, anche se non aveva ancora, sul mondo esterno, un'influenza maggiore di quella che poteva esercitarvi il leone, il lupo o lo sciacallo. Era stato l'istinto di autoconservazione e la necessità della ricerca di cibo che avevano trasformato, durante milioni di anni di evoluzione, un tipo particolare di scimmia in un superanimale bipede: l'uomo. Ma quando, all'inizio della rivoluzione neolitica, l'uomo scoprì come coltivare piante e come addomesticare gli animali, imboccò una via divergente che avrebbe infine mutato il volto della Terra e la vita di quasi tutti gli organismi che la abitavano. Fino a questo punto la ricerca di cibo aveva contribuito a trasformare la scimmia in un ominide: mezzo milione di anni fa l'uomo-scimmia, l'Australopithecus, più scimmia che uomo, era diventato l'Homo erectus, più uomo che scimmia.
L'uomo di Pechino, la prima vera personalità della storia, risale all'incirca a quest'epoca fra il 310.000 e il 290.000 a.C.. Il suo aspetto era ancora molto scimmiesco ma, pur essendo alto solo un metro e mezzo, era pronto ad affrontare avversari pericolosissimi come la tigre, il bufalo e il rinoceronte. Ossi di questi animali sono stati infatti ritrovati sparsi nelle sue caverne, così come ossi di lontra, di pecora selvatica e di cinghiale. L'uomo di Pechino deve comunque la sua fama principale al fatto che egli fu probabilmente il primo a fare uso del fuoco, anche se non necessariamente ad accenderlo. I sei metri di ceneri vegetali ritrovate nella caverna di Ciu-Ciu-Tien in Cina dimostrano infatti che era in grado di organizzarsi al fine di conservarlo. E' plausibile che lo facesse anche per impiegarlo nelle stagioni adatte per provocare artificialmente l'incendio dei boschi al fine di creare radure erbose, in previsione del notevole incremento del prodotto della caccia e della raccolta dei vegetali commestibili (FORNI, p. 96). Col passare del tempo, anche altri uomini in altre parti del mondo scoprirono l'uso del fuoco. Luce e calore all'interno delle caverne ebbero una grande influenza nel processo di umanizzazione, specialmente durante i millenni in cui i ghiacciai avanzarono durante la glaciazione fino a coprire vaste aree della Terra. Col fuoco come alleato, l'uomo non aveva la necessità di ritirarsi precipitosamente dinnanzi all'avanzata dei ghiacci, ma poteva restare in prossimità dei loro margini, adattando a questo nuovo clima le sue tecniche di caccia e la sua dieta, mangiando la carne di animali di grandi dimensioni e resistenti al freddo, come il mammuth lanoso.
All'inizio di uno dei periodi di freddo intenso, attorno al 75.000 a.C., sulla scena preistorica apparve una razza di Homo sapiens dal cervello più grande dell'Homo erectus, l'Homo neanderthalensis, che aveva sviluppato propri riti e rituali, aveva perfezionato una tecnica chirurgica primitiva e aveva cominciato a prendersi cura dei malati e degli anziani. Solo dopo la scomparsa dell'uomo di Neardenthal dalla storia, attorno al 30.000 a.C., diventa possibile trattare meno sommariamente lo sviluppo delle abitudini alimentari, poiché dopo i neardenthaliani emerse una razza di uomini più evoluti che, in un clima temporaneamente mite, riuscirono a produrre utensili più perfezionati e attorno all'11.000 a.C., quando il ghiaccio cominciò a ritirarsi per l'ultima volta e il clima si addolcì, gli uomini, gli animali e la vegetazione cominciarono ad adattarsi ancora una volta: ma ora la tecnologia dell'uomo era abbastanza evoluta perché il suo adattamento potesse assumere una forma più radicale. A questo punto il cibo aveva già svolto il suo ruolo nella genesi dell'uomo: ora esso avrebbe condizionato la storia e questo condizionamento non avrebbe mai avuto un carattere più decisivo di quello assunto tra il 10.000 e il 3.000 a.C., il periodo di gestazione della moderna civiltà.
Quando i ghiacci si ritirarono verso nord, la distribuzione della vegetazione cominciò a modificarsi. Le renne, e gli uomini che da esse dipendevano, seguirono i muschi e le felci che crescevano ai margini del ghiacciaio. Altri animali rimasero indietro e quelli più piccoli trovarono il loro habitat più congeniale ai bordi delle foreste che cominciarono a svilupparsi. Sotto l'influenza dei venti caldi, campi estesi di frumento selvatico apparvero in varie aree del Vicino Oriente. In precedenza l'uomo era stato un cacciatore, non un pastore, un raccoglitore di cibi vegetali, non un coltivatore. Ma a soli duemila anni dal ritiro dei ghiacci avevano avuto inizio la coltivazione deliberata delle piante e la domesticazione deliberata di animali, erano stati fondati i primi villaggi e lentamente la conoscenza dell'agricoltura si diffuse in molte parti d'Europa, dell'Africa e dell'Asia occidentale.
Quando i ghiacci avanzarono per la prima volta un milione di anni fa, si stima che sulla Terra esistesse circa mezzo milione di ominidi. Intorno al 10.000 a.C., alla vigilia della grande rivoluzione neolitica, l'Homo sapiens contava già circa tre milioni di individui. Nel 3.000 a.C., dopo settemila anni di agricoltura e di allevamento, la popolazione mondiale era esplosa sino a raggiungere il traguardo di ben cento milioni di individui. A tanto aveva contribuito il cibo della nuova alimentazione, poiché nella preistoria la vita umana era breve e durante il periodo dei neanderthaliani, ad esempio, meno della metà della popolazione sopravviveva oltre l'età di vent'anni e nove su dieci dei restanti adulti morivano prima dei quarant'anni. Carenze vitaminiche, malnutrizione stagionale, veleni vegetali e cibi contaminati si combinavano in modo tale che un quarantenne sembrasse centenario, con tutto quello che la precoce senescenza poteva comportare.
Ma se l'estrema giovinezza o l'età avanzata dei componenti di quelle comunità primitive non costituivano un ostacolo all'esercizio di attività di base necessarie alla sopravvivenza del gruppo, quali la pesca e la raccolta di cibi vegetali, soltanto i membri più attivi e più capaci di quelle comunità diventavano abili cacciatori e il cacciatore preistorico era indubbiamente abile. Tuttavia l'uccisione della preda, che pure rappresentava un'attività faticosa e spesso pericolosa, poteva rappresentare per lui un compito ben meno difficile di quello necessario a provvedere al suo trasporto e soprattutto a quello della sua conservazione nel tempo. Basti pensare a cosa potesse rappresentare per l'uomo di allora il trasporto a spalle della carcassa di un grosso ruminante ucciso e soprattutto l'assillo di doverne preservare a lungo le carni senza rischiare di innescare processi di putrefazione, in modo da poterle distribuire a scopo alimentare su un arco di tempo abbastanza lungo fra una non facile e occasionale predazione e l'altra.