mercoledì 28 dicembre 2011










Una delle scelte più indovinate del grande sovrano inglese Enrico II fu quella del suo cancelliere nella persona di Tommaso Becket, nato a Londra da padre normanno verso il 1117 e ordinato arcidiacono e collaboratore dell'arcivescovo di Canterbury, Teobaldo. Nelle vesti del cancelliere del regno, Tommaso si sentiva perfettamente a proprio agio: possedeva ambizione, audacia, bellezza e uno spiccato gusto per la magnificenza. All'occorrenza sapeva essere coraggioso, particolarmente quando si trattava di difendere i buoni diritti del suo principe, del quale era intimo amico e compagno nei momenti di distensione e di divertimento.
L'arcivescovo Teobaldo morì nel 1161 ed Enrico II, grazie al privilegio accordatogli dal papa, poté scegliere Tommaso come successore alla sede primaziale di Canterbury. Nessuno, e tanto meno il re, prevedeva che un personaggio tanto "chiacchierato" si trasformasse subito in uno strenuo difensore dei diritti della Chiesa e in uno zelante pastore d'anime. Ma Tommaso aveva avvertito il suo re: "Sire, se Dio permette che io diventi arcivescovo di Canterbury, perderò l'amicizia di Vostra Maestà".
Ordinato sacerdote il 3 giugno 1162 e consacrato vescovo il giorno dopo, Tommaso Becket non tardò a mettersi in urto col sovrano. Le "Costituzioni di Clarendon" del 1164 avevano ripristinato certi abusivi diritti regi decaduti. Tommaso Becket rifiutò perciò di riconoscere le nuove leggi e si sottrasse alle ire del re fuggendo in Francia, dove visse sei anni di esilio, conducendo vita ascetica in un monastero cistercense.
Conclusa con il re una pace formale, grazie ai consigli di moderazione di papa Alessandro III, col quale si incontrò, Tommaso poté far ritorno a Canterbury, accolto trionfalmente dai fedeli, che egli salutò con queste parole: "Sono tornato per morire in mezzo a voi". Come primo atto sconfessò i vescovi che erano scesi a patti col re, accettando le "Costituzioni", e il re questa volta perse la pazienza, lasciandosi sfuggire una frase incauta: "Chi mi toglierà di mezzo questo prete intrigante?".
Ci fu chi si prese questo incarico. Quattro cavalieri armati partirono alla volta di Canterbury. L'arcivescovo venne avvertito, ma restò al suo posto: "La paura della morte non deve farci perdere di vista la giustizia". Egli accolse i sicari del re nella cattedrale, vestito dei paramenti sacri. Si lasciò pugnalare senza opporre resistenza, mormorando: "Accetto la morte per il nome di Gesù e per la Chiesa". Era il 23 dicembre del 1170. Tre anni dopo papa Alessandro III iscrisse il suo nome nell'albo dei santi.

venerdì 23 dicembre 2011


archeologia


I carboidrati complessi: in Toscana
si cucinavano cereali già 30mila anni fa

La scoperta di macine preistoriche rivoluziona quanto si sapeva sulla «paleo-dieta» tra gallette preistoriche e zuppe nutrienti


Siamo in un giorno imprecisato di circa 30mila anni fa, a Bilancino, fra le colline di quello che oggi chiamiamo Mugello, in Toscana. Un Homo sapiens sapiens, simile a noi come aspetto, sta riducendo in polvere le radici di una pianta di palude che cresce rigogliosa nei dintorni, la "Tifa": la farina che otterrà potrà essere facilmente conservata e trasportata e servirà per preparare l'impasto di una "galletta" preistorica o una zuppa molto nutriente, ricca di carboidrati complessi. Le due piccole pietre di arenaria che quell'uomo del Paleolitico superiore ha usato per macinare le radici sono rimaste sepolte fino a poco tempo fa, quando sono state rinvenute da un gruppo di archeologi dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. A prima vista sembravano due pietre qualsiasi ma Anna Revedin e Biancamaria Aranguren, le due ricercatrici responsabili dello scavo, si sono accorte che non era così osservandone la forma e gli avvallamenti, che indicavano tracce d'uso: si trattava infatti di una primitiva macina e di un macinello, e l'analisi degli amidi trovati sulle pietre ha svelato che la pianta usata per dare la farina era appunto la Tifa palustre. Prima di questa scoperta nessuno sospettava che l'uomo primitivo fosse in grado già 30mila anni fa di trasformare i vegetali selvatici in prodotti "raffinati", si credeva che i carboidrati complessi fossero stati introdotti nella dieta umana circa 20mila anni dopo, nel neolitico, con l'arrivo dell'agricoltura e dell'allevamento.

Il ritrovamento ha perciò "ridisegnato" l'evoluzione dell'alimentazione umana, che ha sempre avuto un'enorme influenza sull'evoluzione delle capacità e della vita sociale dell'uomo. Inizialmente l'uomo si nutriva della carne delle carogne, raccoglieva tuberi, radici, bacche, frutta, uova e catturava soltanto piccoli animali, come tartarughe o molluschi. Poi, circa un milione di anni fa, imparò a costruirsi armi più efficaci e poté cacciare animali più grandi, diventando più robusto e forte. «Un passaggio importantissimo fu l'uso del fuoco per cuocere la carne, attorno ai 500mila anni fa: la cottura rende la carne più digeribile e riduce l'energia necessaria ad assimilare i nutrienti, questo ha costituito un vantaggio evolutivo enorme», spiega Anna Revedin, ricercatrice all'IIPP. Lo conferma uno studio apparso di recente sulla rivista PNAS, secondo cui il passaggio dalla carne cruda a quella cotta ha consentito all'uomo preistorico di ottenere più facilmente energia dalla dieta, aprendo la strada a un rafforzamento del fisico e al miglioramento delle capacità cerebrali. Di certo, come scrive l'antropologo Richard Wrangham che ha condotto la ricerca, «Se vogliamo capire le caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali di una qualsiasi specie animale, uomo compreso, dobbiamo guardare alla sua dieta». Imparare a macinare piante selvatiche e ricavarne farine significò, ad esempio, avere un prodotto ricco di carboidrati complessi, nutriente e facile da trasportare: una svolta per l'uomo preistorico, che poteva così affrancarsi per lunghi periodi dalla necessità della caccia, sopravvivendo meglio anche a mutamenti climatici e ambientali sfavorevoli. «La scoperta, oltre a svelare che le attività di raccolta e trasformazione di cibi vegetali avevano un ruolo importante quanto la caccia, dimostra che in Europa c'erano le competenze e le tecnologie per sfruttare l'agricoltura ben prima del suo avvento - spiega Revedin -. Quando l'uomo ha iniziato a coltivare i campi e allevare gli animali tutto è cambiato: da una struttura corporea robusta, necessaria per affrontare la caccia dei grossi animali, si è passati a un fisico più impoverito. L'uomo del neolitico mangiava meno carne, era in balia delle carestie; inoltre, vivendo in gruppi stanziali più numerosi per coltivare le terre, era più soggetto alla diffusione di malattie. La possibilità di fare scorte di cibo maggiori e conservare prodotti raffinati come le farine, unita alla maggiore sedentarietà, ha però contribuito all'incremento demografico». Secondo molti ricercatori l'uomo tuttavia non si è ancora completamente adattato all'agricoltura, e la prova sarebbe nell'attuale diffusione di intolleranze ad alimenti sconosciuti prima del neolitico: l'intolleranza al glutine dei cereali, ad esempio, o quella al lattosio del latte di animali da allevamento.

Sull'argomento c'è grande dibattito. «Certo è che lo studio delle abitudini alimentari degli uomini preistorici non è fine a se stesso ma può avere implicazioni importanti per l'uomo moderno, che dovrebbe capire meglio come è fatto e a che cosa è "più adatto" - osserva l'archeologa -. Probabilmente l'evoluzione culturale è stata più veloce di quella genetica e non siamo riusciti, o almeno non del tutto, ad adattare la nostra fisiologia alla nuova dieta ricca di cereali e carni e latte di animali d'allevamento: la carne della selvaggina cacciata dai nostri antenati più lontani, ad esempio, è ben diversa da quella ottenuta da mucche, capre o pecore allevate nei pascoli con metodi industriali. Non è perciò un caso se da qualche tempo ha preso piede la "paleodieta" che suggerisce di tornare, nei limiti del possibile, a un'alimentazione più simile a quella dell'uomo preistorico per la quale saremmo geneticamente più adattati». Si tratterebbe, in sostanza, di mangiare carni magre (meglio ancora la selvaggina) e tutto ciò che Madre Natura offriva prima che cominciassimo a coltivare i cereali: bacche, frutta fresca e secca, verdura soprattutto cruda, niente zuccheri, farine, cereali raffinati o a maggior ragione cibi industriali. Non facile da seguire, va detto. Revedin, che ha provato su se stessa una dieta più vicina a quelle "del cavernicolo", afferma: «Non si può certo vivere come 40mila anni fa, ma si può "temperare" la nostra dieta con suggerimenti presi da allora: nel mio caso ridurre drasticamente i carboidrati, mangiare carni magre provenienti da allevamenti meno intensivi e muoversi di più ha avuto un effetto indubbio di miglioramento del benessere. Non dico di eliminare i cereali, ma forse può essere opportuno limitarne l'uso o magari cercare fonti di carboidrati alternative che non siano gli attuali grani ricchi di glutine». Le gallette di Tifa pare siano buonissime: le ricercatrici hanno seccato le radici, le hanno macinate e poi con la farina hanno preparato gallette su focolari simili a quelli che usava l'uomo preistorico. Il risultato, dicono, è gradevole. «Dalla dieta dei nostri antenati possiamo prendere spunti per non dimenticare le nostre origini e ritrovare un rapporto più equilibrato con il nostro corpo e con l'ambiente», conclude Revedin.

Alice Vigna
13 dicembre 2011 (modifica il 20 dicembre 2011)
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venerdì 16 dicembre 2011



Ragni DAL MIO LIBRO PAURE ARCHETIPE ED ALTRO ANCORA

Il piccolo ragno si mosse velocemente sfiorando appena la punta della sua scarpa.
Si ritrasse d'istinto con il cuore che le balzò feroce nel petto.
"Sciocca,stai tranquilla,non è l'ora,non è ancora il loro momento"Girò la testa per vedere se le finestre e la porta erano chiuse e se le tavole di legno che aveva messo a sostegno dei vecchi infissi,reggevano.
Non vide fori ,le tavole erano ben fissate così come le aveva inchiodate ,come tutte le mattine faceva da mesi.
Si mosse con esperienza nella stanza buia:conosceva ogni spigolo,ogni angolo,sapeva in una memorizzata mappa della sua mente,la disposizione di ogni sedia o mobile:lo scafale in cui era il libro era nell’angolo opposto rispetto al fornello.
Lì era al sicuro rispetto a fiamme o calore dei cibi che riscaldava.
Il libro:tutto ciò che era e rimaneva,qualcosa di prezioso quasi come i barattoli di fagioli o la carne conservata o le ormai quasi esaurite gallette.
Lui era il libro,la sua voce ,il suo pensiero,il ricordo perduto e sfumato.
Lo prese e si dispose seduta sul materasso per la consueta lettura.
Le pagine le apparirono più fragili del solito,scricchiolava la carta,pronta a frantumarsi,pareva,ad un contatto più intenso.
La pagina era la 236:non amava quella pagina:le sue parole non coincidevano con nessuna sua conoscenza.
Quello di cui si parlava non aderiva a nessuna immagine che la sua mente avesse registrato:un lago.La pagina 236 non diceva cosa dovesse essere un lago,però parlava anche di cielo e lei sapeva cos’era il cielo ,anche se quel cielo non era quello che lei poteva vedere.
Non importava,doveva comunque adempiere al compito:leggere e ricordare e ,forse,ripetere il suo ricordo a qualcuno.
Se mai ci fosse stato un qualcuno.
Il ragnetto si era spostato proprio sotto il tavolo e stava immobile senza dimostrare la minima intenzione di arrampicarsi e affrontare la conoscenza del piatto che lei aveva lasciato ben ripulito.
Non era il momento,presto,l’ora non era ancora arrivata,anche se non si poteva mai sapere se i ragni potessero così,pur solo per capriccio,sconvolgere la precisa cronologia da anni conosciuta.


Si immerse nella lettura sforzandosi,come sempre di far diventare immagini le parole :poiana,cosa poteva essere?Certo era una cosa che si muoveva,anzi volava,forse era animale vivo,come ragni,ma non era certo un ragno .
I ragni si ,lei li conosceva bene,tutti:colori,razze,abitudini,quelli più feroci,gli innocui,i maschi,le femmine che potevano depositare milioni di uova in un anfratto delle pareti:ed era poi morte sicura.
Le poiane no ,non sapeva i colori che potevano avere.
Tanti anni prima suo padre aveva ,in una piccola scatola di legno ,sei o sette bastoncini con una punta meravigliosa.
A volte,molto raramente,prendeva un foglio ,già usato e usato a centinaia di volte,e la invitava a far scorrere i bastoncini e ,nell’immaginar le cose,farle vivere sul foglio.
I bastoncini lasciavano tracce e il padre ,con la memoria del padre suo ,le guidava la mano e a volte uscivano fuori segni che potevano dare un volto alle parole del libro.
Ma suo padre era morto troppo presto per lasciare la memoria nella sua mente o,forse,lei era ancora troppo piccola per la memoria.
Sua madre non aveva la memoria e non l’amava:la riteneva cosa superflua.
Lei era impegnata ad una guerra sistematica e produttiva contro i ragni,e in fondo aveva avuto ragione.
Se erano sopravvissuti non era certo per la memoria di suo padre,ma per la costante battagli di sua madre.
Il leggere la impegnava:rileggeva le pagine senza fine,con determinazione e metodo.
Ogni singola parola doveva penetrare nella sua mente e non importava la comprensione e il piacere:era un antico rito necessario e indispensabile,questo aveva tramandato la memoria.
La carta ormai fragilissima sembrava sgretolarsi ,ma aveva imparato la leggerezza del tocco per non danneggiare il libro.
Mai si era posta il problema di cosa sarebbe stato quando il libro non ci sarebbe stato più:il libro era tutto ciò che rimaneva dei tempi e senza il libro la memoria non sarebbe più stata e senza memoria non ci sarebbe stato più motivo di vita.
Alla terza volta che rileggeva la pagina capì che era il momento di uscire:il libro regolava il tempo senza errori.
Lo chiuse delicatamente e lo ripose sullo scafale dopo averlo avvolto nella sua pezza bianca.
Si mise il cappuccio e sopra il cappuccio la mantella che proteggesse bene anche le spalle ,mise i guanti e calzò le soprascarpe di incerato bianco.

Il padre le aveva detto che erano antiche come il libro e che appartenevano agli uomini che vennero attraverso il fuoco e che proprio quei calzari fecero si che attraversassero il fuoco.
Mise la scala appoggiata al muro per arrivare ad aprire l’abbaino del rifugio:era ora,poteva star fuori 45 minuti prima che il calore bruciasse dentro il suo corpo e sciogliesse i suoi organi.
Serviva acqua e prese con sé il contatore per verificare quanto calore fosse nell’acqua:antiche usanze che in realtà non sapeva bene se fossero utili o no.
Si avvicinò alla scala,il piccolo ragno era ancora immobile ai piedi del tavolo:con indifferenza lo schiacciò lentamente con la punta del piede,poi ripassò sopra a quel che rimaneva pigiando bene con il tallone.
Mise il piede sul primo gradino della scala e cominciò a salire:fuori l’enorme sole collassato cominciava ad illuminare appena la terra facendosi largo nell’oscurità profonda

martedì 29 novembre 2011


Il massacro del Sand Creek
...Il campo Cheyenne si trovava in un'ansa a ferro di cavallo del Sand Creek a nord del letto di un altro torrente quasi secco. Il tepee di Pentola Nera era vicino al centro del villaggio, e a ovest vi era la gente di Antilope Bianca e di Copricapo di Guerra. Sul versante orientale e poco discosto dai Cheyenne vi era il campo Arapaho di Mano Sinistra. In totale vi erano quasi seicento indiani nell'ansa dei torrente, due terzi dei quali donne e bambini. La maggior parte dei guerrieri si trovava diversi chilometri a est a cacciare il bisonte per i bisogni dell'accampamento, come aveva detto loro di fare il maggiore Anthony. Gli indiani erano così fiduciosi di non aver assolutamente nulla da temere che non misero sentinelle durante la notte, tranne alla mandria di cavalli che era chiusa in un recinto sotto il torrente. Il primo sentore di un attacco lo ebbero verso l'alba - il rimbombo degli zoccoli sulla pianura sabbiosa." Stavo dormendo in una tenda" disse Edmond Guerrier. "Udii dapprima alcune squaws di fuori che dicevano che vi era una massa di bisonti che si dirigeva verso il campo; altre dissero che era una massa di soldati. » Guerrier si precipitò subito fuori e corse verso la tenda di Coperta Grigia Smith. George Bent, che stava dormendo nei paraggi, disse che era ancora sotto le coperte quando udì grida e rumori di gente che correva nel campo. « Dal torrente stava avanzando a un trotto svelto un grosso contingente di truppe... si potevano vedere altri soldati che si dirigevano verso le mandrie dì cavalli indiani a sud dell'accampamento; in tutto l'accampamento vi era una gran confusione e un gran vociare: uomini, donne e bambini correvano fuori dalle tende seminudi; donne e bambini che strillavano alla vista delle truppe; uomini che correvano nelle tende a prendere le armi... Guardai verso la tenda del capo e vidi che Pentola Nera aveva una grande bandiera americana appesa in cima a un lungo palo e stava davanti alla sua tenda, aggrappato al palo, con la bandiera svolazzante alla luce grigia dell'alba invernale. Lo sentii gridare alla gente di non avere paura, che i soldati non avrebbero fatto loro del male; poi le truppe aprirono il fuoco dai due lati del campo". Nel frattempo il giovane Guerrier aveva raggiunto Coperta Grigia Smith e il soldato semplice Louderback nella tenda del commerciante. "Louderback propose di uscire e di andare incontro alle truppe. Ci avviammo. Ma giunti sulla soglia della tenda vidi i soldati che cominciavano a smontare da cavallo. Pensai che fossero artiglieri, e che stessero per bombardare il campo. Avevo appena finito dì dirlo che cominciarono a sparare con le carabine e le pistole. Quando mi accorsi che non potevo andare da loro mi diedi alla fuga; abbandonai il soldato e Smith". Louderback si fermò un momento, ma Smith continuò ad avanzare verso i soldati di cavalleria. "Sparate a quel dannato vecchio figlio di puttana! " gridò un soldato dalle file. "Non è migliore di un indiano." Ai primi spari Smith e Louderback fecero dietro-front e corsero verso la tenda. Il figlio meticcio di Smith, Jack, e Charlie Bent si erano già rifugiati lì. In quel momento centinaia di donne e bambini Cheyenne si stavano radunando intorno alla bandiera di Pentola Nera. Risalendo il letto asciutto dei torrente altri giungevano dal campo di Antilope Bianca. Dopo tutto, il colonnello Greenwood non aveva detto a Pentola Nera che finché fosse sventolata la bandiera americana sopra la sua testa, nessun soldato avrebbe sparato su di lui? Antilope Bianca, un vecchio di settantacinque anni, disarmato, il volto scuro segnato dal sole e dalle intemperie, camminò a grandi passi verso i soldati. Egli credeva ancora che i soldati avrebbero smesso di sparare appena avessero visto la bandiera americana e la bandiera bianca della resa che aveva ora innalzato Pentola Nera. Polpaccio Stregato Beckwourth, che cavalcava a fianco del colonnello Chivington, vide avvicinarsi Antilope Bianca. "Venne correndo verso di noi per parlare al comandante," testimoniò in seguito Beckwourth " tenendo in alto le mani e dicendo: Fermi! Fermi!". Lo disse in un inglese chiaro come il mio. Egli si fermò e incrociò le braccia
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finché cadde fulminato ". 1 sopravvissuti fra i Cheyenne dissero che Antilope Bianca cantò il canto di morte
prima di spirare:
Provenienti dal campo Arapaho, anche Mano Sinistra e la sua gente cercarono di raggiungere la bandiera di
Pentola Nera. Quando Mano Sinistra vide le truppe, si fermò con le braccia incrociate, dicendo che non avrebbe
combattuto gli uomini bianchi perché erano suoi amici. Cadde fucilato.
Robert Bent, che si trovava a cavallo suo malgrado con il colonnello Chivington, disse che, quando giunsero in
vista al campo, vide " sventolare la bandiera americana e udii Pentola Nera che diceva agli indiani di stare
intorno alla bandiera e lì si accalcarono disordinatamente: uomini, donne e bambini. Questo accadde quando
eravamo a meno di 50 metri dagli indiani. Vidi anche sventolare una bandiera bianca. Queste bandiere erano in
una posizione così in vista che essi devono averle viste. Quando le truppe spararono, gli indiani scapparono,
alcuni uomini corsero nelle loro tende, forse a prendere le armi... Penso che vi fossero seicento indiani in tutto.
Ritengo che vi fossero trentacinque guerrieri e alcuni vecchi, circa sessanta in tutto... il resto degli uomini era
lontano dal campo, a caccia... Dopo l'inizio della sparatoria i guerrieri misero insieme le donne e i bambini e li
circondarono per proteggerli. Vidi cinque squaws nascoste dietro un cumulo di sabbia. Quando le truppe
avanzarono verso di loro, scapparono fuori e mostrarono le loro persone perché i soldati capissero che erano
squaws e chiesero pietà, ma i soldati le fucilarono tutte. Vidi una squaw a terra con un gamba colpita da un
proiettile; un soldato le si avvicinò con la sciabola sguainata; quando la donna alzò il braccio per proteggersi,
egli la colpì, spezzandoglielo ; la squaw si rotolò per terra e quando alzò l'altro braccio i1 soldato la colpì
nuovamente e le spezzò anche quello. Poi la abbandonò senza ucciderla. Sembrava una carneficina
indiscriminata di uomini, donne e bambini. Vi erano circa trenta o quaranta squaws che si erano messe al riparo
in un anfratto; mandarono fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un bastoncino; riuscì
a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell'anfratto furono poi
uccise, come anche quaattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le squaws non opposero resistenza. Tutti i
morti che vidi erano scotennati. Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto.
Il capitano Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli organi sessuali e udii un
soldato dire che voleva farne una borsa per il tabacco. Vidi un squaws i cui organi genitali erano stati tagliati...
Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia; due soldati la scoprirono, estrassero le
pistole e le spararono e poi la tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo numero di
neonati uccisi con le loro madri ".
(In un discorso pubblico fatto a Denver non molto tempo prima di questo massacro, il colonnello Chivington
sostenne che
bisognava uccidere e scotennare tutti gli indiani, anche dei neonati. « Le uova di pidocchio fanno i pidocchi ,
dìchiarò.)
La descrizione di Robert Bent delle atrocità dei soldati fu confermata dal tenente James Connor: « Tornato sul
campo di battaglia il giorno dopo non vidi un solo corpo di uomo, donna o bambino a cui non fosse stato tolto lo
scalpo, e in molti casi i cadaveri erano mutilati in modo orrendo: organi sessuali tagliati, ecc. a uomini, donne e
bambini; udii un uomo dire che aveva tagliato gli organi sessuali di una donna e li aveva appesi a un bastoncino;
sentii un altro dire che aveva tagliato le dita di un indiano per impossessarsi degli anelli che aveva sulla mano;
per quanto io ne sappia J. M. Chivington era a conoscenza di tutte le atrocità che furono commesse e non mi
risulta che egli abbia fatto nulla per impedirle; ho saputo di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del
fieno di un carro e dopo un lungo tratto di strada abbandonato per terra a morire; ho anche sentito dire che molti
uomini hanno tagliato gli organi genitali ad alcune donne e li hanno stesi sugli arcioni e li hanno messi sui
cappelli mentre cavalcavano in fila.
Un reggimento addestrato e ben disciplinato avrebbe potuto certamente distruggere quasi tutti gli indiani indifesi
che si trovavano sul Sand Creek. La mancanza di disciplina, unita alle abbondanti bevute di whiskey durante la
cavalcata notturna, alla codardia e alla scarsa precisione di tiro delle truppe dei Colorado, resero possibile la fuga
a molti indiani. Un certo numero di Cheyenne scavò trincee sotto gli alti argini del torrente in secca e resistette
fino a quando scese la notte. Altri fuggirono da soli o a piccoli gruppi attraverso la pianura. Quando cessò la
sparatoria erano morti 105 donne e bambini indiani e 28 uomini. Nel suo rapporto ufficiale, Chivington parlò di
quattro o cinquecento guerrieri uccisi. Egli aveva perso 9 uomini, e aveva avuto 38 feriti; molti erano vittime del
fuoco disordinato dei soldati che si sparavano l’uno addosso all’altro. Tra i Capi uccisi vi erano Antilope Bianca,

Occhio Solo e Copricapo di Guerra. Pentola Nera riuscì miracolosamente a trovare scampo su un burrone, ma sua moglie fu gravemente ferita. Mano Sinistra, sebbene colpito da una pallottola, riuscì ugualmente a salvarsi....

giovedì 24 novembre 2011



ISABELLA DI CASTIGLIA,IL LINGUAGGIO E IL POTERE

Alla morte di Isabella I di Castiglia , detta la Cattolica (Madrigal de las Altas Torres , Avila, 22 aprile 1451-Medina del Campo, 26 novembre 1504), i regni peninsulari occidentali si trovano davanti un futuro poco rassicurante. Si devono rispettare i costumi, privilegi e diritti dei diversi territori e dei diversi gruppi sociali. La fine del XV secolo non chiude la lunga tappa di conflitti e guerre nelle terre della Corona di Castiglia , e il XVI secolo continuerà in parte la stessa dinamica bellica. La lunga guerra di espansione cristiana sul territorio andaluso si chiude nel 1492 con la conquista del regno e città di Granada. Tuttavia i problemi sociali, economici e di convivenza tra le diverse etnie e religioni e la strutturazione del territorio dei regni non finiscono in questa data, ma si prolungheranno come un’immensa ombra sul futuro . Il momento culminante sarà l’espulsione del popolo ebreo e della popolazione araba rimasta (morisca), con le diverse rivolte e rimostranze nobiliari. L’opera dell’Inquisizione nelle terre castigliane verrà a creare una psicosi di insicurezza e di paura piuttosto generalizzata tra la gente, che si renderà conto che quasi nessuno si trova al riparo dalle sue lunghe braccia: da una contadina o artigiana quasiasi a Teresa d’Avila , e a Hernando de Talavera ecc. Si moltiplicheranno i processi, alla ricerca di qualunque traccia o sospetto di pratiche non cattoliche, cioè di qualunque indizio che non si è cristiana o cristiano “di vecchia data”. Le terre castigliane rischiano di perdere l’esperienza e i saperi che le donne e gli uomini delle tre culture e delle tre religioni del Libro avevano apportato durante secoli di convivenza.

Con questa espressione erano conosciuti i regni di León e di Castiglia.

Il 13 dicembre 1474, a Segovia, Isabella è proclamata “regina e proprietaria” di Castiglia, e Fernando è riconosciuto suo “legittimo marito”. Il patto di Segovia del 15 gennaio 1475 stabilisce le norme per il governo del regno: “Secondo le leggi e il costume usato e tramandato in Spagna, questi regni doveva ereditarli la regina, come figlia legittima del re don Giovanni, benché fosse donna, in quanto era erede in linea diretta discendente dei re di Castiglia e León, e non potevano appartenere a nessun altro erede, benché fosse uomo, se era in linea collaterale. Ugualmente, si stabilì che a lei, come proprietaria, apparteneva il governo del regno” (H. del Pulgar, Crónica de los Reyes Católicos, ed. di J. de Carriazo, 2 voll., Madrid 1943, cap. XXI).

È stata tradizionalmente considerata la data conclusiva dell’annessione dei territori andalusi ai regni di Castiglia e di Aragona, e può essere anche considerata la data d’inizio dell’espulsione della popolazione mussulmana dalle terre della Penisola.

Il trattato di Alcoçavas - 4 settembre 1479 - mette fine alla guerra (interna ed esterna) iniziata dopo la morte di Enrico IV: Isabella e Fernando sono riconosciuti re di Castiglia, Giovanna la Beltraneja rinuncia ai suoi supposti o non diritti e viene obbligata a passare il resto della sua vita in un convento a Coimbra (dove muore nel 1530), la Castiglia accetta l’espansione portoghese in Africa, e si pattuisce il matrimonio dell’infante Alfonso, principe ereditario del Portogallo, con l’infanta Isabella, figlia dei Re Cattolici.

Durante il regno di Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona inizia il lungo esodo obbligato degli uomini, donne, bambini e bambine di religione ebraica ma nativi dei diversi regni in cui era divisa la Penisola. I re firmarono il decreto di espulsione che doveva essere eseguito nel corso del 1492.

L’inquisizione castigliana cominciò a funzionale a partire dal 1478.

Intendendo il concetto nella sua più ampia accezione di insieme di saperi ed esperienze che una generazione trasmette a quella successiva.

La cronaca di Hernando del Pulgar , la Crónica de la Guerra de Granada e altre illustrano chiaramente la situazione dei regni castigliani, le luci e le ombre che accompagnano le donne e gli uomini di queste terre nel corso del XV secolo e le prospettive che si aprono e si proiettano verso il XVI secolo. E alla complessità etnico-religiosa e sociale dei regni peninsulari si aggiungerà quella delle nuove terre conquistate e poi colonizzate dalle isole Canarie al continente americano: diverse nazioni indiane, diverse organizzazioni familiari e sociali, diverse cosmovisioni e tradizioni culturali, scientifiche e sistemi di credenze. Va configurandosi l’idea e si sta andando verso tempi nuovi.

Per colonizzazione intendo l’organizzazione territoriale, amministrativa e politico-religiosa delle nuove terre conquistate.

Nel corso degli ultimi secoli medievali e agli inizi dell’età Moderna si verifica quello che noi storiche e storici chiamiamo l’ampliamento dell’orizzonte geografico. Alcuni paesi dell’Europa occidentale prendono l’iniziativa di esplorare l’immensità oceanica, in parte per dare uno sbocco all’arretramento del mondo cristiano occidentale di fronte all’avanzata turca. Durante il XV e il XVI secolo si effettuano numerose spedizioni formate da uomini e da alcune donne che permettono di conoscere nuove terre e che le mettono sotto il dominio politico delle monarchie dei paesi a cui appartengono. Si inquadra in questa dinamica l’annessione delle Isole Canarie alla Corona di Castiglia.

Il documento testamentario di Isabella I di Castiglia
La storiografia tradizionale ha studiato con molta attenzione la situazione politica, sociale, economica ed etico-religiosa dei regni peninsulari dei secoli XV e XVI. Si è occupata meno delle trasformazioni culturali e mentali che si stavano verificando, come il peso della scrittura e lettura in lingua materna nel passaggio dal basso Medioevo all’età moderna. Si è studiato l’evoluzione economica delle donne e degli uomini contadini e di coloro che hanno popolato borghi e città; l’evoluzione e struttura della popolazione, dei redditi, dei prezzi e salari. Si è fatto e si fa storia sociale, ma io quando analizzo, sia pur sommariamente, il testamento di Isabella I di Castiglia voglio valutare altri fatti e stabilire altre relazioni. Le relazioni che si stabiliscono a partire dall’ordine simbolico della madre, a partire dall’opera ordinatrice della madre, di colei che ci dà la vita, che dà la misura e ci dà l’autorità, alla quale ci unisce un vincolo divino, con cui ci misureremo in una relazione di disparità e che non dobbiamo giudicare .



Isabella risponde una volta a Fernando: “che mai per nessun motivo aveva voluto causare la benché minima contrarietà al suo amatissimo consorte, per la cui felicità e onore sacrificherebbe degnamente e debitamente non solo la corona, ma la propria salute”. E lo prega “di non separarsi dall’amante sposa, causando la disgrazia di colei che non poteva né voleva vivere lontano dall’amatissimo consorte”. Fernando ascolta gli argomenti e resta accanto alla regina (F. Pérez de Guzmán, Generaciones y Semblanzas, ed. R. B. Tate, Londra 1950, pp. 40-41, cit. in P. K. Liss, Isabel la Católica. Su vida y su tiempo, Madrid 1992, p. 104).

Il testamento di Isabella I - nonostante sia un documento redatto in una maniera in cui pesa molto il formulario diplomatico di questa fonte storica e sia scritto con un linguaggio abbastanza stereotipato - rende conto, a volte tra le righe ma a volte in modo chiaro e reiterato, della costante cura e dell’affetto che la regina mette nelle disposizioni che riguardano sua figlia. E della posizione mediatrice con il re, Fernando, perché Giovanna si appoggi all’esperienza politica di suo padre e accetti le decisioni che egli prenda, insistendo molto sul rispetto e l’amore che lei aveva ed ebbe per lui tutta la vita, affinché servano alla principessa Giovanna.

Il testamento della regina mostra l’amore e il rispetto che la univa al re Fernando. La regina gli concedeva una grande autorità non solo nel suo ruolo di cavaliere e uomo d’armi - in guerra o nelle azioni belliche simboliche o reali (tornei e battaglie) - ma nelle questioni di governo. Con una autorità fondata sulla sua lunga esperienza e sul suo senso comune, ella poté affermare la sua supremazia politica a volte sottolineando e altre volte elaborando il conflitto provocato dalla posizione attribuita agli uomini nel matrimonio. La sua relazione con Fernando poteva aver tenuto conto in qualche momento dei postulati di Alfonso de Madrigal, detto el Tostado: Alfonso de Madrigal [1400-1454, celebre teologo e umanista, vescovo di Avila] aveva suggerito che giacché “l’uomo non poteva sfuggire le pastoie dell’amore, la cosa migliore che poteva fare era cercare una buona moglie, perché l’amore e l’amicizia univano molto profondamente gli individui tra loro, e con Dio, e perché amare era avere un amico che, al tempo stesso, era altro e se stesso ”. Ma Isabella tenne soprattutto in conto l’amore che li unì fin quasi dalla prima volta che si incontrarono a Valladolid -il 14 ottobre 1469 - e l’amicizia che godettero durante la loro convivenza. Isabel e Fernando lasciarono in mano ai loro collaboratori il compito di elaborare le loro rispettive funzioni, competenze e gradi di potere. Ma ebbero cura e diletto, molto spesso, della loro relazione: come riferiscono alcune cronache, “tra il re e la regina non vi era divisione né disgusto, ogni giorno mangiavano insieme nella sala pubblica, parlando di cose piacevoli come si fa a tavola, e dormivano insieme..., le volontà erano con sviscerato amore eguagliate ” “l’amore teneva unite le volontá ”. Questa cura non vuol dire che non si producessero conflitti , nella convivenza come negli aspetti relativi al governo della loro casa e del regno. Le stesse cronache segnalano che i re erano in disaccordo in numerose occasioni, quando uno di loro pretendeva beneficare qualcuna o qualcuno dei propri consiglieri o qualche abitante dei propri regni, e molti altri grandi ostacoli resero difficile la relazione, ma sembra che la loro volontà di patto e concertazione prevalesse quasi sempre sui conflitti.

Vid. LYSS, P. K., Isabel La Católica. Su vida y su tiempo, Madrid, Neréa, p. 103.

Isabella e Fernando si vedono per la prima volta nella dimora signorile di Juan de Vivero in cui alloggiava la giovane principessa, e questo edificio ospiterà più tardi la futura cancelleria reale, la Regia Cancelleria di Valladolid.

Anónimo, Crónica incompleta de los Reyes Católicos (1469-1476), ed. Julio PUYOL, Madrid, 1934, p. 145.

PULGAR, H. del, Crónica, cap. 22.

Probabilmente, tra i momenti delicati che dovettero passare nelle loro convivenza andrebbe citato quando la regina viene a sapere delle infedeltà del marito, e con una grande prova di amore e generosità accoglie e si fa carico delle figlie illegittime di Fernando.

Il testamento di Isabella I di Castiglia ci mostra la relazione primigenia e privilegiata della madre con le proprie figlie. Nonstante il linguaggio un po’ stereotipato del testamento come atto documentale, vediamo una relazione che la regina cura particolarmente. Isabel istituisce erede universale dei suoi regni, alla morte del figlio Giovanni, l’infanta Giovanna. Isabella è consapevole di trasmettere a sua figlia un pesante carico per il quale non è stata preparata né educata in modo particolare. Lo era stato suo fratello, l’infante Giovanni, che era l’erede e il futuro re di Castiglia. Alla sua morte, e a quella della sorella Isabella e di suo figlio Michele, l’eredità ricade con tutto il suo peso su Giovanna.

La regina Isabella aveva educato Giovanna in modo squisito come le sue sorelle, le principesse Isabella, Maria e Caterina. Ma le aveva educate a essere principesse, non a essere le eredi del trono di un regno che si trova in un periodo complesso della sua storia. Isabella sa quanto è duro, nemmeno lei era l’erede di Castiglia, e non poté o no seppe evitare il duro scontro che costò tanto dolore e perdite a lei, alla sua famiglia e alle e agli abitanti della Castiglia per rivendicare e ottenere il suo diritto a regnare, ed è pienamente consapevole che ogni preparazione è poca per sostenere un tale carico, ha dovuto fare un duro apprendistato, rinunciando a volte ai dettami del suo cuore, ai suoi desideri. Ma sempre ha cercato e cercherà di mantenere e dimostrare, affermando in questo sì i suoi desideri, una grande correttezza di fronte all’istituzione monarchica e alla persona che rappresenta il regno .

A partire dal 1468, dopo la morte del fratellino, l’infante Alfonso, cambia l’intestazione delle sue lettere che ora sarà: Isabella, per grazia di Dio principessa e legittima erede successora di questi regni di Castiglia e León.

Non vorrei lasciar da parte ed eludere uno dei temi che la storiografia ha trattato e su cui mantiene ancor oggi discrepanze; mi riferisco al ruolo che la regina ebbe, o che le viene attribuito, rispetto all’Inquisizione. Perché la regina appoggiò l’opera dell’Inquisizione? Le e gli storici non concordano nell’analisi del rapporto e del ruolo di Isabella nel favorire più o meno l’instaurarsi e l’azione dell’Inquisizione nelle terre della Corona di Castiglia. È probabile che la regina, buona conoscitrice del valore e dell’importanza delle e degli ebrei conversi - alcune e alcuni di loro erano molto vicini a lei stessa e alle istituzioni del governo del regno -, cercasse di evitare le morti provocate dalla rivolte popolari contro i conversi nelle campagne e città castigliane. Nei primi tempi dell’Inquisizione cessarono le rivolte e le rappresaglie contro le e gli ebrei conversi, si evitarono i massacri di questi e queste abitanti della Castiglia, ma iniziò un periodo di controllo ideologico che genererà una paura profonda e atavica, per generazioni, del potere dell’Inquisizione. Sicuramente si causarono meno morti ma credo che questo non giustifichi in nessun modo il tentativo di risolvere il problema creato dal fatto che una parte dei e delle converse controllavano in parte il potere del regno e rinnegavano il cattolicesimo. Alcuni di loro si arricchirono molto, accaparrarono un grande numero di cariche pubbliche di varia importanza e natura, e ritornarono alla loro antica fede - l’ebraismo - facendolo pubblicamente e con un po’ di fanatismo. Perché le e gli abitanti cristiani “vecchi” di Castiglia e Andalusia non sopportano in determinati momenti il comportamento delle e dei conversi ? Primo, perché ciò che si sta presentando è un problema sociale, economico e di potere, alcune e alcuni conversi stanno alterando la tradizionale composizione socioeconomica e di potere nelle campagne, in borghi e città della corona castigliana, monopolizzando molte cariche, da quelle dei consigli locali a quelle del Consiglio Reale, e in secondo luogo, ed è molto importante, esiste un problema di idee, di pensiero e di conoscenza. L’Europa occidentale cristiana si trova in un momento di insicurezza, sono state messe in discussione alcune teorie in alcuni campi del sapere (come nella geografia, nell’astronomia ecc.), cambia la concezione dello spazio e del tempo, e altri ambiti di conoscenza come la filosofia e la religione sono in un momento di incertezza, di riformulazione , e forse per questo reagiscono chiudendosi e imponendo in modo violento le loro verità e pratiche. E la Castiglia che era rimasta abbastanza ai margini dell’intolleranza e della barbarie religiosa (contro l’eresia catara, contro i templari, contro gli “spirituali”, contro le e i mistici, contro modi di intendere il fatto religioso e la fede e contro pratiche, soprattutto femminili ma anche maschili, molto più libere), in questo momento vi si inserisce -con tutta la forza della nuova struttura di potere che stanno sviluppando Isabella I di Castiglia e Fernando II d’Aragona- perché adesso nelle sue terre si mescolano tutta una serie di elementi che le favoriranno. Credo tuttavia che possiamo essere d’accordo -alcune e alcuni storici- che non vadano inclusi tra gli elementi che favoriscono l’intolleranza e la persecuzione religiosa fattori di odio biologico come lo intendiamo oggi, cioè che non c’è antisemitismo, non c’è razzismo, non c’è antigiudaismo, c’è persecuzione fanatica delle idee e pratiche religiose e c’è anche un odio secolarmente consentito e cercato conto gli ebrei.

Pare che verso la metà del suo regno rinasca nella politica della regina Isabella e dei suoi consiglieri un ideale di crociata, senza dubbio influenzato da quelli e quelle che rappresentavano la parte meno aperta e libera dello spirito religioso castigliano. La storiografia è concorde nel segnalare che la regina ebbe un ruolo importante nel rafforzamento dell’autorità reale e nella guerra di Granada, soprattutto a partire dal 1486; ma non va tralasciata l’influenza di un rigido spirito religioso, poco dialogante e poco aperto, che in certi momenti finirà per impregnare l’attività politica della regina e di alcune e alcuni di coloro che appoggiarono la politica della corona in questi anni. Isabella I diede impulso alla riforma della Chiesa, furono riformati tutti i monasteri, conventi e case di religiose e religiosi, e dal 1478 l’Inquisizione si istallò nei suoi territori. Sembra che questa strada segnata dall’influenza di alcuni ecclesiastici intransigenti abbia condotto gli affari politici del regno, anche se ci vorrà ancora del tempo prima che si spenga la fiamma della libertà conservata e portata da molte donne e uomini religiosi o laici che erano stati, e in parte ancora stavano, vicino alla regina. Ma l’indirizzo riformatore e intransigente si fisserà su due misure che furono particolarmente negative per i suoi regni e avranno profonde ripercussioni, l’espulsione degli ebrei e l’inasprirsi delle misure contro i mussulmani di Granada. La storiografia ha sottolineato in particolare queste due azioni del regno di Isalbella e le ha attribuite esclusivamente a lei. Ma, da un lato, la regina non regnava da sola bensì con il re e un buon numero di consiglieri laici ed ecclesiastici, e, dall’altro, è necessario sottolineare che in altri momenti lei aveva auspicato e appoggiato una politica molto più rispettosa e dialogante. E, sebbene sia possibile che la regina matrocinasse e autorizzasse l’impresa di Colombo inflluenzata dal rinascere dell’ideale di crociata che dominava la politica di buona parte della fine del suo regno, è anche vero che si preoccuperà fino alla fine della sua vita, e in modo esplicito nel testamento, al fine di evitare gli abusi dei colonizzatori delle nuove terre contro gli indiani che ne erano gli abitanti naturali.

Rivolte di Toledo (1449), Ciudad Real (1449 e di nuovo nel 1477), Sepúlveda (1468 e 1472), Segovia (1473, 1474) e in diversi paesi e città dell’Andalusia a partire dal 1473 (Cordova, Cabra, Jerez ecc.).

Dice Diego de Valera -storico, teorico della cavalleria cristiana e maestro di casa della regina Isabella- quando parla di Cordova: “I nuovi cristiani di questa città erano molto ricchi e li si vedeva continuamente comperare cariche pubbliche, di cui si valevano con superbia, in modo tale che i cristiani vecchi non lo potevano sopportare” (cfr. N. López Martínez, Los judaizantes y la Inquisición, Burgos 1953).

Tra altre questioni che attraversano questa epoca storica in tutta Europa, e a mo’ di esempio, vorrei ricordare queste: si mette in discussione, ancora, con maggiore intensità, il ruolo delle creature umane sulla terra, nel mondo (di più, cominciano ad affiorare elementi di contrapposizione tra la fede e la ragione), continuano a svilupparsi nuove forme di potere, e si discute il valore della libertà individuale di fronte al potere dello Stato, ecc.

La differenza di essere donna
Le informazioni che possiamo trarre dal testamento e dal codicillo di Isabella I di Castiglia sono varie, e alcune sono già state raccolte dalla storiografia tradizionale. Ma tra i temi che non sono stati trattati, o lo sono stati con prospettive molto diverse, io metterei in rilievo in primo luogo la relazione della regina con le figlie e i figli, la relazione con il re, l’interesse per il buon governo dei regni, la cura per la mediazione nei conflitti o nelle future tensioni tra la futura regina Giovanna e Fernando il Cattolico, l’insistenza sull’amore, il ruolo della lingua materna e la scrittura in questa lingua sia nei regni peninsulari sia in America. Il ruolo che conferisce alla formazione e all’esperienza. La cura e il proposito che si ascoltino i diversi gruppi socio-economici che formano i suoi regni, in molti casi senza riuscirci a causa della grande difficoltà di tenere insieme desideri e interessi tanto diversi. Il valore conferito al buon governo della casa e per estensione del regno, alla buona organizzazione, alla previsione. Ma anche, e come contrasto, il valore conferito al guerriero, a colui che rischia la vita in battaglia e in guerra, a suo marito, il re Fernando.

Parte de la historiografía coincide en señalar el profundo enamoramiento de Isabel y Fernando desde la primera vez que se reúnen, y del amor y, posiblemente, pasión que hubo entre ellos. La pareja formada por Isabel y Fernando fue una pareja fuerte, a pesar de algunas diferencias de temperamento, carácter y de las dificultades por la que pasó su unión por las infidelidades del rey, y ante otras múltiples situaciones difíciles. Isabel acepta y recibe a su cargo a los hijos e hijas naturales que Fernando había tenido, y se compromete no sólo a garantizarles su crianza y su dote, sino a sostener a sus madres. Sin duda este debió ser una decisión difícil para la reina, porque como escribe su hija, Juana, en una carta fechada el 3 de mayo de 1505, la reina, como ella, era una mujer celosa, hasta que el tiempo la cure.

Isabella e Fernando prenderanno molte decisioni insieme, e insieme staranno anche di fronte ai numerosi problemi e difficoltà che pone il governo dei loro regni; stanno vicini persino in situazioni di guerra, come quando Isabella aspetta suo marito nell’accampamento generale, mentre si combatte davanti a Toro contro il re del Portogallo (1476) . Il primo marzo Fernando , a capo delle milizie popolari, attacca l’esercito portoghese e lo mette in fuga. Isabella aspetterà il risultato della battaglia nell’accampamento o nel quartier generale. Appena avuta la notizia della vittoria ordina di organizzare feste di ringraziamento nelle città e villaggi del regno e promette di costruire a Toledo la chiesa e il monastero di San Giovanni dei Re, che viene iniziato nel 1478.

Isabella scelse di stare con Fernando come donna e come regina, e desidera e vuole stare vicino a lui, se così desidera il re, anche nella tomba. Lo dice nel testamento: “...ma voglio e comando che se il re, mio signore, scegliesse sepoltura in qualsiasi altra chiesa o monastero di qualsiasi altra parte o luogo dei miei regni, il mio corpo sia trasportato lì e sepolto vicino al corpo di sua signoria perché la coppia che formiamo in vita la formino le nostre anime nel cielo e la rappresentino i nostri corpi in terra”.

Lotte che si inquadrano nel conflitto con il Portogallo e i tentativi del monarca lusitano di occupare terre castigliane e anche appoggiare le pretese al trono della nipote di Isabella, Giovanna detta la Beltraneja. Lo scontro si prolunga fino alla sconfitta dei portoghesi ad Albuera nel febbraio 1479.

Fernando sarebbe per Isabella come quei cavalieri cristiani le cui avventure si mantenevano vive nelle romanze e leggende popolari che cominciavano ad essere di moda a Corte. Non sappiamo quante volte Isabella nella sua infanzia a Madrigal e ad Arévalo avrà ascoltato quei poemi orali e anche i racconti di qualche cavaliere -o di qualche soldato della guarnigione di Arévalo- sulle gesta nel conflitto di frontiera contro i mussulmani. Questi racconti, romanze, poemi, leggende e anche cronache trasmetteranno la nostalgia per un passato eroico e non troppo lontano, e il desiderio di imitarlo e di dedicare la vita alla conquista.

Mi interessa qui sottolineare che la storiografia raccoglie il fatto menzionando la presenza della regina attorniata da quattordici dame. Isabella era sempre circondata da donne, sua madre, le sue figlie, le sue dame e damigelle e un’infinità di donne che erano al suo servizio e a quello della sua Casa. In momenti importanti per lei le fonti scritte e/o iconografiche la mostrano attorniata da dame, come si vede nel bassorilievo dell’Ingresso a Granada, dove si contano nove o dieci donne.

Isabella fu attorniata da donne a partire dalla morte del padre, Giovanni II, e in alcuni momenti ce ne sono parecchie nello spazio in cui si muove l’infanta Isabella, la futura Isabella I. Ad Arévalo, verso il 1454, poco dopo la morte del padre, ci sono tra le altre sua nonna, sua madre, sua zia Maria. Maria - sorella di suo padre - regina d’Aragona per quasi vent’anni, donna potente, aveva governato bene e con saggezza l’Aragona mentre Alfonso V, il Magnanimo, risiedeva alla corte di Napoli. Maria veniva ad Arévalo per mediare e negoziare con suo nipote, Enrico IV, in nome di suo cognato il re Giovanni di Navarra, fratello di Alfonso V. Maria regina d’Aragona e Maria, sorella di Alfonso V il Magnanimo e prima moglie di Giovanni II, erano state due donne importanti per la storia della Castiglia: entrambe regine e cugine, avevano fatto opera di mediazione in molti momenti, alcuni cruciali, nei variabili e a volte difficili rapporti tra Aragona-Catalogna e Castiglia.

Isabella si sente accompagnata da molte donne di fiducia che la possono consigliare, soprattutto quando sta ad Arévalo e a Madrigal dove passa una parte dell’infanzia, ma sarà accompagnata da alcune donne anche quando nel 1461 suo fratello, il re Enrico IV, trasferisce lei e il fratello Alfonso a Corte.

Sicuramente questa compagnia femminile a Madrigal e ad Arévalo durante i suoi primi dieci anni di vita fornì all’infanta Isabella, futura Isabella I, la stabilità e la padronanza di sé necessarie per il futuro. Le storie delle sue due famiglie le saranno certo state raccontate e spiegate da alcune di queste donne e le avranno dato un forte orgoglio del proprio lignaggio reale, un grande senso di quali fossero i suoi diritti legittimi, e un forte senso di responsabilità. Le avranno insegnato anche l’importanza della cura del corpo, l’importanza della bellezza , dell’ornamento, l’importanza di presentarsi in pubblico vestita in modo conveniente, e l’importanza di un portamento regale. Isabella, a differenza di altre infante e infanti reali castigliane e castigliani, aveva goduto in questo ambiente di Madrigal e di Arévalo, circondata dalla nonna, dalla madre e da altre dame, di una maggiore stabilità e intimità familiare, e aveva goduto anche di una grande attenzione e cura dei rapporti personali e di una lunga permanenza in uno spazio fisico, un “palazzo”, costruito con una misura molto umana , molto lontano da quello che sarà poi per esempio El Escorial o altri grandi palazzi, forse meno adatti a crescere le e gli infanti reali.

Numerosi ritratti o raffigurazioni di Isabella I riprendono questa cura e bellezza della regina, secondo i canoni dell’epoca. Il Maestro de Manzanillo, un pittore castigliano del XV secolo, nella tavola in cui ritrae i re poco dopo le nozze, coglie particolari che sono stati messi in risalto da cronisti e storici: la carnagione bianchissima della regina, i suoi capelli biondi, i suoi occhi chiari. Gli occhi e i capelli scuri di Fernando. Una descrizione particolareggiata della regina Isabella - a vent’anni - la fa il suo segretario, il cronista Hernando del Pulgar : “Ben conformata nella persona e nella proporzione delle membra, molto bianca e bionda; gli occhi tra i verde e l’azzurro, lo sguardo gentile e onesto, i lineamenti del viso ben disposti, il volto tutto molto bello e gaio”. La descrizione di H. del Pulgar e la tavola del Maestro de Manzanillo ci trasmettono un’immagine piuttosto coincidente. Anche un altro ritratto conservato a Madrigal riprende questi anni dell’epoca delle nozze dei giovani monarchi, ben somiglianti ed entrambi vicini di età.

Isabella non si costruì mai un grande palazzo reale, la sua corte fu essenzialmente itinerante; invece, grazie al suo matrocinio abbiamo ricevuto, come lascito all’urbanismo e all’arte, alcune magnifiche costruzioni di ospedali e monasteri. I monarchi castigliani non legarono il loro potere a nessun palazzo, nemmeno durante il regno di Isabella e Fernando: la concezione del palazzo come simbolo del potere reale è più propria di altre monarchie, come la francese, e nella Penisola sarà un’idea che si imporrà nell’Età Moderna. Per rendere conto dell’attività edilizia e artistica in generale matrocinata dalla regina, basta solo ricordare tra i monasteri quello di san Giovanni dei Re di Toledo, e tra gli ospedali quello dei Re Cattolici a Santiago de Compostela e quello della Santa Croce di Toledo. L’interesse della regina per l’assistenza si percepisce chiaramente nella preoccupazione di organizzare quello che - a quanto sappiamo - è stato uno dei primi ospedali da campo della storia: un ospedale installato al fronte, sulla frontiera della lotta contro i mussulmani, per l’assistenza ai feriti. Dietro a questo ospedale ci sarà sempre l’Ospedale della Regina, dove si trova Isabella, per disporre di un’assistenza più accurata. Questi ospedali erano equipaggiati con abbondante materiale sanitario, la cui responsabile era nientemeno che la damigella della regina, Juana de Mendoza . Sappiamo da Pietro Martire d’Angleria, il cronista italiano, che la regina visitava quasi ogni giorno questi ospedali, specialmente quello da campo quando si trovava all’accampamento o al quartier generale del fronte (cfr. J. Dumont, La “incomparable” Isabel la Católica, Madrid, 1993, p. 143).

Isabella ideò e/o cercò di portare avanti una politica diversa per qualche aspetto da quella del re Fernando II d’Aragona, anche se ad alcuni e alcune storiche costa percepire o comprendere la differenza quando tracciano un profilo generale del regno. La politica ideata e tracciata da Isabella, se la si analizza da vicino, era differente . Da donna come era si interessò molto di più alle relazioni. Una parte importante del suo tempo e del suo stare al governo della Castiglia la dedicò a disegnare un complesso mondo di relazioni che in molti casi le permisero di sbrogliare grandi affari di stato. Stabilì relazioni con donne potenti e con altre che non lo erano tanto, e alcune le stabilì per necessità, necessità di governo, della sua Casa e del regno, ma molte altre le stabilì per il gusto di stare in relazione con un’altra donna . Con la sua ex damigella Beatriz de Bobadilla e con la sua nuova damigella - ormai da regina - Juana de Mendoza , con entrambe la regina sembra aver avuto una grande intimità e un rapporto di fiducia, che le permetteva di muoversi con grande libertà all’interno di quelli che erano i rapporti nella corte castigliana del momento.

Anche l’emblema dei re, simbolo del nuovo ordine, della nuova monarchia, mostra la differenza. L’emblema unisce il giogo del potere, simbolo di Fernando, con il fascio di frecce, simbolo della giustizia, emblema di Isabella. Questo emblema, che sarà riprodotto su numerosi monumenti e nella moneta corrente, il reale d’argento, è accompagnato a volte dal motto suggerito a Fernando da Nebrija: Tanto monta [Tanto vale]. Motto che si riferisce al nodo gordiano che Alessandro Magno tagliò dopo aver tentato invano di slegarlo, per cui il senso del motto è “tanto vale tagliare come slegare”.

Vid. RIVERA GARRETAS, M.- Milagros, Mujeres en relación. Feminismo 1970-2000. Barcellona, Icaria, 2001.

Questa relazione stretta la percepiamo per esempio nella promessa che verso il 1466 Beatriz de Bobadilla fa alla principessa Isabella, quando Enrico IV pretende e vuole obbligarla a sposarsi con il vecchio ma ricchissimo ebreo converso, Pedro Girón , anche se il re diceva di volere molto bene a sua sorella Isabella.

Beatriz de Bobadilla fu damigella di Isabella quando la futura regina era principessa di Castiglia; Beatriz le era legata al punto da prometterle di usare la sua daga e uccidere con le sue mani Pedro Girón se Enrico fosse riuscito a obbligare la principessa a sposarlo. Pedro Girón, vecchio e molto ricco, fu uno dei pretendenti della giovane principessa che allora aveva solo quindici anni. Isabella era sicuramente inorridita e senza dubbio questo spinse Beatriz a prometterle di salvarla in extremis dal pericolo. Isabella si occupò, come nel caso di altre dame, di cercarle marito tra i nobili e alti funzionari della Corte e del Regno. Beatriz si sposò con il governatore di Segovia e della sua fortezza, Andrés Cabrera, conte di Moya. L’attività della regina e in qualche caso del re per favorire l’unione di dame della corte con alti funzionari, nobili e personaggi di grandi lignaggi, è ben documentata. La regina, e in questo caso anche il re, furono padrini di battesimo dell’ex governatore mussulmano di Baza, Al-Nayar, quando si convertì al cristianesimo con il nome di Pedro de Granada, e favorirono anche il suo matrimonio con la dama di corte Maria de mendoza: Questa relazione privilegiata di Isabella con alcune delle dame della sua cerchia le permise di governare la Casa e il Regno in un’altra maniera, in una maniera differente da quella di suo padre, da quella di suo fratello, Enrico, e da quella di suo marito, Fernando.

Lo stesso Enrico scriveva: “Molto virtuosa mia signora e sorella [...] vi supplico di ricordarvi sempre di me, dato che non avete persona al mondo che vi ami quanto me...” (Lettera autografa dell’Archivio Generale di Simancas, citata da T. de Azcona, La elección y reforma del episcopado español en tiempo de los Reyes Católicos, Madrid, C.S.I.C., 1960, p. 119).

La stretta relazione di Isabella con le sue damigelle e con altre dame della Corte e della nobiltà castigliana e non, favorì in molti casi la richiesta di mediazione in vari affari, che avessero o no a che vedere con il governo del regno. Così, Beatriz de Bobadilla, ormai contessa di Moya, si farà mediatrice con il marito Andrés Cabrera, e costui avrà un ruolo di rilievo nell’adesione della città di Segovia ai giovani principi nel 1473 .

Cfr. DUMONT, J., La “incomparable” Isabel la Católica, pp. 39-40.

Un altro chiaro esempio è dato dalla mediazione della stessa regina, Isabella, su richiesta dell’infanta portoghese, Beatrice. Le due si incontrano alla frontiera, nel paese di Alcántara, e iniziano le conversazioni nel marzo 1479, per organizzare e stabilire la pace definitiva tra Castiglia e Portogallo, dopo lunghi anni di inimicizia a causa degli appetiti territoriali del monarca portoghese che prima aveva approfittato dei momenti di debolezza dovuti alle lotte tra i sostenitori della futura Isabella I e quelli di sua nipote Giovanna, la Beltraneja, e poi aveva appoggiato le pretese di Giovanna che permettevano ad Alfonso del Portogallo di dissimulare le sue intenzioni di conquistare terre castigliane. Due donne, Isabella I di Castiglia e l’infanta del Portogallo, Beatrice, operano una mediazione in un conflitto che era diventato quasi un conflitto intestino, e sicuramente decidono una politica di unione tra le due famiglie, politica che si realizzerà più tardi e che servirà a placare le ansie guerresche dei nobili e dei cavalieri dei due regni. La regina castigliana poteva certamente, per il suo rango e la sua situazione, non accettare la mediazione, ma Isabella dava troppo valore alla relazione tra donne per rifiutare l’offerta, e inoltre di sicuro lei poteva sentirsi vicina a una donna portoghese, sua madre era una portoghese che visse fino alla morte ad Arévalo, in terre castigliane. Entrambe sapevano che la loro mediazione sarebbe stata più positiva ed effettiva quanto a ottenere la lunga e desiderata pace di quella che avrebbero potuto portare avanti alcuni consiglieri di Isabella con i consiglieri di Alfondo del Portogallo. Inoltre, se i nobili di entrambi i regni e Fernando d’Aragona e i suoi accettarono la mediazione delle due donne, è perché sapevano che avrebbe dato frutto e portato la pace.

Isabel tiene in gran conto, nella sua politica, il come si relazionano le persone tra di loro. La segretaria di stato americana Madeleine Albright , una donna che ha operato nella politica seconda, quella maschile, ma in un luogo di grande rilevanza della politica internazionale di fine XX secolo, ha segnalato chiaramente alcune differenze del suo essere donna al momento di agire persino nella politica seconda. Albright segnala che lei come donna e anche altre in cui lo ha notato -e noi lo abbiamo visto analizzando alcuni passaggi della traiettoria di vita di Isabella di Castiglia-, hanno o possono avere una maggiore capacità di visione periferica, sono o siamo capaci di tener conto e di accostarci ad aspetti che non sono sempre presenti davanti a noi e di sviluppare o cercare di sviluppare qualche tipo di consenso.

J. M. Calvo, “Madeleine Albright. La mujer que fue Estados Unidos”, El País Semanal, n. 1447, domenica 20 giugno 2004, p. 17.

Isabella, pur dando autorità come re e come politico a suo marito Fernando, riconosce anche autorità ad altre donne. Riconosce autorità alla Latina, Beatriz Galindo, alla sua maestria nel latino, e le affida il figlio e le figlie perché insegni loro questa disciplina, e lei stessa diventa sua allieva ; e riconosce autorità anche a donne come Beatriz de Bobadilla, Juana de Mendoza ecc., al loro sapere come mediatrici, al loro sapere come organizzatrici, come damigelle e come incaricate di affari concreti, per esempio a Juana de Mendoza come responsabile dell’ospedale da campo fondato dalla regina.

Isabella iniziò a studiare latino durante la guerra di Granada, e pare che nel giro un anno ne sapesse già abbastanza da poter percepire se qualche predicatore o ragazzo del coro non lo pronunciasse correttamente, e prendere nota per correggerlo in seguito (cfr. P. K. Liss,Isabel la Católica, cit., p. 246).

La regina cercherà di mantenere i sentieri che si era tracciata arrivando al trono e altri che andava tracciando nel corso della vita, i sentieri che sceglie e che le vengono suggeriti dal re, suo marito, dalle sue consigliere e dai suoi consiglieri e da quelle e quelli che si dedicavano al compito di governare rettamente la sua Casa e il suo Regno. Ci saranno almeno due momenti in cui la regina si farà guidare dalla politica del desiderio , si metterà al centro, la sua vita ordinerà il mondo, “metterà al mondo il mondo ”. Ci sono almeno due desideri grandi che la futura regina Isabella I vuole realizzare e realizzerà; il primo, o meglio, entrambi, sono due desideri d’amore. L’amore, o la ricerca d’amore, la guida nella scelta del futuro marito , e l’altro desiderio è l’amore per il sapere, per la conoscenza, la sua innata curiosità. Questo secondo desiderio lo realizzerà in parte, ormai adulta, da regina. Cercherà la latinista Beatriz Galindo, conosciuta come la Latina, perché insegni all’infante e alle principesse, ma anche perché insegni a lei il latino bene come lo sapeva suo padre, il re Giovanni. Isabella desidera dominare il latino per poter conoscere di più e meglio e per capire bene la letteratura e i trattati di suo gusto. Dell’educazione di Isabella all’inizio furono incaricati alcuni francescani osservanti del convento che si trovava fuori le mura del borgo di Arévalo. In questo convento c’erano tra gli altri Alfonso de Madrigal el Tostado , erudito e teologo, e anche Lope de Barrientos, arcivescovo di Cuenca, confessore di Giovanni II a cui il vecchio re raccomanderà la supervisione dell’educazione della futura Isabella I e dell’infante Alfonso.

Lia Cigarini, La politica del desiderio, Parma, Pratiche, 1995.

Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1990.

Ma è stata anche una fortuna per la regina che Isabella non sempre desse retta, o non del tutto, alle ragioni di stato di suo fratello il re Enrico IV, bensì alle ragioni del suo cuore. Farà così quando sceglierà il marito, sfuggendo ad mercato matrimoniale a cui voleva costringela Enrico. Se chi si sposa è lei, sarà lei a scegliere: Isabella si sposerà con chi vuole lei. La principessa è ben informata, ed è una bella donna, e sceglierà un uomo che lei considera attraente, l’erede d’Aragona, Fernando. Riprende così un’idea iniziale dello stesso Enrico, unire Castiglia e Aragona. Può esserci il suo cuore nella decisione, ma le ragioni di stato la sostengono, la sua decisione porterà con sé un grande vantaggio politico. L’Aragona smetterà di appoggiare i gruppi nobliari castigliani che si opponevano all’autorità reale. Isabella farà insieme un matrimonio d’amore e di ragione, come dimostrerà tutta la storia successiva di Isabella e Fernando, chiamati i Re Cattolici.

Non so che rapporto potesse avere Isabella con il Tostado ad Arévalo, ma alla morte di Alfonso de Madrigal, nel 1455, la regina promosse la pubblicazione dei suoi scritti (cfr. P. K. Liss, Isabel la Católica, cit., p. 20).

Tra i libri posseduti dalla regina Isabella compare un trattato contro la magia scritto da Barrientos. Come l’arcivescovo, anche Isabella detestava la magia e la divinazione.

Sappiamo che Isabella ricevette il consueto “addestramento nelle arti domestiche” riservato alle donne, ma che, come abbiamo già accennato, non le fu insegnato a leggere e scrivere bene né in latino né in castigliano [spagnolo], la sua lingua materna. Isabella imparerà a leggere e scrivere bene in entrambe le lingue ormai da adulta e da regina. La sua lingua materna, il castigliano, sarebbe la lingua che avrebbe ascoltato dalla sua balia, dalla sua governante e da altre dame castigliane della corte; ma avrebbe anche ascoltato già dal ventre materno il portoghese, la lingua di sua madre, una delle lingue che si parlavano in casa. Pare che da bambina non le avessero insegnato a leggere e a scrivere nemmeno in questa lingua. Però sappiamo che in castigliano - e forse alcune volte anche in portoghese - avrebbe ascoltato le numerose leggende, racconti, poemi, storie e cronache sulla vita di cavalieri che lottano contro gli infedeli, e anche numerose storie di vite di sante e santi. Vite di sante che dovevano servire da modello di perfezione per qualunque bambina, e tanto più per una principessa. Ma è possibile che Isabella, una bambina e poi un’adolescente molto attiva e di carattere vivace, con queste vite imparasse subito il gusto per l’azione, più che per la passività, e imparasse ad ammirare quelle donne che riuscivano a dominare la volontà ed essere disciplinate. L’avrebbe visto anche in una storia di vita che cominciava a circolare per la penisola, sia nelle terre castigliane sia in quelle catalano-aragonesi, la vita di Giovanna d’Arco. La vita di Giovanna, conosciuta in Castiglia come la poucella (la pulzella) ebbe una grande accoglienza in Castiglia. Nell’ambito della corte sappiamo che lo stesso Giovanni II l’ammirava oltremodo, come anche altri cortigiani. Tra questi andrebbero citati Chacón, l’autore della cronaca di don Álvaro de Luna, lo stesso Álvaro de Luna , e uno dei più stimati consiglieri del re, il suo segretario Rodrigo Sánches de Arévalo. Sánches de Arévalo era stato ambasciatore presso la corte papale e presso quella francese, e aveva conosciuto direttamente le vicende di Giovanna d’Arco. Non sappiamo con certezza se tra i consiglieri di Giovanni II che contribuirono all’educazione dell’infanta e dell’infante ci fosse il citato chierico Rodrigo Sánches de Arévalo -diplomatico e scrittore- che per la sua esperienza personale era decisamente favorevole a dare a Isabella una istruzione formale, ma certo ebbe un’influenza sulla grande ammirazione di Isabella per Giovanna d’Arco. Giovanna d’Arco era per Isabella un modello di vita e di azione, una delle aspirazioni della principessa. Qualunque sia stata l’istruzione formale ricevuta da Isabella, quasi inesistente almeno nella sua infanzia, fu una bambina fortunata: non fu allontanata dalla cerchia di sua nonna, sua madre e delle altre donne della corte di Arévalo, non fu allontanata dalle varie e ricche realtà della vita offerte dal vivere in un borgo piccolo ma crocevia di importanti strade commerciali. Varie e ricche realtà che Isabella senza dubbio dovette cogliere velocemente, perché era -come riferiscono un buon numero di cronache e la storiografia- una bambina intelligente, curiosa, osservatrice, che dovette apprezzare il molto che poté imparare vedendo il mondo dal luogo della sua infanzia -Arévalo- attorniata da tante donne e alcuni uomini che le prestarono attenzione e affetto. Da questo borgo dell’interno della Castiglia, Isabella avrebbe cominciato a scoprire come la Chiesa e la religione, con le festività, le cerimonie e il rituale, marcavano i giorni, le ore, gli avvenimenti e i cicli dell’anno. La religione marcava e influiva sul comportamento, arrivando fino alle emozioni, e cercava di spiegare i rapporti umani, il mondo naturale e l’universo. Isabella visse in seno a una famiglia pia, a contatto con frati devoti, abituata alla devozione marcata dalle chiese di Arévalo, le cui campane reggevano i suoi giorni. La chiesa parrocchiale del borgo, come era tradizione in molti altri abitati della corona di Castiglia, aveva le fondamenta sui resti dell’antica moschea ed era dedicata a San Michele, l’arcangelo militante. Un’altra chiesa di Arévalo era dedicata a Santa Maria dell’Incarnazione, perché la dottrina del’Incarnazione era respinta dai mussulmani. San Michele e Santa Maria dell’Incarnazione significheranno ad Arévalo come in altre città, borghi e paesi castigliani, l’affermazione cristiana di fronte agli “infedeli”. Come mostra il suo testamento, Isabella avrà tra le sue preferenze queste devozioni, e probabilmente influirà -non sappiamo in che misura- sul fatto che le moschee di Granada portino questi nomi.

Chacón annota nella sua cronaca l’entusiasmo con cui Álvaro de Luna e lo stesso re Giovanni II accolsero a Corte gli inviati di Giovanna d’Arco; ed evoca la profonda impressione di Luna per le gesta della pulzella d’Orleans, al punto da portare con sé una lettera sua che mostrava a corte come se si trattasse di una reliquia sacra (cfr. P. K. Liss, Isabel la Católica, cit., p. 21).

Rodrigo Sánches de Arévalo aveva frequentato una scuola elementare per bambine e bambini, la scuola dei domenicani a Santa Maria di Nieva, aperta con il matrocinio della regina Carolina, la nonna paterna di Isabella.

Isabella, ormai regina, nota la mancanza di istruzione e si preoccupa di non aver ricevuto quella indicata per i principi e, come abbiamo segnalato, suggerita da alcuni consiglieri di suo padre e poi suoi. Doveva aver imparato le lettere, che completavano l’educazione di una come lei di alti natali, perché questo avrebbe giovato alla buona immagine reale, e anche il latino necessario per intendere meglio i migliori scritti sulle leggi e sull’arte di governo e della guerra, il latino che suo padre - Giovanni II - aveva imparato. Per dare esempio, la regina imparò le lettere e il latino . Isabella era una grande lettrice e diede impulso alla relativamente nuova arte della stampa .

Secondo l’umanista Juan de Lucena, il ruolo di esempio della regina era molto grande: “Non vedi quanti cominciano a imparare ammirando sua Maestà? Quello che i re fanno, buono o cattivo che sia, tutti cerchiamo di farlo [...]. Giocava il Re, eravamo tutti giocatori, studia la Regina, siamo ora studenti” (cit. in P. K. Liss, Isabel la Católica, cit., p. 246).

Per esempio, la regina diede impulso alla pubblicazione delle operedi Alfonso de Madrigal el Tostado.

Isabella I governa da donna, si occupa della sua Casa e del Regno in modo differente rispetto a come lo fa suo fratello il re Enrico. Ormai regina, e pertanto a capo della famiglia reale, deve combinare i matrimoni dell’infante e delle principesse sue figlie . Come madre cerca, oltre che di combinare nozze di stato, di fare in modo che questi accordi abbiano, in qualche maniera, l’approvazione minima delle sue figlie. Sappiamo che andò così quando la primogenita, Isabella, rimase vedova. Isabella I aveva promesso all’infanta di non spingerla a un nuovo matrimonio e di permetterle di condurre una vita ritirata e di intensa vita spirituale nel convento o casa di sua scelta. Isabella intercederà con sua figlia vedendo gli argomenti che il delegato portoghese sfodera: costui ricorre alle qualità della principessa, all’affetto professatole dai portoghesi e al grande sostegno morale che significherà per la gente di questo regno, e inoltre aggiunge che la principessa ha l’età e la capacità di dare l’erede di cui il trono portoghese ha bisogno. Isabella I, pur avendo dato la sua parola di madre e di regina, e pur sapendo che la principessa era presa da un progetto spirituale concreto -era legata alla vita beghina , esperienza che dava una dimensione spirituale profonda alla vita di alcune donne che non volevano fare professione in un ordine monastico e volevano restare in qualche modo dentro il mondo delle laiche-, arriva a un’intesa o a un patto con la figlia. La regina sapeva che la principessa Isabella aveva una volontà ferma e decisa e solo il suo intervento come madre e come regina l’avrebbero fatta cambiare ragione di vita. Evidentemente la regina non presentò solo ragioni politiche, come facevano alcuni consiglieri, ma anche ragioni religiose: la principessa con la sua posizione -di nuovo- di regina del Portogallo poteva influire decisamente sull’adozione di una politica di unità religiosa come quella di Castiglia, in un momento in cui le imbarcazioni erano pronte a partire verso le coste dell’india, e quando il Portogallo stava diventando il rifugio di numerosi ebrei conversi in fuga dall’Inquisizione. Queste e altre ragioni di ordine politico-religioso e familiare -e sarebbe senza dubbio una di queste il fatto di aiutare sua madre come regina- convinsero la giovane principessa Isabella, che acconsentì a sposarsi con Manuel del Portogallo e a dargli gli eredi che costui sperava.

E benché fosse costume che le infante dovessero servire a rafforzare il ruolo del lignaggio e quello della Corona di Castiglia con gli altri regni, non le sottopone a quello che alcune autrici e autori chiamano “il ballo dei mariti”, a cui lei stessa era stata sottoposta dal fratello Enrico.

Sui beghinaggi castigliani e su queste forme di vita e di pietà, vedi Ángela Muñoz Fernández, Mujer y experiencia religiosa en el marco de la santidad medieval, Asociación Cultural Al-Mudayna, Madrid 1988; AA. VV., Las mujeres en el cristianismo medieval. Imágenes teóricas y cauces de actuación religiosa, a cura di Ángela Muñoz Fernández, Asociación Cultural Al-Mudayna, Madrid 1989; Ángela Muñoz Fernández, Beatas y santas neocastellanas: ambivalencia de la religión y políticas correctoras del poder (ss. XIV-XVII), Dirección General de la Mujer, Madrid 1994.

Il testamento e altri documenti permettono anche di valutare la stretta e speciale relazione che la regina Isabella stabilirà con la figlia Giovanna. Una relazione che probabilmente è mediata a quella con la stessa madre della regina Isabella, Isabella del Portogallo, poiché sembra che nel comportamento a volte difficile da interpretare di sua figlia Giovanna la regina riconoscesse modi di fare di sua madre. Rammentava così con nostalgia i suoi anni a Madrigal e ad Arévalo , il periodo che io chiamo dello spazio “tra donne”, erano gli anni sessanta del XV secolo e Isabella aveva allora undici anni. Di nuovo, qualche anno più tardi, recupera questo spazio: a diciassette anni torna a incontrarsi con il fratello Alfonso - a cui era molto unita fin da bambina - e con sua madre ad Arévalo, con le sue dame, damigelle, serve e domestiche. Al calore di quello che lei considera il suo focolare, organizzerà i festeggiamenti per l’undicesimo compleanno del re-bambino Alfonso. Ad Arévalo, libera dagli sguardi indagatori della corte di Enrico IV, si sente di nuovo vicina alla vita e organizza il compleanno del fratellino, l’infante Alfinso. Nella festa si svolge una colorita rappresentazione poetica in maschera, chiamata momo . Per il testo, Isabella dà personalmente l’incarico a Gómez Manrique, uno dei grandi poeti del momento, che compose un testo che si è conservato.

venerdì 18 novembre 2011


Guglielmo Tell è veramente esistito?
Guglielmo TellIntorno alla figura di Guglielmo Tell, il celebre eroe svizzero, si sono cimentati per secoli storici e studiosi, ma la conclusione è che si tratti di una leggenda. Non esistono infatti prove sulla storicità di questo personaggio, anche se la sua vicenda è legata alla nascita della prima Confederazione Svizzera del 1° agosto 1291. Secondo la leggenda, Guglielmo Tell, un contadino di Bürglen, nel cantone di Uri, reo di non aver salutato un'insegna degli austriaci invasori, è costretto a colpire una mela posta sul capo del figlio: Tell, il miglior tiratore della valle, non fallisce, ma quando rivela che, nel caso avesse fallito il primo colpo, una seconda freccia sarebbe stata destinata al governatore, viene arrestato.
Eroe romantico. La leggenda prosegue in modo ancora più avventuroso: Tell riesce a fuggire e uccide il governatore in un'imboscata. Il fatto scatenò la ribellione degli svizzeri contro gli Asburgo e la stipulazione del patto d'alleanza tra i tre cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden. In realtà secondo gli archeologi il patto del 1291 non determinò l'immediata cacciata degli austriaci che abbandonarono i loro castelli soltanto nel XV secolo.
La vicenda di Guglielmo Tell fu poi rispolverata durante il romanticismo come simbolo della lotta per la libertà personale e politica grazie a Friedrich von Schiller e al suo dramma Wilhelm Tell del 1804.

mercoledì 16 novembre 2011


Interessante carteggio tra due mistiche medioevali
Le Lettere di Chiara da Assisi ad Agnese di Boemia

Introduzione Lettere
alla Prima Lettera Prima Lettera
alla Seconda Lettera Seconda Lettera
alla Terza Lettera Terza Lettera
alla Quarta Lettera Quarta Lettera





Introduzione



Agnese di Boemia era una delle donne più importanti di Europa. Figlia del re Otokar I de Boemia e di Costanza di Ungheria, da parte di madre era cugina di S. Elisabetta di Ungheria.

L'amicizia tra questa figlia della più alta nobiltà di stirpe regale e la più modesta figlia di Favarone di Offreduccio cavaliere di Assisi rappresenta una delle pagine più belle della storia del movimento religioso femminile del XIII secolo. Le due donne non si incontrarono mai. I loro contatti si limitarono allo scambio epistolare, che probabilmente fu più intenso di quanto le quattro lettere conservate testimonino. Eppure, malgrado questa rarefazione di rapporti, non vi è alcun dubbio che la loro amicizia fu determinante non solo per Agnese, ma anche per la stessa Chiara.



(Inizio Lettere Agnese) La Prima Lettera



Quando Chiara le scrisse la prima lettera (1234), Agnese era nel momento di svolta della sua vita. Essendo infatti stata allevata nella prospettiva di vantaggiose alleanze matrimoniali per la casa di Boemia, Agnese si era trovata, non molti anni prima, al centro di una contesa matrimoniale tra il re d'Inghilterra Enrico III e lo stesso imperatore Federico II. Le alterne vicende della politica europea però e soprattutto la morte del padre nel 1230 fecero fallire tutti questi progetti. In questi anni Agnese non era rimasta strumento passivo nella mano del padre e poi del fratello Venceslao, ma aveva mostrato doti e determinazione non comuni. La sua scelta religiosa trovò pieno compimento con l'incontro con i frati minori, alla loro prima missione in Boemia. Agnese si preoccupò della loro sistemazione, provvedendo alla realizzazione di un ospedale e poi di un convento, vicino al nuovo monastero destinato ad accogliere una comunità di damianite. Le prime cinque monache seguaci di Chiara arrivarono a Praga nel 1233, ma non da Assisi, bensì da Trento, probabilmente perché la vicinanza geografica e linguistica consentiva un più facile inserimento in Boemia. Nel novembre dello stesso anno fecero ingresso nel nuovo monastero le prime sette novizie boeme. Agnese invece aspettò ancora sei mesi, fino alla Pentecoste del 1234, giorno in cui, in una cerimonia tra le più solenni, alla presenza di sette vescovi e di tutta la famiglia reale, prese l'abito di S. Chiara.

Di tutti questi episodi ci sono ampi riferimenti nella prima lettera di Chiara ad Agnese, che deve essere stata scritta poco prima o poco dopo. E' un primo contatto: Chiara infatti usa il "voi" (mentre nelle lettere successive userà un più familiare "tu"). E' allo stesso tempo una lettera molto rispettosa - come si conviene ad una missiva indirizzata ad una donna, che, seppure più giovane, è ei rango sociale tanto elevato - ma anche molto esplicita nel presentare l'ideale di povertà proprio delle comunità di damianite. Ben 16 sui 35 versetti che costituiscono la lettera, infatti, contengono un bell'inno alla povertà, in cui tra l'altro Chiara mette in mostra una non banale sensibilità letteraria. Naturalmente non va trascurato il fatto che, con tutta probabilità, Chiara dettava i suoi testi e che quindi uno o più copisti parteciparono alla redazione definitiva. I contenuti di questo "inno alla povertà", come del resto l'insieme delle lettere, sono così tipicamente clariani, che nessuno oggi mette in discussione il fatto che Chiara ne sia la sostanziale autrice.



(Inizio Lettere Agnese) La Seconda Lettera



Pochi mesi dopo la sua entrata in monastero Agnese aveva ottenuto dal papa Gregorio IX ( l'antico cardinale Ugolino dei Conti di Segni, protettore dell'Ordine ed amico personale di Francesco e di Chiara) una bolla con la quale la Sede Apostolica si assumeva la proprietà dell'Ospedale e del monastero da lei fondato. Era il primo passo della giovane principessa verso una vita di assoluta povertà. In seguito, per meglio uniformarsi allo spirito di San Damiano, Agnese chiese al papa di poter seguire anche a Praga la forma di vita che Francesco aveva composto per Chiara e per le sue compagne. Gregorio IX si rifiutò, specificando che, a suo avviso, il santo, con spirito materno, aveva dato a Chiara la piccola forma di vita (formula vita) come latte da bere, ma che ora Agnese e le sue sorores avrebbero dovuto seguire la Regola di Benedetto con l'aggiunta delle Costituzioni da lui stesso preparate quando ancora era cardinale. Forse per venire incontro al desiderio di Agnese di legarsi intimamente alle consuetudini di San Damiano però il papa, in quella stessa occasione, concedeva anche al monastero di Praga una sorta di Privilegium paupertatis.

La seconda delle lettere conservate va collocata nel tempo intermedio tra la richiesta di Agnese (della quale probabilmente Chiara era a conoscenza) e la risposta del pontefice, in ogni caso dunque prima del 1238.

Tutto il contenuto, a cominciare dal saluto iniziale in cui Chiara augura "salutem et semper in summa vivere paupertate", è centrato sul tema della povertà, cui sono dedicati ben 24 versetti sui 26 complessivi. Il passaggio più controverso è quello riferito ad Elia, verso il quale Chiara mostra di avere grande rispetto e considerazione. Che Chiara, della quale sono noti i rapporti di amicizia con Leone e gli altri socci di Francesco, possa esser stata in buona relazione anche con Elia appare strano a chi legga la storia dei primi decenni francescani alla luce della successiva contrapposizione tra Spirituali e Comunità. Ma questa profonda amicizia di Chiara con Elia non appare forse come un indizio di un qual certo legame tra i membri della prima generazione francescana, che furono accolti nell'Ordine da Francesco stesso? Tale legame fu forse più forte di quanto non appaia oggi nelle fonti e Chiara sembra aver avuto, in sebi a questa prima generazione francescana, un ruolo non secondario.



(Inizio Lettere Agnese) La Terza Lettera



Anche la terza lettera deve essere stata scritta più o meno nello stesso periodo della seconda. Questa volta pero Chiara risponde ad un preciso quesito di Agnese riguardo al digiuno e lo fa sotto l'autorità di uno scritto che Francesco stesso avrebbe lasciato per le sorores di San Damiano (che purtroppo è andato perduto). Emerge dalla lettera il desiderio grande di Agnese di conformarsi in tutto alle consuetudini di vita di Chiara e delle sue sorores e, al tempo stesso, la gioia di quest'ultima nel percepire tale determinazione di Agnese, al punto che non esita a dire: "per usare propriamente le parole dell'Apostolo stesso, ti considero adiutrice di Dio stesso e colei che solleva le membra cadenti del suo corpo ineffabile". Qui il riferimento è a 1 Cor. 3,9 e Rm. 16,3 laddove Paolo attribuisce il titolo di "collaboratore di Dio" allo stesso ministero apostolico. Il ragionamento di Chiara appare quanto mai forte: Agnese, rinunciando a vanità e superbia ed abbracciando umiltà e povertà può essere considerata al pari degli apostoli. E' forse la prima volta, nella storia della Chiesa, che un tale titolo viene applicato al femminile.


(Inizio Lettere Agnese) La Quarta Lettera



L'ultima lettera ad Agnese si riferisce invece agli ultimi tempi della vita di Chiara. Tra la prima e l'ultima sono passati dunque circa vent'anni, durante i quali l'amicizia tra le due donne, così lontane eppure così vicine, si è andata rafforzando. Non sempre la corrispondenza è stata serrata come avrebbero desiderato le due protagoniste, e di questo Chiara si scusa nell'inizio della lettera, dicendo: "non credere in alcun modo che l'incendio della carità verso di te arda meno soavemente nelle viscere di tua madre. Questo è l'impedimento: la mancanza di messaggeri e i manifesti pericoli delle strade".

Quest'ultima missiva è quasi un testamento spirituale: sono predominanti i temi del martirio e delle nozze mistiche, che ricevono una luce particolare dalla circostanza che Chiara sente prossima la sua morte e quindi il suo incontro con il Signore. E' per questo stesso motivo che questa lettera è anche lo scritto di Chiara con il più alto numero di citazioni del Cantico dei Cantici. La conclusione segna forse l'apice del sentimento affettuoso di Chiara verso Agnese: "O figlia benedetta, poiché la dilezione che ho verso di te in alcun modo si potrebbe esprimere più pienamente con lingua carnale, ciò che ti ho scritto incompiutamente, ti prego di accoglierlo benignamente e devotamente, badando in esso almeno all'affetto materno, del cui ardore di carità ogni giorno ardo per te e per le figlie tue, alle quali raccomanda molto me e le mie figlie in Cristo".

Agnese di Boemia, che è stata proclamata santa il 12 nov. 1989, ha conosciuto solo negli ultimi anni l'attenzione che meritava da parte degli studiosi.

lunedì 14 novembre 2011

Il romanzo gotico


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L'origine di quella che, comunemente, viene chiamata Letteratura Gotica viene individuata nel 1784, ovvero l'anno in cui viene pubblicato il romanzo Il Castello di Otranto di
Horace Walpole. A questo seguiranno poi altre importanti opere come I misteri di Udolfo di
Ann Radcliffe, Il monaco di Matthew G. Lewis e Vathek di William Beckford. La fine del periodo "storico" della letteratura gotica viene posta in genere attorno al 1820, ma scrittori come Edgar Allan Poe e Howard Philip Lovecraft, anche se posteriori, sono di norma classificati come "gotici", e anche ai giorni nostri quello che è comunemente definito "gotico" occupa una buona parte della letteratura horror.
Tutti questi racconti hanno in comune dei tratti ben precisi: il costante uso di ambientazioni arcaiche, come castelli diroccati o case isolate, ove avvengono spaventosi fatti di sangue, intricate cospirazioni e misteriosi delitti. Anche il paesaggio naturale ha un grosso peso nel creare la giusta atmosfera in quanto contribuisce a rappresentare in chiave metaforica i sentimenti dei personaggi; si ritroveranno spesso, così, delle spoglie brughiere, minacciose foreste e lande desolate. Il tutto accompagnato dalla costante presenza del soprannaturale, in tutte le sue forme: riti demoniaci, diavoli tentatori o creature fantastiche e spaventose, e sarà  proprio qui che prenderanno vita le figure caratteristiche del mostro di Frankestein, del Golem e del primo Nosferatu. Ognuna di queste creature è un essere fuori dal comune, stupefacente e affascinante.
Ed è qui che si può ritrovare il motivo di maggior successo del romanzo gotico: il fascino del mostruoso, che cattura l'attenzione del lettore verso ciò che è esterno, alieno e sconosciuto; in particolare si fa leva sulla parte latente dell'animo umano, la parte non si conosce mai perfettamente, ma che rimane ignota e latente, sospesa nel nulla del vivere quotidiano. In questo luogo galleggiano le paure dell'uomo, i terrori che ci accompagnano fin dall'infanzia, i desideri più inconfessabili ed è questo il materiale che gli scrittori gotici hanno utilizzato per le loro opere.
Gli elementi soprannaturali presenti non sono altro che l'espressione codificata dei timori comuni: la paura costituisce la più straordinaria molla dell'immaginario sociale. In questo modo la parte oscura dell'anima viene fuori, si diffonde in ogni pagina e avvolge ogni parola. La paura, con la sua funzione catartica e tentatrice, spinge chi legge verso la tana del lupo e lo fa avvicinare alla soglia. Paradossalmente dà  coraggio perchè innesca nel profondo la perversità  umana che, in una continua e interminabile sete di conoscenza, sfida la natura rischiando la vita, cioè varcando quella soglia. La sfida con il soprannaturale è una sfida col limite che risveglia in noi la cosiddetta "fear of the unknown" ossia la paura di ciò che è sconosciuto.
Facendo leva su un sentimento così vitale, il romanzo gotico ha attirato un pubblico vasto ed eterogeneo, rispondendo al suo bisogno di fantasia e di attesa del diverso. Un'analisi approfondita sul successo della corrente gotica interessò anche Sigmund Freud, il quale giunse alla conclusione che l'effetto della letteratura gotica era da cercare soprattutto nel riemergere delle esperienze personali rimosse, nell'universo negativo di ciascuno che essa era appunto in grado di richiamare alla memoria attraverso i personaggi fantastici che incarnano desideri, paure e ansie diversamente censurate in nome di un'esistenza equilibrata.
Il gotico insinua un dubbio essenziale nella mente di ciascuno, ci avverte che il bene può essere male e viceversa, che l'identità  di un individuo può perdersi nel suo stesso contrario, che esistono effetti senza cause e che il normale non conosce il confine che lo separa dall'anomalo, che ciò che è giusto non può sempre essere distinto da ciò che non lo è, anzi, che il desiderio e l'avversione si attraggono respingendosi in un macabro valzer, che il colpevole spesso è vittima

Il Romanzo Gotico



La letteratura gotica o romanzo gotico è un genere di narrativa fantastica, per lo più ambientata nel Medioevo, sviluppatasi nel corso del Settecento. La sua peculiarità è data da ambientazioni cupe e da personaggi il più delle volte malvagi e dagli atteggiamenti diabolici. L'amore perduto, i conflitti interiori, il paranormale sono temi frequenti nei romanzi gotici. In età contemporanea gotico è usato anche come sostantivato per indicare, oltre l'architettura e l'arte, tale genere di narrativa.

L'iniziatore del romanzo gotico è considerato Horace Walpole con il suo romanzo Il castello di Otranto del 1764. L'ultimo è considerato il racconto di Bram Stoker con il suo celeberrimo Dracula del 1897.

Storia
Il termine gothic (gotico) era originariamente applicato all'architettura del medioevo detta architettura gotica e all'arte. Il termine gothick fu adottato a partire dal XVIII secolo dai propositori del gothic revival, un precursore del Romanticismo. L'architettura neogotica, che divenne popolare nell'Ottocento, fu una reazione all'architettura neoclassica che era il marchio distintivo dell'era della ragione.

Nella narrativa la letteratura inglese del XVIII e XIX secolo fu alimentata da due temi caratteristici: il romanzo gotico, definito anche "romanzo spaventoso" per i personaggi e l'ambientazione angosciante e inaugurato dal già citato The Castle of Otranto di Horace Walpole e il romanzo storico di Walter Scott. Bisogna dire che c'è un rapporto fisico molto stretto tra architettura e romanzo gotico del quale i veri protagonisti diventano proprio l'ambientazione e la scenografia della narrazione. Non per niente in Inghilterra Horace Walpole ordinò la costruzione neogotica del castello di Strawberry Hill nei pressi di Londra. In questa fortezza, che ebbe un posto importante nell'architettura inglese, Walpole fece installare una tipografia nella quale si stamparono i suoi libri e quelli dei suoi amici.

Tra i fattori che hanno contribuito alla nascita del genere vi è senza dubbio anche il parallelo sviluppo in Europa del Romanticismo, con la sua attrazione verso i temi del misterioso, dell'esotico, del primitivo, del tenebroso, che, sviluppati secondo particolari canoni, diventeranno elementi base anche del romanzo gotico.

Il romanzo gotico conobbe dunque una certa fortuna anche nell'Ottocento, annoverando altri importanti scrittori quali Matthew Gregory Lewis, Ann Radcliffe e Mary Shelley. Sentimentalismo e romanticismo, rivolta contro il razionalismo illuminista, inquietudine per l'industrializzazione portano alla nascita del gothic revival, sottogenere che si sviluppa nella seconda metà del Settecento fino ai primi decenni del XIX secolo, proseguendo poi per tutto l'Ottocento con vari sviluppi che coinvolgono non solo la letteratura ma, come neogotico, anche l'architettura e le arti figurative.

Oltre al Castello di Otranto (The castle of Otranto, 1764) di Walpole, all'interno di questo genere si possono citare Il vecchio barone inglese (The Old English Baron, 1777) di Clara Reeve, Vathek (1786) scritto in francese da William Beckford, I misteri di Udolpho (1794) e L'italiano o il confessionale dei penitenti neri (1797) di Ann Radcliffe, Il Monaco (1796) di M.G. Lewis, Frankenstein (1818) di Mary Shelley, Il vampiro (1819) di John William Polidori, Melmoth l'uomo errante (1820) di Charles Robert Maturin.

Gli sviluppi successivi del genere letterario, già a partire dalla metà del XIX secolo con Edgar Allan Poe, più che su ambientazioni fantastiche (antichi castelli, rovine medievali, monasteri, ecc.) o sovrannaturali (fantasmi, demoni, creature mostruose, ecc.), inizieranno ad avvicinarsi all'uomo comune concentrandosi sempre più negli abissi dell'io, nelle angosce e nelle paure individuali e collettive dell'uomo moderno, anticipando in qualche misura le indagini che saranno proprie, anni dopo, della psicanalisi. Attraverso autori del tardo XIX secolo, come Robert Louis Stevenson, ad esempio, con il suo romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, o Arthur Conan Doyle, quindi, si assisterà allo svilupparsi di diversi nuovi filoni narrativi derivati dal gotico, che specie nel XX secolo assumeranno la forma di generi letterari autonomi, come il noir, la fantascienza, l'horror.

Infine, nel XX secolo, sarà il cinema, già dai primi anni venti, a rivitalizzare presso il grande pubblico l'interesse per alcuni fra i più noti miti del romanzo gotico nati nel secolo precedente, come Frankenstein o il Vampiro.

Caratteristiche e ambientazione

Tipici di questo genere letterario sono il tema della morte, della possessione demoniaca, del male, delle antiche profezie.

Materia dei romanzi gotici sono il terrore (e di conseguenza il sublime) e i conflitti interiori senza soluzione. I personaggi che animano il romanzo gotico sono spesso ambigui, misteriosi, preda di passioni violente o tormentati da pene d'amore. Una delle figure fondamentali è la vergine perseguitata, già personificata dalla Clarissa di Richardson: nel Castello di Otranto di Walpole, e più ancora nella Radcliffe e in Lewis, giovani donne pure sono costrette a fuggire da biechi seduttori.

Il romanzo gotico è spesso ambientato nel medioevo o nel XIX secolo: epoca buia e misteriosa la prima, considerata più mistica e "borghese" la seconda. L'ambientazione non è più quella del mondo borghese settecentesco, ma cupi castelli medievali o bui conventi. La minaccia proviene e si manifesta spesso in paesi cattolici: a dispetto del fatto che le vicende narrate sembrano distaccarsi dalla realtà sociopolitica del tempo, secondo una visione apodittica "anglicanofila", il gothic revival ricorda agli inglesi la loro scelta di allontanarsi dal papato, per trovarsi un re di sicura fede protestante disposto a governare con un parlamento ed una costituzione che limita i suoi poteri (Glorious Revolution). Allo stesso tempo però, secondo tale prospettiva tutta da provare, si afferma che la letteratura inglese è stata osteggiata, messa in ombra perché appartenente ad un paese non cattolico.


Luoghi tenebrosi
In età preromantica, sempre riguardo al romanzo gotico e al gusto per il mistero e alla religiosità medievale, facili strumenti per ottenere il sublime e gli stati d'animo forti e incontrollati sono le ombre e l'oscurità (al contrario la luce rientra nel senso del bello); oggetti molto potenti, grandi, che incutono timore (come cannoni, palazzi possenti, catene, il celeberrimo elmo che campeggia, enorme e minaccioso all'inizio del "Castello di Otranto" di Walpole); rumori molto forti; il senso di vastità, di cose non misurabili; l'approssimazione (ad esempio John Milton nel Paradise Lost accennava solo vagamente all'aspetto e alle fattezze del diavolo); infine la mancanza di rapporto causa-effetto.

I luoghi in cui si svolgono le vicende sono spesso tetri e tenebrosi, come vecchi castelli (Dracula, Il castello di Otranto, I misteri di Udolpho), abbazie e conventi (La vergine perseguitata, "The monk" di Lewis, ma anche "L'italiano" della Radcliffe); più in generale in paesi cattolici che sembrano governati da monarchie assolute che non tutelano affatto i diritti dei cittadini. Il potere religioso agisce mediante immagini che invitano alla contemplazione di tipo emotivo. Ricorrenti le ambientazioni naturali, come le foreste, le Alpi o il Polo Nord, dove dominano neve e ghiacci (Frankenstein), ma anche il deserto come terra inospitale (Vathek).

Tutte queste tematiche e simboli presto diverranno emblematici del romanticismo inglese.

Il potere feudale e il dispotismo contribuiscono allo sfondo gotico sublime e sono temi poi ripresi nell'Ottocento dagli scrittori americani, che hanno vissuto i governi dispotici puritani (caccia alle streghe, ordalia; indiani = lingua incomprensibile, feroci e superstiziosi).

Esponenti
Horace Walpole (1720-1800 ca), terzo figlio sopravvissuto del primo ministro sir Robert Walpole, a metà del Settecento comincia a costruirsi un castello a Strawberry Hill, ai margini di Londra, e lo riempie man mano di straordinari pezzi d'arte (tra cui intere collezioni di reliquie cattoliche) e in effetti Horace Walpole rimane un intenditore e un antiquario di notevole importanza culturale. Con il breve romanzo del 1764 Il castello di Otranto, dà inizio in modo abbastanza consapevole al genere gotico. Il testo si presenta come la traduzione di un antico racconto italiano ambientato nella Puglia medievale ed è la fonte d'ispirazione diretta per The Old English Baron di Clara Reeve (1870).

L'opera orientaleggiante Vathek di William Beckford è scritta in francese e muove i primi passi nella narrativa protoscientifica che esplorerà poi Mary Wollstonecraft Shelley. Nessuno dei due romanzi è gotico in senso stretto, dato che entrambi superano il mondo medievale ed approdano invece nel campo della conoscenza, ma presentano tematiche riconducibili al genere in questione. Vathek offre poi un'opportunità di evasione nella vita di un gentiluomo inglese dell'epoca. L'eroe arabo di Beckford è assetato di potere, quel potere che pervaderà anche Victor Frankenstein, di dominare la vita e la morte; per assecondare le sue ambizioni il protagonista si inoltra nelle caverne segrete di un mondo sotterraneo, dove però scopre che le sue fantasie sono destinate a rimanere tali. Vathek è un Rasselas (Samuel Johnson) privato della sua filosofia morale.

Dal gotico di Ann Radcliffe seguiranno tutte le narrazioni nere successive. In un saggio la Radcliffe distingue le reazioni che si provano di fronte al terrore, che dilata l'animo e rende le facoltà estremamente ricettive, e all'orrore, che invece fa contrarre e raggelare i sensi. Sia in I misteri di Udolfo che in L'italiano (1797) troviamo due eroine (Emily nel primo, Ellena nel secondo) perseguitate da una presenza maschile; entrambe vantano grande delicatezza e profondo senso del decoro ed immerse nel cattolicesimo più sinistro fanno affidamento sulla loro razionalità per superare le difficoltà; riescono al contempo a rendersi conto della pericolosità della loro posizione sia dal punto di vista sessuale sia morale. Ne L'Italiano, Ellena è rinchiusa in un convento in un'Italia immaginaria (la Radcliffe non l'ha visitata) dominata da potenti stereotipi visivi. Va ricordato che nella prima fase della nascita della Chiesa anglicana si era assistito ad un vero e proprio annientamento dell'immagine sacra.

Anche Il monaco (1795) di Matthew Gregory Lewis è ambientato in un convento di frati cappuccini e in un paese cattolico, la Spagna (in particolare Madrid), ma il convento è ora dominato da un'atmosfera di repressione e ambizione opposta alla vita serena dei monasteri della Radcliffe. Il romanzo è totalmente privo di profondità psicologica, ma riesce ugualmente a rappresentare la natura segreta del monaco Ambrosio; le sue passioni represse riaffiorano in ambientazioni d'effetto come stanze segrete, passaggi sotterranei e cripte (Lewis inserisce tra l'altro una rivisitazione della scena della cripta di Romeo e Giulietta). Ambrosio, colpevole persino di un tentativo di stupro, giunge alla distruzione spirituale nonché fisica: la sua morte arriva ormai quasi come una liberazione dopo una lenta agonia, dettagliatamente descritta (Miriadi d'insetti si posavano sulle sue ferite, conficcandogli i pungiglioni nel corpo e infliggendogli le più acute e insopportabili torture. Le aquile della roccia gli strapparono le carni pezzo dopo pezzo e con i becchi ritorti gli spiccarono gli occhi). Stephen King ha scritto alcuni romanzi che possono essere ascritti al sottogenere del suburban ghotic


 

sbf