sabato 31 luglio 2010



Mairg darab galar an grádh

(Love is a sad sickness)
Author: Isibeul ní Mhic Cailín

Here's a verse translation.

Irish

My English translation

Mairg darab galar an grádh,

Love is a sad sickness --

gibé fath fá n-abraim é

When speaking to him, whatever the cause,

is deacair sgarthain re a pháirt;

it is a hardship to separate after time together.

truagh an cás a bhfuilim féin.

Pity my own blood's case.

--

--

An grádh-soin tugas gan fhios,

This love of mine came without [my] knowledge;

ós é mo leas gan a luadh,

my benefits came over him without mention.

muna fhaghad furtacht tráth,

For us delay departure an hour,

biaidh mo bhláth go tana truagh.

if my flower would, till a time of pity.

--

--

An fear-soin dá dtugas grádh,

This man of mine -- love came, for him,

's nách féadaim a rádh ós aird,

and I cannot say from what direction;

dá gcuire sé mise i bpéin,

though buried, it's myself in pain,

go madh dó féin bhus céad mairg!

till I burn myself with a hundred sorrows!

 

IL COTTAGE DI BILLY EARLY COME ANCOR OGGI SI PUO' VEDERE


 

 
 

There was an old woman
Lived under a hill,
And if she's not gone 
She lives there still.

 
 

 
 

Nata nel 1798, Biddy Early era figlia di John Thomas Connors e Ellen Early , viveva nella contea di Clare ed ebbe quattro mariti ma tenne sempre il cognome da ragazza in quanto sosteneva la matrilinearità dei doni magici.

I suoi genitori morirono quando aveva sedici anni e non aveva ancora vent’anni quando sposò il suo primo marito Pat Mally di mezza età.

Pat aveva un figlio, John, che sposò Biddy alla morte di suo padre ma anche lui morì presto per i danni causati al suo fisico dall’alcool.

Quando sposò il suo terzo marito, Tom Flannery, si trasferì sulle rive del Kilmarron Lake che oggi è conosciuto come “il lago di Biddy Early” e la sua casa viene considerata la casa della “guaritrice”, della “saggia”, e ovviamente per gli animi meno nobili come la “strega” e non certo in senso positivo…

 
 

Fu proprio in quella casa infatti che divenne famosa come guaritrice, pare che avesse anche la capacità di vedere il futuro in una bottiglia di vetro, speciale, conosciuta come “la bottiglia blu” .


Conosceva l'uso delle erbe e curava le persone con molto successo  e anche per questo motivo era  invisa al clero che tentò anche un processo per stregoneria sulle basi delle leggi del 1586 ancora in vigore che finì però nel nulla; in alternativa proibirono ai parrocchiani di andare da lei ma senza successo, e quando arrivavano a casa sua, Biddy sapeva sempre se prima erano stati dal parroco o dal dottore.

Era conosciuta come persona in contatto con il sidhe e conosceva e parlava un linguaggio sconosciuto a tutti, ebbe un figlio, Paddy, che sapeva suonare con il violino melodie particolarissime.

 
 

Nel 1868 morì suo marito Tom ancora una volta per abuso di alcool, lei ormai passava i settant’anni ma a detta di molti non ne dimostrava più di cinquanta e sposò il suo quarto marito Thomas Menay, un uomo che era andato in cura da lei e che lei aveva guarito a patto che lui la sposasse.

Quando anche quest’ultimo marito morì, in poco tempo Biddy si spense e morì a sua volta nel 1874; la trovarono con il rosario in mano e la sua bottiglia accanto a lei avvolta in un panno rosso.

Prima di morire chiese ad un prete della sua zona, con il quale aveva stabilito un buon rapporto, di non lasciare che la bottiglia cadesse nelle mani sbagliate e insieme stabilirono di buttarla nel Kilbarron Lake  dove molti la cercarono ma senza successo.
Biddy Early viene ancora oggi ricordata da chi l’ha conosciuta come persona generosa e disponibile nei confronti dei poveri e dei meno fortunati.


Esiste un libro di Meda Ryana "Biddy Early Wise Woman of Clare" ed anche in un libro edito da Armenia "le creature della notte" c'è la sua storia.

Anche Lady Augusta Gregory, famosa autrice della saga di Cuchulainn, si interessò della storia di Biddy e in alcune note pubblicate nel 1920, racconta che quando chiedeva di lei taluni dicevano che era morta molto tempo prima, altri che era ancora viva…al punto che quando si recò a visitare la casa, la donna che in quel momento vi abitava le raccontò che molte persone ancora andavano a cercarla e che rimaneva famosa per la sua generosità verso i poveri ai quali non faceva mai mancare una tazza di tè, un bicchiere di whishy e del pane.

In suo nome sono state composte numerose ballate come questa:

 
 

 

 
 

The ballad of Biddy Early

 
 

"I've an empty stomach,
you've an empty purse.
You feel your fingers freezing?
Outside it's ten times worse,
so listen to my story.
Forget the wind and rain.
It's time for bed,
" the tinker said,"but pass the cup again.
"I sing of Biddy Early,
the wise woman of Clare.
Many's the man admires her
carrot-colored hair,
and many those that come to her
on horseback or by cart,
for she can heal a broken leg
or a broken heart.
"She keeps a magic bottle
in whose majestic eye
a tiny coffin twinkles
and if it sinks, you die.
It rises, you grow better
and slip out of pain.
It's time for bed," the tinker said,"but pass the cup again.
"She covers the great bottle
and runs to fetch the small,
filled with a bright elixir,
honey and sage and gall.
She'll take no gold or silver
but maybe a speckled hen.
It's time for bed," the tinker said."Let's pass the cup again.
"Follow the stream, she told me.
Go where the salmon goes.
Avoid mischievous bridges
for even water knows
if you should drop this bottle-
"
He turned and spoke no more.
Biddy Early's shadow
was listening at the door.


 

 
 

 
 


 
 

 
 

 
 


 

 

giovedì 29 luglio 2010


Invito alle nozze di Lorenzo il Magnifico
Lorenzo Dé Medici (1449-1492)

A soli venti anni Lorenzo Dé Medici illuminò con la sua stella Firenze, dove governò con grande fermezza e larghezza di vedute guadagnandosi l'epiteto di Magnifico . Nello stesso anno furono celebrate le sue nozze con Clarice Orsini, giovane dell'aristocrazia romana. L'avvenimento fu celebrato con molti, fastosi festeggiamenti. Per l'occasione molti furono i regali offerti dal contado fiorentino e dalle città toscane. Questi avvenimenti sono narrati con ricchezza di particolari da Piero di Marco Parenti, uno degli invitati che li descrisse allo zio materno Filippo Strozzi, esule a Napoli.
“Arrivarono al Palazzo di Via Larga centocinquanta vitelle, quattromila fra galline e papere, pesci, cacciagione e moltissime botti di vini "nostrali e forestieri" che Lorenzo generosamente distribuì al popolo anche prima di imbandire i veri e propri banchetti che si svolsero dalla domenica al martedì. Questi festeggiamenti fastosi sono richiesti dall'importanza della stirpe Orsini cui appartiene la sposa Clarice che fa il suo ingresso al palazzo a cavallo, accompagnata da un corteo di cavalieri. Le finestre della camera di Lorenzo sono ornate di rami d'olivo, simbolo di pace. Vengono allestiti cinque banchetti nel portico, nella loggia e nel cortile del palazzo; le tavole delle dame e quelle dei cavalieri - come vuole la regola del tempo - sono rigorosamente separate. Il tavolo della sposa si trova nella loggia e ad esso sono sedute cinquanta giovani nobildonne, mentre quelle anziane siedono all'interno del palazzo presiedute dalla madre dello sposo, Lucrezia Tornabuoni; nell'androne sono i giovani con Lorenzo e Giuliano e in altro tavolo gli anziani della città. Ma altre mense imbandite di vivande sono sistemate sia all'interno del palazzo sia sulla strada onde tutta la città - anche quella dei popolani - possa godere di questi festeggiamenti. Tutte le portate sono precedute da squilli di tromba; i portatori si fermano ai piedi dello scalone e solo a un cenno stabilito dello scalco si dirigono parte al piano superiore e parte nelle logge in modo che le vivande a un tratto si posavano in ogni luogo.
Anche l'apparecchiatura della tavola è accuratissima. Circondavano il David, la famosa statua bronzea di Donatello, alte tavole ricoperte da tovaglie; agli angoli enormi bacili d'ottone con i bicchieri; così anche è apparecchiato nell'orto attorno alla fontana. Sulle tavole una grande tazza d'argento colma d'acqua per rinfrescare bicchieri e bibite. Poi eravi le saliere d'ariento, forchette e coltellerie, nappi e morselletti e mandorle confette: confettiere pe' pinocchiati. Ogni tavolo era inoltre rallegrato da danze, musiche e piccoli spettacoli. L'abbondanza e la generosità dei festeggiamenti per le nozze di Lorenzo de' Medici e Clarice Orsini sancirono in qualche modo la politica di relazione fra la città e la Signoria che la governava basata sulla magnificenza.


 

mercoledì 28 luglio 2010


Gaetano Bresci

Domenica 29 luglio 1900 alle 10 di sera l'anarchico pratese Gaetano Bresci uccise il re d'Italia Umberto I sparandogli tre colpi (secondo altre fonti quattro) con un revolver Hamilton and Booth Co., mentre si spostava in una carrozza scoperta nel parco della Villa Reale di Monza, provenendo dalla palestra della società ginnica "Forti e liberi", dove aveva premiato alcuni atleti. (prima pagina de  Il Messaggero del 31 luglio 1900, copertina de La Domenica del Corriere, 6 agosto 1900, di Achille Beltrame, opere di Flavio Costantini 1 e 2, 1974).
Bresci, operaio tessitore, era emigrato negli USA (a Patterson, nel New Jersey) dove faceva parte di un circolo anarchico ed era tra i fondatori della rivista "La questione sociale". Era tornato in Italia il 17 maggio proprio per uccidere il re.
Il movente dell'attentato era la vendetta per la strage compiuta a
Milano nel 1898, quando l'esercito aveva sparato sulla folla che manifestava, assassinando centinaia di persone (il numero esatto non è stato mai accertato). Le proteste erano sorte per la famigerata "tassa sul macinato" che aveva provocato il forte aumento del prezzo del pane e della farina, ne era seguito l'assalto ai forni e la durissima repressione, condotta anche con l'uso dei cannoni.
Lo stesso Umberto I, a cui molti attribuiscono la responsabilità politica della strage, aveva decorato il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris, che aveva comandato la strage, complimentandosi con lui per aver difeso la civiltà.
Bresci si lasciò arrestare subito dopo il regicidio, senza opporre resistenza, e dichiarò: "Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il re. Ho ucciso un principio."
Lev Tol'stoj commento così il regicidio: "Questi, li si vede sempre in uniforme militare con a fianco lo strumento dell'assassinio, la sciabola. L'assassinio è per essi un mestiere. Ma basta che uno di loro venga assassinato e li udirete recriminare e indignarsi".


In solo un mese era stato istruito il processo, che era iniziato il 29 agosto 1900 in corte d'Assise, a Milano in Piazza Beccaria. Bresci aveva chiesto di essere difeso dal deputato socialista Filippo Turati, che aveva rifiutato, quindi la difesa fu affidata all'avvocato anarchico Francesco Saverio Merlino.
Gli inquirenti cercarono di accreditare la tesi di un complotto anarchico per uccidere Umberto, ma Bresci sostenne sempre di aver agito da solo e di propria iniziativa, e nessun altro anarchico fu coinvolto nel processo.
Fu condannato per il delitto di regicidio "alla pena dell'ergastolo, di cui i primi sette anni in segregazione cellulare continua, all'interdizione perpetua dei pubblici uffici, all'interdetto legale, alla perdita della capacità di testare ritenendo nullo il testamento che per avventura fosse da lui stato fatto prima della condanna" (la pena di morte era stata abolita in Italia nel 1889).
Il condannato Bresci fu prima recluso in isolamento nel carcere milanese di San Vittore, poi nel penitenziario di Portoferraio sull'isola d'Elba, e infine fu deportato nel penitenziario dell'isola di Santo Stefano, nelle isole Ponziane

 

A S. Stefano fu costruita una cella appositamente per Bresci, la Direzione Generale delle Case di pena ne mandò il progetto al cavalier Cecinelli, direttore del carcere: era assolutamente identica a quella che Alfred Dreyfus occupava sull'Isola del Diavolo dal 1895 e che avrebbe occupato ancora fino al 1906.
Leggermente più piccola di quelle comuni, la cella era di 3 x 3 metri: le uniche suppellettili consistevano in un letto in legno e materasso in crine (che, rialzati, durante il giorno dovevano essere legati alla parete con grosse cinghie di cuoio), uno sgabello fissato al pavimento, un catino di legno, e il tradizionale bugliolo. La cella era separata dalle altre e situata in fondo ad un corridoio ricavato in mezzo agli uffici e ai magazzini; era isolata anche la terrazza per l'ora d'aria, in modo che il detenuto fosse isolato anche in quel momento di attenuazione della reclusione. La terrazza era l'unico punto in cui gli altri detenuti avrebbero potuto teoricamente vedere Bresci, ma la sua ora d'aria coincideva con un momento in cui i compagni di detenzione erano rinchiusi, tanto che essi capirono che Bresci era morto proprio perché terminò questa loro interdizione quotidiana a uscire. Sulla terrazza c'erano anche due garitte per le due guardie che lo sorvegliavano in ogni momento.
I secondini Barbieri e De Vita, affermarono di aver trovato morto Gaetano Bresci alle 14,55 di mercoledì 22 maggio 1901, dopo dieci mesi di reclusione.
Secondo la versione ufficiale Bresci si sarebbe strangolato con un asciugamano o con un fazzoletto (secondo due versioni, entrambe ufficiali), attaccandosi alla inferriata della finestra, sfuggendo alla sorveglianza continua dallo spioncino e senza fare alcun rumore, nonostante avesse i piedi chiusi in una lunga catena, fissata a un muro della cella, che faceva rumore ad ogni minimo movimento del condannato. Il sospetto è quindi che sia stato ucciso, magari in una data anteriore a quella dichiarata ufficialmente. Alcune coincidenze, se confermate, potrebbero avvalorare la tesi dell'omicidio di stato: il direttore avrebbe avuto un raddoppio di stipendio e un ergastolano di Santo Stefano avrebbe ottenuto la grazia poco dopo la morte di Bresci.
Sandro Pertini, in un intervento del 19 novembre 1947 all'Assemblea Costituente disse: " ... parlo per esperienza personale (...) . In carcere, onorevole Ministro, si fa questo: si percuote un detenuto; sotto le percosse il detenuto muore, ed allora tutti si preoccupano e si preoccupano non soltanto gli agenti di custodia che hanno percosso il detenuto, ma anche il direttore, il medico, il cappellano e tutti coloro che fanno parte del personale di custodia. Ed allora fanno questo: denudano il detenuto, lo legano all'inferriata e lo fanno trovare così appeso. Viene il medico e fa il referto di morte per suicidio. Questa fu la fine di Bresci. Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso il cadavere all'inferriata della sua cella di Santo Stefano, dove io sono stato un anno e mezzo".
Ugoberto Alfassio Grimaldi, citando testimonianze di detenuti politici, scrive di Bresci: "Quel 22 maggio tre guardie gli avevano fatto il "Santantonio": cioè coperte e lenzuola addosso e poi bastonate fino alla fine; i resti erano stati seppelliti, in luogo rimasto senza traccia negli archivi di S. Stefano, da due ergastolani mandati appositamente da un'altra casa di pena e ricondotti subito via; il comandante dell'ergastolo era stato promosso e le tre guardie premiate"
Gaetano Bresci aveva 32 anni, essendo nato a Coiano di Prato l'11 novembre 1869, lo stesso giorno del figlio di Umberto I, che diventò re alla morte del padre con il nome di Vittorio Emanuele III.
Dal registro del carcere manca la pagina con il numero 515, la matricola che descriveva vita e morte dell'ergastolano. Anche all'Archivio Generale dello Stato, a Roma, non c'è nulla che riguardi Gaetano Bresci. Secondo Arrigo Petacco, autore di una fortunata biografia di Bresci, è anche scomparso il contenuto del fascicolo che, tra le "carte segrete" di Giolitti, racchiudeva la documentazione non ufficiale sulla morte "dell'anarchico che venne dall'America".
Il corpo di Bresci fu sepolto il 26 maggio 1901 nel cimitero di Santo Stefano. Nella fossa, secondo fonti ufficiose, furono gettate anche tutte le sue cose. Dell'anarchico rimasero soltanto due cimeli: il berretto da ergastolano, e la rivoltella che gli era servita per uccidere il re Umberto I. Contrassegnato con il numero 515, il copricapo era conservato nel piccolo museo del penitenziario insieme al berretto di un altro famoso anarchico, Pietro Acciarito, che aveva cercato di uccidere Umberto I nel 1897, senza successo. Entrambi i berretti andarono distrutti durante una rivolta dei detenuti scoppiata a Santo Stefano al termine della Seconda Guerra Mondiale. Secondo altre fonti il corpo di Bresci fu invece gettato in mare.
Il 29 luglio del 2004, nel 104° anniversario del regicidio, gli anarchici torinesi hanno ricoperto il monumento a Umberto I che sorge sulla collina di Superga a Torino, ed hanno apposto una lapide in ricordo di Gaetano Bresci.
A Carrara, cuore dell'anarchismo italiano, è stato eretto un monumento a Bresci, opera dello scultore Sergio Signori. L'opera, rimasta incompiuta per la morte dell'artista, eorge nei giardini di Turigliano, davanti al cimitero., è stata eseguita su commissione dell'artigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

BIBLIOGRAFIA:
- ALFASSIO GRIMALDI Ugoberto (1970) Il re "buono". Feltrinelli, Milano. Pag. 468-470.
- BENTHAM Jeremy (1787) Panopticon, or the Inspection-house.
http://cartome.org/panopticon2.htm
- DA PASSANO Mario - Il «delitto di Regina Cœli» (
http://www.dirittoestoria.it/4/in-Memoriam/Mario-Da-Passano-e-la-storia-del-diritto-moderno/Da-Passano-Delitto-Regina-Coeli.htm

- DEL CARRIA Renzo (1977) Proletari senza rivoluzione - vol.II (1892-1914). Savelli, Roma. pag.138.
- GALZERANO Giuseppe (1988) Gaetano Bresci : la vita, l'attentato, il processo e la morte del regicida anarchico. Galzerano editore -Atti e memorie del popolo - Casalvelino Scalo (Salerno). tel. e fax: 0974.62028 e-mail:
mailto:%20giuseppe.galzerano@aliceposta.it.
- LOMBARDO Mario (1974) in "Colloqui coi lettori" - Storia Illustrata n. 194 - gennaio 1974, pag. 6.
- MARIANI Giuseppe (1954) Nel mondo degli ergastoli, S.n., Torino.
- PERTINI Sandro (1947) in "Atti dell'Assemblea Costituente. Discussioni", IX, 19 novembre 1947, 2179-2180.
- PETACCO Arrigo (1969) L'anarchico che venne dall'America. Milano.
- PETACCO Arrigo (1973) "I terroristi fanno tremare i re" - Storia Illustrata n.191 - ottobre 1973, pag. 64.
- PUGLIESE Amelia (?) Viaggio nella casa di correzione penale di Santo Stefano.
http://www.ventotenet.org/tourinfo/santostefano.htm
e
http://www.ecn.org/filiarmonici/santostefano.html.
- VAGHEGGI Paolo (1990) A Gaetano Bresci, gli anarchici'. In piazza la statua contestata. La Repubblica, 4 maggio 1990, sez. Cronaca, pag. 21.
- VETTORI Giuseppe (a cura di) (1974) Canzoni italiane di protesta - Newton Compton - Roma. pag. 350.

SITI WEB:
Archivio di Metaforum.it, Forum di politica, cultura, società
http://www.metaforum.it/archivio/2004/index15b6.html?t4428.html
Federazione Anarchica Italiana (F.A.I.)
http://www.federazioneanarchica.org
Istoreco (Istituto per la storia della Resistenza e della societá contemporanea in Provincia di Reggio Emilia)
http://www.istoreco-re.it/isto/default.asp?id=326&lang=ITA
Marcello Botarelli, fotografo
http://www.marcellobotarelli.it/santostefano/index.htm
Ministero della Giustizia, Museo Criminologico, Roma
http://www.museocriminologico.it/bresci.htm
Sito www.ventotene.it
http://www.ventotene.it/itinerari/carcere.htm
Spartacus Educational, Regno Unito
http://www.spartacus.schoolnet.co.uk/USAbresci.htm
Spunk Library, biblioteca e archivio anarchico on-line
http://www.spunk.org/texts/pubs/ran/sp001769.html
Terre Protette agenzia di viaggi tour operator, Roma
http://www.terreprotette.it/tp2/106
Wikipedia, pagina su Gaetano Bresci
http://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Bresci


Mario Monicelli - La Grande Guerra

DAL FILM DI MONICELLI :due video sulla drammaticità della guerra di trincea

La Grande Guerra - attacco scampato e licenza

martedì 27 luglio 2010


    

 
 
  
 

La storia del diabete, l'antichità (1)

  

Il papiro di Ebers.

I primi riferimenti al diabete si trovano nel papiro di Ebers, il più ricco e integro dei dodici papiri medico-chirurgici oggi conosciuti. La prima edizione fu pubblicata nel 1875 da Georg Moritz Ebers (1838-1898), docente di archeologia a Berlino e Lipsia, al quale era stato ceduto dall'americano Edwin Smithun. Il "libro" di medicina, lungo 20 metri e alto 30 centimetri, fu scritto in Egitto intorno al 1552 a.C. e scoperto nel 1862 a Thebes (Luxor). Nel papiro vi sono tre ricette per eliminare la sete nel bambino, con prevalente componente religiosa (viene fatto un appello a Isi e Osiri: "La tua sete è nel mio pugno, la tua fame l'ho in mano "). Hassan Kamal include il diabete nel suo dizionario di medicina egizia, accettando l'opinione di Ebbel riguardante  quanto da lui tradotto nel papiro Ebers: "Se tu esamini un uomo per una malattia nella pancia, il cui corpo si raggrinza sempre più come per incantesimo, ma non trovi questa malattia, allora devi dire: è un decadimento interno. Contro questo devi preparargli dei rimedi. La sete svanisce ed il decadimento interno è espulso". Qui si scorge una sintomatologia che ricorda vagamente il diabete, ma risalire da questi accenni alla malattia come oggi la intendiamo, è molto arduo.

L'antica letteratura Indù descrive l'urina con sapore di miele che attrae le formiche.

Susruta, il padre della medicina Indù descrive il diabete mellito e differenzia un diabete giovanile che porta alla morte ed anche un diabete nelle persone di una certa età.

Demetrio da Apamea raffinò la diagnosi del diabete mellito.

Sembra sia stato Apolonio da Menfi a coniare il termine diabete (derivato da  = DIA = attraverso e  = BETES
= passare "acqua che passa") per definire lo stato di debilitazione e poliuria tipico della malattia.

Pablo da Aegina raffinò ulteriormente la diagnosi del "dypsacus" (diabete) associata ad uno stato di debilitazione ed un eccesso di minzione che porta alla disidratazione. Prescrisse un rimedio a base di erbe, indivia, con decotti di datteri e mirto da bere nel primo stadio dell'infermità, a seguire, cataplasmi a base de aceto di vino e di rosa sui reni.

Galeno
pensava che il diabete fosse un'infermità molto rara, usò termini alternativi come "diarrea urinosa" e "dypsacus", quest'ultimo termine per enfatizzare l'estrema sete associata alla patologia.

Areteo di Cappadocia (81 - 138), scrisse nel capitolo II° del Libro Secondo (traduzione di Francesco Puccinotti 1794 - 1872):
"La malattia che porta il nome di Diabete, sebbene non molto frequente alla umana specie, è oltre modo sorprendente, per il fenomeno che in essa si effettua del disciogliersi in urine le carni e le membra dell'organismo. Riconosce una causa interna di freddo ed umido siccome l'idropisia; colla differenza che cotesta causa qui risiede solitamente ne' reni e nella vescica. Le urine non si rendono a intervalli; ma come se i canali non fossero spezzati, il profluvio è perenne. La genesi di questo morbo si opera lentamente, e lungo tempo impiega sempre nello sviluppo. Sviluppato però che sia perfettamente, abbrevia la vita dell'infermo, perché il discioglimento si opera con velocità, e repentina sopravviene la morte, e il diabetico mena una vita travagliosa e crucciata da spasmi. Inestinguibile è la sete; e sebbene si beva copiosamente, la quantità delle urine è sempre superiore della bevanda: e non v'ha diabetico che possa esimersi tanto dal bere, come dall'urinare. Che se per breve spazio di tempo si forzino taluni ad astenersene; gli si inaridisce la bocca, il corpo si dissecca, le viscere si sentono come bruciare, sono presi da fastidio, da titubanza, la sete ardentissima li tormenta, e non molto dopo sen moiono. In tal modo però potranno astenersi dall'urinare? Qual verecondia sarà più potente del dolore? E così questi due fenomeni della sete, e del bere avvicendano, l'uno rinforzando l'altro. Cotesta esorbitante bevanda in alcuni non trapassa né poco né molto per urine, e vieppiù tormentati da una inestinguibile bramosia, dall'allargamento del liquido trangugiato, cotanta distensione patisce il ventre, che infine scoppia". Areteo prescrisse per la malattia una dieta ristretta e vino allungato.


 

lunedì 26 luglio 2010


DRACULA:IL MITO DEL GOTICO;TRA STORIA E LETTERATURA
Il mito di Dracula si perde nei secoli, ma non tutto quello che si è detto su questa misteriosa figura, è frutto della fantasia umana. Vi è infatti un riferimento storico ben preciso che riferisce come un succhiatore di sangue è veramente vissuto, in Romania, precisamente in Transilvania intorno al 1400, ed era il principe Vlad Tepes III Dracula, detto l'impalatore, figlio di Vlad Drakul, principe in Valacchia.
Nato nel 1431, dominò dal 1456 al 1462, con estrema crudeltà e il suo passatempo preferito appunto era impalare la gente. Era talmente ossessionato da ciò, che faceva imbandire la tavola dove mangiava ed intratteneva i vari ambasciatori in mezzo a foreste di uomini impalati, dissertando con essi delle tecniche di impalatura che utilizzava.
Torturava i prigionieri nei modi più atroci e neppure la sua morte liberò i rumeni dall'angoscia. Infatti nel 1931 la sua tomba, situata nella cappella solitaria del monastero di Snagov (vicino Bucarest), venne riaperta, ma il cadavere decapitato di Vlad era sparito e al suo posto fu ritrovato lo scheletro di un cavallo.
Ma perché la storia di Dracula è entrata a far parte di quelle storie fantastiche di cui protagonisti sono fantasmi, elfi o vampiri? Cosa sta dietro al fatto che un eroe reale, un principe, è stato assimilato con creature dell'immaginazione? Perché la figura di Vlad Tapes viene collegata a quella di un vampiro, che nel folclore popolare si identifica in un cadavere che si alza dalla tomba durante la notte, spesso nella forma di un pipistrello, succhiando per nutrimento il sangue di un umano dormiente?
In queste pagine cercherò di presentare con una spiegazione il più ragionevole possibile, basandomi cioè su fatti reali che possono essere confermati, cosa si nasconde dietro la figura di Dracula.

 
 


 

 
 

DRACULA - STORIA


Con Dracula viene dunque identificato Vlad III secondogenito di Vlad II Dracul e della principessa ungherese Cneajna, nato nel 1431 in Sighisoara (Transilvania), e che diventerà re di una delle parti storiche della Romania: la Valacchia. Essa confinava con l'impero Ottomano al Sud, con il Mare Nero ad est, e con la Moldavia e la Transilvania al Nord.
Suo padre Vlad II, secondogenito del potente voivoda Mircea il Vecchio e della principessa ungherese Mara, nasce in un'epoca incerta e difficile. Mircea si trova infatti a combattere per il dominio della Valacchia minacciata dal potente Impero Ottomano in continua espansione, e dal confinante Sacro Romano Impero del quale era vassallo in qualità di signore dei due ducati transilvani di Amlas e Fagaras. Nominato dal consiglio dei boiari principe di Valacchia nel 1386, Mircea nel 1400 interverrà nelle lotte di successione al trono che si sono scatenate nella confinante Moldavia, contribuendo all'ascesa al trono di Alessandro il Buono, creando così i presupposti di rapporto di reciproco aiuto tra Valacchia e Moldavia.
Ma quattro anni più tardi Il principe valacco, riesce ad estendere il proprio dominio anche sulla Moldavia sfruttando i disordini scoppiati in Transilvania, portando così la Valacchia alla massima espansione nella sua storia.
Nel 1411 Sigismondo di Lussemburgo già re d'Ungheria e signore di Transilvania, viene nominato anche re di Germania e dei Romani. Così Mircea, in qualità di suo vassallo, gli giura fedeltà. Ma alcuni anni più tardi Mircea, intimorito dalla potenza turca, tradisce il giuramento fatto a Sigismondo scendendo a patti con gli infedeli, e viene così privato di tutti i territori transilvani. Successivamente implorerà la pietà a Sigismondo, promettendoli di pagare pesantissime sanzioni e lasciandoli inoltre come ostaggio presso la corte sua corte, il proprio secondogenito Vlad II.
Morto Mircea il Vecchio, il Consiglio dei Boiari nomina il primogenito legittimo Mihail I. Questi però resterà in carica solo per due anni, cioè prima della sua morte, così si scatena una nuova sanguinosa guerra di successione. Infatti tutti i maschi hanno lo stesso diritto, in quanto in Valacchia la primogenitura non garantisce necessariamente la successione, essendo il principe regnante scelto dal Consiglio dei Boiari. Uscirà vincente Dan II, cugino e noto nemico di Mihail I.
Venuto a conoscenza della guerra scoppiata in patria, e dell'elezione del cugino Dan II, Vlad II cerca di fuggire senza successo dalla sua prigionia. Ma nel 1430, riguadagnatosi la fiducia di Sigismondo, che dopo la morte di Mircea non aveva più ragioni di tenerlo prigioniero, viene nominato capitano delle guardie di frontiera con il compito di controllare il principe Dan, e si stabilisce nella città transilvana di Sighisoara, situata al confine con la Valacchia. Nel dicembre del 1436 assume il potere spodestando il fratellastro Alexandru Aldea che nel frattempo aveva a sua volta spodestando il cugino Dan II.
Due anni più tardi Vlad II Dracul è costretto, dall'inarrestabile avanzata turca che ha già travolto le confinanti Serbia e Bulgaria, a tradire il giuramento di fedeltà fatto al Sacro Romano Impero, alleandosi con il sultano turco Murad II. Con il figlio maggiore Mircea, Vlad accompagna l'esercito ottomano in un'incursione armata in Transilvania. Per non tradire il giuramento fatto all'Ordine del Drago, e cioè di proteggere i cristiani, Vlad II userà la sua influenza presso il sultano per salvare la vita ai cristiani transilvani. Intanto il re d'Ungheria Ladislao trama per spodestare Vlad II a favore del più fedele Basarab II.
Nel 1442 l'esercito turco invade la Transilvania passando dalla Valacchia, che però questa volta rimane astutamente neutrale in quanto Vlad II fu informato dei trattati segreti fra il re d'Ungheria e il governatore di Transilvania Hunyadi, per insediare sul trono Basarab II. Dunque non prendendo posizioni né a favore dei turchi ne a favore degli ungheresi, egli non si macchierà di tradimento. Hunyadi però, dopo aver sconfitto l'esercito ottomano, punirà Vlad II perché colpevole di non aver tentato di arrestare l'avanzata turca e Basarab II viene eletto principe.
Rifugiatosi in Turchia Vlad II e la famiglia invece di ricevere asilo, vengono fatti imprigionare dal sultano con l'accusa di tradimento. E qui abbiamo un altro fatto importante nella storia di Dracula. Infatti successivamente Vlad II lascia il figlio Dracula e suo fratello Radu, in ostaggio in cambio di un aiuto armato per riconquistare il trono valacco. In questa lunga prigionia turca a Egrigoz (1444 – 1448) Dracula impara ad odiare i turchi e il loro "barbari" costumi, cosa che non fa il fratello Radu che invece, anche grazie al suo aspetto fisico molto attraente, entrerà nelle simpatie del sultano Murad II, avvicinandosi alla cultura turca dalla quale poi non si allontanerà mai più. Intanto Vlad II Dracul, torna sul trono valacco grazie all'aiuto dell'esercito turco. Negli anni di prigionia Dracula apprende l'impiego del terrore e delle torture utilizzate dai soldati ottomani, come l'impalamento, una tecnica che egli stesso userà in futuro e che gli costerà il soprannome di "Tepes" (impalatore in romeno).
Nell'autunno del 1444 papa Eugenio IV ordina una nuova Crociata e così il governatore transilvano Hunyadi obbliga Vlad II Dracul a rispettare il giuramento fatto all'Ordine del Drago, garantendoli il suo appoggio. Ma Vlad II, che da una parte aveva il Sacro Romano Impero e dall'altro il potente sultano turco a cui giurò fedeltà per tornare sul trono e a cui aveva lasciato in ostaggio i suoi due figli, sceglierà di onorare il giuramento fatto all'Ordine del Drago unendosi all'esercito ungherese, che verrà però sconfitto. Ma anche se tradito da Vlad II, il sultano decide di non uccidere i due prigionieri, decidendo solo di rinchiudere il bel Radu nel proprio harem personale.
Proprio in questo periodo Dracula vive la sua prima avventura sentimentale innamorandosi della concubina più giovane del sultano, che accortosi però del tradimento, la farà squartare davanti allo stesso Dracula che rimarrà del tutto indifferente al terribile spettacolo.
Diventato governatore di Ungheria, Hunyadi conquista con l'aiuto di Vlad II Dracul la potente fortezza turca di Giurgiu mentre i turchi, condotti nuovamente da Murad II succeduto a Mehemed II sul trono dell'Impero Ottomano, invadono la Grecia. Vlad II viene così richiamato a un nuovo patto di fedeltà da Murad II, il quale gli promette di salvare la vita dei suoi figli e soprattutto l'indipendenza della Valacchia. Prendendo questa strada Vlad II firma però la sua condanna a morte. Infatti Hunyadi decide di vendicarsi una volta per tutte del suo comportamento ambiguo e invade la Valacchia. Nel dicembre del 1447 Vlad II Dracul viene assassinato assieme al figlio.
Dracula appresa la notizia, giura di vendicare la morte del padre e il sultano Turco decide di dargli fiducia.
Il 19 ottobre 1448 I turchi sconfiggono Hunyadi e Dracula attraversa indisturbato la Valacchia in quanto Vladislav, padrone della corona valacca, era appunto impegnato in battaglia al fianco di Hunyadi. Al comando di un grosso contingente militare si fa nominare principe dai pochi nobili non impegnati in battaglia con Vladislav, prendendo così possesso del potere in Valacchia.
Ma il mese successivo Vladislav II invece che correre in aiuto dell'alleato Hunyadi, caduto prigioniero dei serbi, lotta con successo per riavere il suo trono e così Dracula torna prima ad Adrianopoli (Turchia) presso il sultano e poi a Suceava, capitale della Moldavia, presso lo zio Bogdan e il cugino Stephan. I due cugini si promettono che, una volta saliti sui rispettivi troni, Moldavia e Valacchia saranno unite da reciproca alleanza.
Nel 1451 viene assassinato Bogdan II, e così Stephan e Dracula si rifugiano in Transilvania chiedendo la pietà del nemico Hunyadi. Il governatore transilvano decide di non punire Dracula e di tenerlo come "principe di riserva" dal momento che il suo protetto Vladislav II si mostra troppo vicino alla causa turca. Con l'andare del tempo Dracula grazie a Hunyadi, partecipa sempre più attivamente alla vita di corte e alle battaglie, entrando in contatto con gli esponenti più in vista della corte ungherese. Alla fine Hunyadi deciderà di assegnare a Dracula, che nel frattempo si era sposato con una sconosciuta nobildonna transilvana, i ducati transilvani di Amlas e Fagaras, sottraendoli a Vladislav II definitivamente passato dalla parte dei turchi, e lo riconosce come pretendente ufficiale al trono di Valacchia.
Nel 1452 il cugino Stephan riprende possesso del trono dopo che l'assassino del padre era stato cacciato.
Con la presa di Costantinopoli da parte dei turchi nel maggio del 1453 la Valacchia diventa l'ultimo bastione cristiano sul confine tra il Sacro Romano Impero e quello Ottomano.
Due anni dopo, a causa di una guerra scoppiata in Moldavia per la successione al trono, Dracula e il cugino Stephan devono nuovamente rifugiarsi in Transilvania, nel castello di Hunyadi a Hunedoara. Dracula vi resterà un anno dopodiché nel 1456, ottenuto il permesso da Hunyadi, torna in Valacchia dove uccide Vladislav II, riprendendo così possesso delle sue terre e dei suoi diritti. Si narra che proprio in quella notte, in cui cioè ritornò al potere, gli astronomi di tutto il mondo videro nel cielo una lunga scia luminosa, che solo secoli dopo sarà conosciuta come la cometa di Halley.

 
 


 

 
 

DRACULA - L'ORIGINE DEL NOME


Per un migliore comprensione del vero carattere di Vlad Tepes III, ovvero Dracula, è necessario spiegare l'origine del suo soprannome. Nel 1431 l'Imperatore Sigismondo dette una colana ed un medaglione d'oro con inciso un drago a Vlad II padre di Dracula, investendolo così del Sacro Ordine del Drago, un'organizzazione semi-monastica, fondata dallo stesso Sigismondo insieme alla moglie Barbara von Chilli il 12 dicembre 1418, con il compito di difendere la cristianità del Sacro Romano Impero dalle continue minacce della potenza ottomana.
Già in questo la gente semplice vide l'inizio di una alleanza col diavolo. Successivamente per le prime due emissioni monetarie Vlad II usò l'emblema del drago ed è da questo momento iniziarono a soprannominarlo Dracul - Dracula. Da questo momento iniziò così ad essere chiamato Vlad Dracul (Vlad il Diavolo) invece di Vlad Dragonul (Vlad il Drago) ed è forse in questi due possibili significati, una delle ragioni della confusione tra "diavolo" e "vampiro" che in alcune lingue, ha portato ad associare Dracula a un vampiro. Questo nomignolo è mutato poi in un cognome per i suoi discendenti. Ecco come dunque si spiega il fatto che il suo secondogenito sarebbe stato chiamato Dracula.
Agli stoici ottomano egli però non è noto come Dracula ma come Vlad Tepes, cioè il nome usato anche nella storiografia Rumena, anche se egli firmava sempre col nome del padre, Dracula, come testimoniato dal primo documento di Bucharest datato 20 settembre 1459.

 
 


 

 
 

DRACULA - LA LEGGENDA


Dracula, nuovo principe di Valacchia, duca di Amlas e Fagaras e cavaliere del Sacro Ordine del Drago giura fedeltà al nuovo re d'Ungheria e signore della Transilvania, Mattia Corvino. Uno dei primi provvedimenti presi dal nuovo principe è lo sterminio dei nobili che giurarono fedeltà a Vladislav II; finiranno tutti impalati nel cortile del palazzo reale di Tirgoviste. A questo periodo di regno, il più lungo, risale anche la ricostruzione del castello di Arges, quello che diventerà il famoso "Castel Dracula" citato nel celebre romanzo di Stoker (nel quale viene però spostato nel nord della Transilvania, nei pressi di Bistrita). Le pietre per la ricostruzione di questa fortezza saranno trasportate a mano dai nobili infedeli.
Nel 1457 Dracula invade la Transilvania saccheggiando la regione di Sibiu, probabilmente per scovare il fratello Vlad il Monaco, anch'egli pretendente al trono valacco, e per vendicare la morte del padre. Stephan il Grande riprende possesso, con il fondamentale aiuto del cugino, delle sue terre e tornando così ad essere principe di Moldavia.
A dispetto delle buone relazioni che sembrano intercorre tra Vlad e Matyas, quest'ultimo aveva infatti dato sostegno finanziario e politico alla guerra intrapresa da Vlad contro i Turchi, c'erano però alcuni punti di conflitto, e questo è un altro aspetto fondamentalmente nella storia di Dracula.
Uno era il proprietario primo della corona di Valacchia con Fagaras ed Almas che erano però sotto il controllo del principe della Transilvania. Ma dopo un accordo Fagaras ritornò sotto l'autorità di Vlad mentre Almas no.
Il nuovo monarca Mattia Corvino aumenta le sanzioni imposte ai mercanti e ai nobili valacchi, e ciò non fa che aumentare l'odio di Dracula nei confronti della Transilvania, già macchiatasi dell'assassinio del padre e del fratello. E così nell'aprile del 1459 Dracula, stanco di sopportare le pesanti punizioni di Matyas, invade la città transilvana di Brasov profanandone la chiesa e impalando gran parte dei cittadini e dei nobili sulle colline intorno alla città; è in questa occasione che Dracula mangia fra i cadaveri impalati. Ma le incursioni punitive di Dracula in Transilvania non si fermeranno qui, esse infatti proseguiranno anche nel successivo anno, e tra tutte una delle più sanguinose fu quella del 24 agosto (notte di San Bartolomeo) ad Amlas, dove furono impalate più di 20.000 persone.
L'azione però fu per lui un successo totale dal punto di vista militare in quanto portò Almas sotto la sua autorità. Come un forma di vendetta, alcuni anni più tardi fu pubblicato un libro che raccontava gli atti di crudeltà di Dracula. Questo, messo insieme al folclore ed ad altri fattori, come il suo modo originale di uccidere (cioè impalando), ed il suo piacere nell'uccidere, guida alla storia moderna di Dracula.
Nell'inverno del 1461 la Valacchia dichiara guerra alla Turchia che continua la sua avanzata inarrestabile. Per resistervi Dracula ha però bisogno di aiuto ma né il re ungherese Matyas e né il cugino Stephan gli forniscono appoggio e così il potente sultano Mehemed II detto il Conquistatore, entra in Valacchia.
Stephan di Moldavia, entrato poi in guerra, ma dalla parte dei turchi, viene ferito gravemente e si ritira col suo esercito tornando in Moldavia.
Radu, fratello di Dracula, viene nominato principe di Valacchia e gli viene dato il compito di trovare il fratello e ucciderlo, trasformando così la guerra in una faida famigliare tra Radu, principe legittimato dal sultano, ed il fuggiasco Dracula accompagnato da pochi boiari fedeli.
Dracula si rifugia così nel suo castello di Arges insieme alla moglie, che per la paura di cadere nelle mani dei turchi, una notte si ucciderà gettandosi nelle acque del fiume Arges, che prenderà poi il nome di "fiume della principessa". Scappato dal castello e tornato in Transilvania, Dracula viene arrestato dai soldati di re Matyas e richiuso nella Torre di Salomone del castello ungherese di Visegrad, dove vi resterà per 12 anni, a causa di una falsa accusa di alto tradimento che gli viene rivolta. Il re ungherese infatti inventò la falsa delle lettere scritte dal principe valacco al sultano turco al fine di liberarsi dell'unico unico testimone che lo poteva accusare di aver preso i fondi della crociata senza però prenderne parte.
Negli anni di prigionia Dracula ottiene il consenso di sposarsi con Ilona Szilagy, parente del re ungherese, a patto di convertirsi al cristianesimo.
Nella primavera del 1473 suo cugino Stephan di Moldavia, venuto a conoscenza dell'intenzione di Mattia Corvino di condurre una nuova potente Crociata, attacca Radu scacciandolo dal trono di Valacchia che però non passa a Dracula ma al potente voivoda valacco Basarab III.
Ma Dracula finalmente libero viene nominato comandante della Crociata e insieme al cugino Stephan e al principe provvisorio di Valacchia Basarab III, sconfigge i turchi scacciandoli definitivamente dal suolo valacco. L'anno successivo i tre firmano un patto di alleanza tra Valacchia, Moldavia e Ungheria.
Dracula, ufficialmente riconosciuto come legittimo pretendente al trono valacco, decide di intraprendere insieme a Stephan di Moldavia, Vuc Brancovic ed il nuovo comandante ungherese Stephan Bathory, una guerra per spodestare Basarab III, passato dalla parte nemica, dal trono di valacchia.
Dracula prima conquisterà la capitale Tirgoviste, poi entrerà a Bucarest, e successivamente riprenderà il controllo delle sue terre venendo infatti nominato principe di Valacchia dal Consiglio dei Boiari e consacrato dal metropolita di Arges.
Ma nel dicembre dello stesso anno (1476) Dracula morira nella battaglia con Basarab III, tornato con un esercito di turchi, dopo un periodo in cui si era rifugiato prima a Bucarest e poi in Turchia. Vinta la battaglia Basarab III, probabilante colui che uccise personalmente Dracula, inviò poi la testa di quest'ultimo al sultano turco presso la corte di Costantinopoli. Dracula venne poi sepolto nel monastero di Snagov e come già detto, i suoi resti non verranno mai ritrovati.

IL CONFRONTO TRA REALTA' E STORIA


Il primo libro riguardante Dracula è stato pubblicato nel 1463 il cui titolo era "La Storia di Voivode Dracula" che era un evidente attacco alla politica riguardante i tedeschi attuata da Vlad, soprattutto riguardo ai metodi crudeli da lui usati. Il libro ha circolato attraverso l'Europa, specialmente nella comunità tedesca (probabilmente l'area di più grande di diffusione della storia di Dracula) fino a 1559-1568 dove è stato pubblicato in diverse edizioni.
Una seconda area di diffusione fu la borghesia russa, dove dal 1468 iniziò a circolare una versione del manoscritto.
Da là la storia passò ai contadini creando come era ovvio un vasto folclore. Poi finalmente la storia giunse, non attraverso scritti ma mediante tradizione orale, in un'area molto ampia e cioè il sud-est dell'Europa.
Da questo momento la storia di Vlad Tapes III Dracula è diventata sempre più una realtà che anche un nuovo genere di letteratura: "la letteratura del Vampiro".
Il capostipite di tutto questo fu il libro di Bram Stoker. Esso fu pubblicato per la prima volta nel 1897, ed ebbe un grande successo dovuto in parte alla popolarità del soggetto già esistente. Stoker è in stato in qualche modo la persona più vicina alla verità di Dracula più di molti altri autori sebbene egli non abbia mai messo piede sulla terra rumena e questo perché si è documentato per lungo tempo ed ha parlato inoltre con storici e con molta altra gente. All'inizio del libro c'è una descrizione accurata dei luoghi dove la storia comincia e anche il ritratto che vi si trova è, in alcuni tratti, vicino al reale ritratto di Dracula, ma appena le azioni delle storia muovono in Inghilterra, si entra nella pura fantasia.
A Bram Stoker va riconosciuto sicuramente il grande merito di aver creato un personaggio incredibile, che ha goduto e gode tuttora di una ineguagliabile popolarità.
In conclusione possiamo dunque dire che, a parte il grande folclore che "vi è stato costruito sopra", per la maggior parte dei rumeni la storia di Dracula resta giusto una storia, niente di più, e solo pochi hanno per così dire, paura di questa misteriosa figura

domenica 25 luglio 2010


LA BARONESSA DI CARINI

Il Castello di Mussomeli è noto anche per la tragica vicenda che ha avuto come protagonista Laura Lanza, Baronessa di Carini, figlia di Cesare Lanza.
Cesare Lanza, nel 1500, era l'unico proprietario del Maniero e lo abitava con la propria famiglia.
La storia tramanda che Cesare Lanza, venuto a conoscenza che la propria figlia Laura, coniugata con il Barone di Carini, aveva mantenuto dei rapporti extraconiugali con un giovane cavaliere, per difendere l'onore del Casato, si recò presso il Castello di Carini, dove dimorava Laura e cogliendola sul fatto, decise di assassinare la propria figlia, strangolandola!
Avvenuto l'infame delitto, Cesare Lanza, divorato dai rimorsi, decise di rifugiarsi nel Castello di Mussomeli per espiare.
Triste destino quello che fu riservato a Donna Laura di Carini!, andata sposa a soli 14 anni, per volere del padre, al Barone di Carini che, tutto preso dagli affari legati alla sua proprietà, si disinteressò ben presto della giovane moglie, lasciandola spesso sola e triste nell'antico maniero che la ospitava.
Laura aveva un amico d'infanzia, Ludovico Vernagallo, con il quale soleva passare molto del suo tempo e ben presto molti cominciarono a pensare che ne fosse divenuta l'amante…..da qui il tragico epilogo della sua vita!
Ancora oggi, sembra, che lo Spirito di questa infelice donna vaghi per il Castello di Mussomeli alla ricerca del padre che l'avrebbe uccisa ingiustamente.
Alcuni testimoni affermano che la sua materializzazione è quasi perfetta, tanto che se non fosse per l'abbigliamento appartenente ad un'altra epoca, la si potrebbe confondere per una donna realmente vivente.
Laura indosserebbe degli abiti del 500, un'ampia gonna di seta, un corpetto sul quale avvolge uno scialle finemente lavorato.
Chiunque si trovi a visitare il Castello potrebbe incontrarla mentre vaga per le tre stanze più grandi del Maniero oppure mentre si reca presso la Cappella, dove si inginocchia e prega.
Molti studiosi si sono interessati all'argomento ed hanno riportato alla luce dei documenti dell'epoca dai quali risulta che il Vicerè di Sicilia informa la Corte di Spagna che il Conte Cesare Lanza ha ucciso la figlia Laura e Ludovico Varnagallo.
Tale documento, redatto il 4 dicembre 1563, è conservato nell'Archivio della Chiesa Madre di Carini.
Non esiste, tuttavia, nessuna prova che tra Laura Lanza e Ludovico Varnagallo ci fosse un sentimento diverso da quello dell'amicizia.
Esiste anche un Memoriale presentato, a sua discolpa, da Cesare Lanza al Re di Spagna che così recita:
Sacra Catholica Real Maestà,
Don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al Castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perché avia trovato il mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con detta baronessa, onde detto esponente mosso da juxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti furono ambodoi ammazzati.
Don Cesare Lanza conte di Mussomeli
Il conte non pagò mai per l'orrendo delitto mentre il Barone di Carini, il 4 maggio del 1565, convola a nuove nozze con Ninfa Ruiz.
Nessuno ancora oggi riesce a spiegare il motivo di tanta crudeltà verso una donna che, anche gli storici dell'epoca, hanno sempre definito " di fascino e di grandi virtù"!
Ludovico Vernagallo, inoltre, era da sempre amico di Laura e considerato anche dal conte Lanza come uno della famiglia!
Cosa mai avrà armato la mano del parricida rimane uno dei più grandi misteri storici che nessuno riuscirà mai a risolvere!
Visitando il Castello di Mussomeli non si può evitare di pensare alla Baronessa di Carini ed alla sua tragica ed eterna ricerca per conoscere, finalmente, dal proprio genitore il motivo di tanta crudeltà!

ched: Si

sabato 24 luglio 2010



 


H. P. LOVECRAFT E LE PORTE DELL'ABISSO

La vita di Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) fu tutta all'insegna di un'immaginazione sfrenata che, esasperata dall'odio verso l'esistenza banale di quel vivere che ignora, per fortuna, una realtà terribile, finì col trovare le porte segrete che si aprono su mondi di orrore dove: <<mostri nati vivi si occultano nel sottosuolo e si moltiplicano, dando luogo a una stirpe d'ignoti demoni>> (H.P.L., Commonplace Book, d. 1919). In fondo si può benissimo considerare Lovecraft come un romantico, che disprezzava il mondo reale e la banalità e futilità della vita umana. In una lettera, del 13 maggio 1923, a Frank Belknap Long, scrisse: <<Io sono uno che odia l'attuale, un nemico dello spazio e del tempo, della legge e della necessità. Bramo un mondo di misteri fastosi e giganteschi, di splendore e terrore, in cui non regni alcuna limitazione, tranne quella dell'immaginazione più sfrenata>>. L'immaginazione, in fondo, è quella visione reale, ben conosciuta dall'Iniziato, che conduce <<nel campo interiore senza luce, dove risiede quell'utero inafferrabile della creazione umana>> (Ugo Danilo Cisaria, Dizionario dei termini ermetici dall'Opera Omnia di Giuliano Kremmerz, Roma 1984). L'immaginazione ha un ruolo preminente in tutta l'opera di Lovecraft.

Gli dèi di Lovecraft sono tutti demoni di una religione abissale del caos, che lui scorge dietro le porte sigillate della percezione che gli si spalancano innanzi agli occhi. Là, la materia eterna degli dèi è invischiante, è terrore sacro, non concede salvezza ma fagocita nell'Abisso. Le divinità sono risvegliate dalle sue narrazioni-litanie, che sono un cordone ombelicale che si estende nelle voragini proibite di quella stirpe diabolica. Quello di Lovecraft è un universo senza alcun ordine e senza salvezza per l'umanità. Sebastiano Fusco, nell'introduzione al bel volume "Il Vento delle Stelle", da lui curato e tradotto, comprendente scritti inediti di Lovecraft, scrive: <<Baratri vertiginosi, da cui sortiscono terrori e meraviglie, dèi e mostri, incubi e visioni, dèmoni e archètipi. Inutilmente si cerca di attingere il fondo della voragine: l'immane spaccatura s'affonda nelle viscere del nostro inconscio, e quindi non conosce fine>>. Lì si trova tutto ciò che trascende l'individuale. E' paradiso e inferno allo stesso tempo. Il poeta premio Nobel e occultista Yeats, nella sua autobiografia, annotò: <<Ora so che la rivelazione viene dall'Io, ma da quell'Io che conserva i ricordi di lunghe epoche… e che il genio è una crisi che per qualche momento congiunge quell'Io sepolto alla nostra banale mente quotidiana>>.

La realtà, che si presenta davanti al solitario di Providence, è, a dir poco, agghiacciante, così terribile che Lovecraft arriva a convincersi che l'ignoranza è la salvezza del genere umano. Egli scrive in un suo racconto: <<Penso che il destino degli uomini sarebbe ancora più crudele di quanto sia già, se la nostra mente non fosse incapace di mettere in rapporto tra loro, tutte le cose che avvengono in questo mondo. La nostra vita si svolge in una placida isola di ignoranza, circondata dagli oscuri mari dell'infinito, e non credo che ci convenga spingerci troppo lontano da essa>> (Il richiamo di Cthulhu, 1926). E' tutto un Cosmo dominato dal caos, un mare di tenebre senza fine, che minaccia di travolgere ogni cosa fino a cancellare tutto. <<Fra pochi milioni di anni non vi sarà più alcuna razza umana>>. Così scrive, nel 1918, a Reinhardt Kleiner.

Quali porte varcò H. P. Lovecraft? Da dove ha origine il suo apocalittico universo? E come spiegare le notevoli affinità delle storie dello scrittore di Providence col Culto di Crowley? Kenneth Grant osserva: <<Lovecraft non conosceva né il nome né le opere di Crowley, tuttavia alcune delle sue fantasie rispecchiano, sia pure in modo distorto, i temi salienti del Culto di Crowley…>>. Seguono alcuni esempi tratti dal libro di K. Grant, Il risveglio della magia, (Roma 1973). Nel sistema di Crowley come nelle narrazioni di Lovecraft si parla di divinità denominate <<Grandi Antichi>>. Lo scrittore descrive un regno che chiama <<deserto gelato>> è <<Kadath>> mentre Crowley parla di un <<freddo
deserto chiamato Hadith>>. Lovecraft narra di <<Colui che è senza volto (il dio Nyarlathotep)>> e Crowley di <<Colui che è senza testa…>>. Lovecraft racconta di una <<La Stella a cinque punte incisa sulla pietra grigia>> e nel Culto di Crowley troviamo: <<La Stella di Nuit, a cinque punte con il cerchio nel mezzo (il grigio è il colore di Saturno, la Grande Madre di cui Nuit è una forma)>> Ecc.

Grant asserisce che Lovecraft può essere compreso soltanto in un contesto misterico. Serge Hutin si dice convinto che: <<la descrizione di certi rituali magici effettuata da Lovecraft sono il resoconto di esperienze realmente vissute>> (Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, L'ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani, Chieti 1989). Benché suggestiva tale ipotesi, è decisamente da accantonare. De Turris e Fusco, ce ne spiegano il motivo: <<A nostro parere la prova che Lovecraft non era un vero e proprio iniziato nel senso effettivo del termine (cioè, non aveva cominciato e superato la regolare trafila di contatti con un individuo o un gruppo in grado di trasmettergli una qualsiasi iniziazione tradizionale) si ritrova nella sua stessa opera letteraria. In definitiva, non crediamo che Lovecraft abbia mai avuto contatti con una associazione tradizionale di qualsiasi genere, in grado di trasmettergli un reale insegnamento iniziatico sul piano operativo>> (Ibidem).

Eppure, è anche vero che Lovecraft ha lasciato resoconti estremamente interessanti nei suoi scritti, che sembrano attestare profonde conoscenze esoteriche. Da dove traeva questo sapere? Dai suoi sogni? E' possibile anche che le sue narrazioni nascessero dall'esperienza di bilocazioni spontanee, veri e propri viaggi astrali, una sorta di "Grand Jeu" che il nostro solitario esploratore effettuava durante il sonno visitando mondi ignoti. L'ipotesi non è peregrina. De Turris e Fusco scrivono: <<…si può rilevare un'impressionante coincidenza tra i sogni di Lovecraft e le visioni risultato di un'esperienza tipica dell'addestramento occulto secondo determinate scuole molto diffuse in Occidente: vale a dire l'esperienza del cosiddetto viaggio astrale>> (Ibidem). In questo caso lo scrittore era, naturalmente, portato a un certo tipo di esperienze e certamente la sua psicologia era di tipo molto particolare.

La fantasia è indispensabile per questo tipo di esplorazioni. Julius Evola spiega: <<Chiunque sogna dimostra, in via di principio, di possedere facoltà di immaginare e visualizzare>> e chiarisce: <<L'importanza dell'immaginazione sta nel fatto del suo essere lo strumento per spostarsi sul piano sottile…>> (J. Evola, Lo Yoga della potenza, Roma 1968). E una spiccata e acutissima fantasia in Lovecraft è indubitabile. Ma come questo potere, latente in ogni individuo, si manifestò improvvisamente in Lovecraft? Quali elementi psicologici e sotto quali spinte stimolarono così potentemente questa misteriosa facoltà? E' necessario, a questo punto, studiare il personaggio più approfonditamente, dal punto di vista psicologico, per cercare di comprenderlo appieno e di decifrare il suo complesso ed enigmatico mondo interiore.

Vi sono individui che posseggono certe capacità in alto grado. Lo studioso francese René Sudre (1880-1968), direttore della "Revue Métapsychique" avverte che la facoltà paranormale <<...non dipende né dal sesso né dal grado di intelligenza, né, tanto meno, dall'età ma la si nota più spesso nei sonnambuli, negli isterici, negli ipnotici e in genere nei soggetti psicotici. ... è congenita, ma pare che possa anche essere acquisita accidentalmente. Un trauma, uno choc morale, i mutamenti fisiologici della pubertà e della menopausa possono provocarla o favorirla. Eusapia Palladino ebbe l'osso parietale mezzo sfondato all'età di un anno; a otto anni vide suo padre sgozzato dai briganti. La signora Piper diventò soggetto in seguito a uno spavento subìto e a due operazioni chirurgiche>> (R. Sudre, Trattato di Parapsicologia, Astrolabio, Roma 1966). Uno studio approfondito sulle caratteristiche psicologiche della personalità di Lovecraft non mi risulta che sia stato mai approntato. Lo si può tentare ora.

Vanno cercate nella sua vita date segnate da avvenimenti particolari, traumatizzanti o di grande sofferenza psicologica. Nel 1893 il padre dello scrittore, Winfield Scott Lovecraft, subisce un improvviso attacco di follia e, in seguito, anche di paralisi. Viene ricoverato al Butler Hospital di Providence. Il padre non si rimetterà più e morirà in manicomio nel 1898. Lovecraft ha solo 8 anni, è ancora un bambino e questa brusca perdita della figura paterna assieme alla disperazione della madre non possono non aver inciso sulla sua psiche. La madre assume, lentamente, un atteggiamento iperprotettivo morboso che raggiunge il culmine quando comincia a imbottire e smussare gli angoli dei mobili per paura che Howard Phillips, che ora ha 10 anni, si possa far male. Il ragazzo, nel frattempo, cresceva nervoso, delicato, soffocato dalle eccessive premure materne. Si rifugia nella grande biblioteca della casa dei nonni e si perde in lunghe letture e altrettanto lunghi silenzi sempre in uno stato di <<stanchezza e letargia morale>>. Isolato dal mondo vive totalmente immerso nella sua fantasia mentre compone i suoi primi lavori.

Alla morte del nonno materno, Whipple Van Phillips (1833-1904), che aveva sostituito la figura paterna, Lovecraft deve fare ancora una volta i conti con un destino avverso. Nel 1905 la caduta da un'impalcatura gli produce una ferita alla testa con, forse, un trauma cranico. L'episodio colpisce Lovecraft che ne parlerà come di un <<infermità>> nel suo epistolario. Nello stesso anno un esaurimento nervoso lo travolge con inaudita violenza obbligandolo a ritirarsi dalla scuola. Da quest'anno in poi, per tutta la vita, sarà tormentato da terribili mal di testa. Possono essere stati questi accadimenti, sommati alla perdita del padre, ad aver innescato certe facoltà proprio come sosteneva René Sudre: <<Un trauma, uno choc morale…>> alla base dell'attivazione di strani poteri. Nel 1911 un rovescio economico travolse madre e figlio. Lovecraft per tutta la vita non uscirà più da una povertà angustiante. La madre inizierà da allora a peggiorare mentalmente e nel 1919 viene ricoverata nello stesso manicomio dove era morto il marito e anche lei non ne uscirà più.

Prove tremende segnarono la vita dello scrittore, lo spinsero sempre di più a concepire una natura malvagia e distruttiva, celata dietro un mondo futile e banale popolato da una grande moltitudine di persone banali. Anche il suo matrimonio con Sonia Haft Greene, celebrato il 3 marzo del 1924, finì col naufragare dopo appena due anni. La sua salute psichica e fisica era sempre molto fragile, i più piccoli sforzi, da giovane, lo prostravano: <<persino lo sforzo di sollevarmi a sedere è insopportabile>>. Aveva assunto le caratteristiche di un morto vivente: <<Io sono vivo solo per metà… gran parte della mia forza la consumo sollevandomi a sedere o camminando. Il mio sistema nervoso è un rottame, e sono assolutamente annoiato e indifferente, tranne quando trovo qualcosa che m'interessa particolarmente>>. Era l'unica possibilità che aveva di fuggire dal mondo che lo circondava, dalle illusioni di una vita banale e dalle ferite ancora sanguinanti che gli aveva inferto il destino, ciò che lo manteneva in vita. Insomma doveva ad ogni costo sottrarsi alla squallida e falsa realtà quotidiana e nello stesso tempo vendicarsene.

In una lettera del 30 ottobre 1929 esprime perfettamente questo stato d'animo: <<Non sono l'unico a vedere un problema veramente grave per l'esteta sensibile che vorrebbe restare vivo tra le rovine della civiltà tradizionale. Infatti un atteggiamento di allarme, dolore, disgusto, rifiuto e strategia difensiva è così generale, virtualmente, fra tutti gli uomini moderni dotati d'interessi creativi, che talvolta provo la tentazione di tacere, per timore che il mio sentimento personale possa venire scambiato per imitazione ostentata! Dio, guarda l'elenco… Ralph Adams Cram, Joseph Wood Krutch, James Truslow Adamas, Jhon Crow Random, T.S. Eliot, Aldous Huxley, ecc… Ognuno ha un diverso piano di evasione, eppure ognuno vuole evadere dalla stessa cosa…>> da un mondo banale e allo stesso tempo pericoloso. E' il lamento di un segregato in una società che disprezza, dove gli uomini consumano i loro giorni sempre affaccendati a ripetere le stesse cose, come i pesciolini rossi di un acquario. Così gli appare la quotidianità.

E poi lo soffoca la piccola e angusta Providence, troppo stretta per lui ma che non riuscirà mai ad abbandonare. E' legato mortalmente da un doppio legame di odio-amore a quel luogo dove: <<Non succede mai niente! E' per questo, forse, che la mia fantasia spesso si avventura ad esplorare mondi strani e terribili… La mia vita quotidiana è una specie di letargo sprezzante, privo di virtù e di vizi. Non appartengo al mondo, ma ne sono uno spettatore divertito, talvolta disgustato. Detesto la razza umana e le sue pretese… per me la vita è una delle belle arti… sebbene io creda che l'universo sia un caos automatico, insignificante, privo di valori supremi…>> (lettera del 3 febbraio 1924). Ecco cosa lo spinge all'evasione. Infelice e geniale si sentiva a disagio nel mondo che sentiva intollerabile e irreale, come fosse un sogno e, la maggior parte della gente, prigioniera di quell'illusione. Doveva scappare, ad ogni costo, aprirsi varchi al di là dei confini del mondo dell'attualità. L'immaginazione lo proiettava, allora, verso confini misteriosi. La notte, nel sonno, la sua anima, finalmente, si separava dal corpo e valicava quei confini ed esplorava nuovi e terribili mondi. Solo così riusciva a sopportare la pena della vita il solitario eploratore di Providence.

Poi negli ultimi 5 anni della sua vita, percepì che il flusso creativo si andava via via spegnendo. Non sentiva più le ebbrezze dei quei viaggi misteriosi. Forse ormai aveva deciso di recarsi stabilmente in uno di quei luoghi che visitava quasi ogni notte. Abbandonare per sempre le contingenze e le illusorietà di questo mondo futile e distruttivo. Agli amici diceva sempre con più insistenza che aveva smesso di scrivere. A marzo del 1937 gli viene diagnosticato un brutto male e alle sei del mattino del 15 muore. Dopotutto è vero che l'opera conclusa conclude. Così volava via quest'anima inquieta attraversando le stesse porte dell'abisso, come aveva fatto tutta la vita, ma questa volta per sempre.

 
 

 
 

Giuseppe Cosco

venerdì 23 luglio 2010


            Abbracciando il vasto orizzonte al pari dell'arcobaleno, le sue sfumature
sono varie come i colori di quell'arco, e altrettanto distinte, e tempo stesso altrettanto intimamente fuse. Abbracciando il vasto
orizzonte al pari dell'arcobaleno! Com'e' che della bellezza io ho tratto
una negazione di essa? dal simbolo della pace una immagine di sofferenza?
Ma come nell'etica il male e' conseguenza del bene, cosi' nella realta',

dalla gioia scaturisce il dolore. O il ricordo della passata beatitudine

e' l'affanno dell'oggi, oppure le ambasce ATTUALI hanno la loro origine

nelle estasi che AVREBBERO POTUTO ESSERE.

Il mio nome di battesimo e' Igeo; non rivelero' pero' quello della mia

famiglia. Eppure non esistono monumenti in tutto il paese piu' antichi
della mia tetra, grigia, ereditaria dimora. La nostra schiatta e' stata
>chiamata stirpe di visionari, e infatti in molti sorprendenti

particolari, nell'aspetto del maniero domestico, negli affreschi della

sala centrale, negli arazzi delle stanze da letto, nelle cesellature
degli archi rampanti del nostro stemma araldico, ma soprattutto nella
galleria di quadri, nella foggia della biblioteca, e infine nel contenuto
specialissimo di questa, sono raccolte testimonianze piu' che sufficienti
suffragare tale credenza

I ricordi dei miei primi anni sono legati a questa stanza e ai suoi

volumi, intorno ai quali non diro' altro. Quivi mori' mia madre. Qui io

nacqui. Ma e' semplicemente superfluo dire ch'io non ero mai vissuto

prima, che l'anima non ha un'esistenza precedente. Negate voi questo? Non
discutiamone. Convinto io stesso, non cerco di convincere. Vi e' tuttavia

una reminiscenza di aeree forme, di spirituali occhi carichi di

significato, di suoni musicali e pur tristi, una reminiscenza che non

puo' essere negata; e' una memoria simile a un'ombra vaga, oscillante,

indefinita, incerta; e simile a un'ombra pure e' la mia impossibilita' a

liberarmene finche' la luce solare della mia ragione esistera'.

In quella camera io nacqui, risvegliandomi cosi' dalla lunga notte di

quel che sembrava, ma non era, il non essere, per trovarmi subito nelle

regioni stesse della fiaba, in un palazzo dell'immaginazione, negli

sconfinati domini dell'erudizione e del pensiero monastici. Non e' strano

che io mi guardassi attorno con occhio ardente, meravigliato, che

trascorressi la mia infanzia in mezzo ai libri, che disperdessi la mia

giovinezza in fantasticherie; ma e' strano, mentre gli anni passavano e

il mezzogiorno della virilita' ancora mi trovava nella dimora dei miei

padri, e' stupefacente il ristagno che rapprese le fonti della mia

esistenza, e' inspiegabile l'inversione totale che si opero' nel corso

dei miei anche piu' semplici pensieri. Le realta' dell'universo mi

colpivano come visioni, e come visioni soltanto, mentre le svagate idee

del paese dei sogni divenivano a loro volta, non l'elemento materiale

della mia vita quotidiana, ma veramente e propriamente la mia sola unica

vera vita.

Berenice ed io eravamo cugini, e insieme crescemmo entro le mura paterne.

Nondimeno crescemmo in modo diverso: io malaticcio, sempre immerso in

tetraggini, ella agile, graziosa, traboccante d'energia; sue erano le

corse sulla collina, miei gli studi del chiostro; io vivevo richiuso

nella cerchia del mio cuore, dedicandomi anima e corpo alla meditazione

piu' intensa e piu' dolorosa, ella si aggirava spensierata attraverso

l'esistenza senza il piu' lieve timore di ombre che potessero frapporsi

sul suo cammino, o del volo silente delle ore dalle ali corvine.

Berenice! Io invoco il suo nome, Berenice! e a questa voce balzano dalle

grigie rovine della memoria mille tumultuanti ricordi! Ah! quanto viva e'

la sua immagine dinanzi a me ora, come lo era nei primi anni della sua

levita' di cuore e della sua gioia! O sfarzosa e tuttavia fantastica

bellezza. O silfide tra i boschi di Arnheim! o najade tra le fontane! E

poi, poi tutto e' mistero e terrore, in un racconto che non dovrebbe

essere narrato. Un male, un male fatale, si abbatte' come il simun sul

suo corpo e, ancor mentre la contemplavo, lo spirito della dissoluzione

la ghermi', permeando la sua mente, le sue abitudini, il suo carattere, e

in modo cosi' sottile e spaventoso da alterare persino l'identita' della

sua persona! Ahime'! Il distruttore venne e fuggi', e la vittima...

dov'era la vittima? Io non la conoscevo, o almeno non la riconoscevo piu'

come Berenice.

Tra la numerosa successione di mali prodotti da quel primo e fatale

disordine che provoco' un mutamento di natura cosi' orrenda nella

struttura fisica e morale di mia cugina, citero' come il piu' doloroso e

ostinato una specie di epilessia che non infrequentemente si concludeva

con una vera e propria TRANCE, assai simile a una effettiva dissoluzione,

e dalla quale il modo con cui ella si riprendeva era nella maggior parte

dei casi sorprendentemente brusco. Frattanto la malattia che mi torturava

personalmente, poiche' gia' ho detto che non la chiamero' con altro

appellativo, la mia malattia dunque si diffuse rapidamente nel mio

organismo, assumendo alla fine un aspetto monomaniaco di carattere ignoto

e straordinario, guadagnando di intensita' d'ora e momento, sino a

esercitare su di me il piu' incomprensibile ascendente. Questa monomania,

se dobbiamo definirla tale, consisteva in una irritabilita' morbosa di

quelle facolta' mentali che la scienza metafisica definisce ATTENTE. E'

assai probabile che non riusciro' a farmi intendere, ma temo che non mi

sara' in alcun modo possibile, in verita', comunicare alla comprensione

del lettore comune un'idea adeguata di quella nervosa INTENSITA'

D'INTERESSE per la quale, nel caso mio, i poteri di meditazione (per non

esprimermi in modo tecnico) si torturavano e si fossilizzavano nella

contemplazione anche dei piu' semplici oggetti dell'universo.

Fantasticare infaticabilmente per lunghe ore con l'attenzione fissa su

qualche frivolo fregio marginale, o su qualche anomalia tipografica di un

libro; incantarmi durante quasi un'intera giornata estiva nello studio di

un'ombra insolita cadente di sghimbescio sulla tappezzeria o sull'uscio;

perdermi per notti intere a contemplare le ferma fiamma d'una lampada, o

le braci del camino; sognare per giorni e giorni intorno al profumo di un

fiore; ripetere monotonamente parole comuni sinche' il loro suono, a

forza di essere ripetuto, cessava di rappresentare alla mente un'idea

purchessia; perdere ogni sensazione di movimento o di esistena fisica,

grazie a una totale rilassatezza del corpo mantenuta a lungo e

ostinatamente; queste tra le tante erano le piu' comuni e meno perniciose

divagazioni prodotte da uno stato delle mie facolta' mentali non ancora

in verita' del tutto ineguagliato, ma che certo sfidava una qualunque

possibile analisi o spiegazione.

Prego pero' il lettore di non fraintendermi. L'attenzione eccessiva,

continua, morbosa, cosi' suscitata da oggetti frivoli per loro natura,

non deve essere confusa con l'inclinazione a rimuginare, comune a tutta

l'umanita', e nella quale si compiacciono soprattutto le persone di

immaginazione ardente. Non era neppure, come si potrebbe a tutta prima

supporre, una condizione estrema, o una esagerazione di tale

inclinazione, ma primariamente ed essenzialmente distinta e diversa. Nel

primo caso il sognatore o entusiasta sentendosi attratto da un oggetto

solitamente NON frivolo perde a poco a poco di vista questo oggetto in un

pelago di deduzioni e di ipotesi da esso oggetto scaturite, sino a che al

termine di un sogno a occhi aperti SPESSO IMPREGNATO DI ESUBERANZA si

accorge che L'INCITAMENTUM o causa prima del suo fantasticare e' del

tutto svanito e dimenticato. Nel caso mio l'oggetto primario era

INVARIABILMENTE FRIVOLO, pur assumendo, attraverso il mezzo della mia

fantasia malata, un'importanza irreale e rifratta. Scarse erano sempre le

mie deduzioni, e queste poche ostinatamente ritornavano sempre

all'oggetto originale come fulcro.

Queste mie meditazioni non erano MAI piacevoli, e al termine della

visione la causa prima, lungi dall'essere stata perduta di vista, aveva

raggiunto quell'interesse preternaturalmente eccessivo che costituiva il

carattere prevalente della malattia. In una parola i poteri della mente

da me piu' particolarmente esercitati ed acuiti erano, come gia' ho

detto, quegli ATTENTI, mentre nel sognatore ad occhi aperti si esaltano

soprattutto i poteri SPECULATIVI.

In quel periodo della mia esistenza i miei libri, se non servivano

propriamente a irritare il mio male, influivano almeno per larga parte,

come si vedra', grazie alla loro natura immaginativa e illogica, sugli

aspetti caratteristici del male stesso. Citero' tra i tanti il trattato

del nobile italiano Celio Secondo Curione, "De Amplitude Beati Regna Dei;

la grande opera di Sant'Agostino, "La citta' di Dio", il "De Carne

Christi di Tertulliano, in cui la frase paradossale "Mortus est Dei

filius; credibile est quia ineptun est: et sepultus resurrexit; certum

est quia impossibile est", occupo' senza tregua il mio tempo durante

lunghe settimane di faticosa e infruttuosa meditazione.

Apparira' cosi' che, scossa nel suo equilibrio soltanto da elementi

comuni, la mia ragione assomigliava a quel picco oceanico di cui parla

Tolomeo Efestione, il quale, mentre resisteva incrollabile agli attacchi

dell'umana violenza e all'ancor piu' selvaggia furia delle acque e dei

venti, tremava al solo tocco del fiore chiamato asfodelo; e per quanto a

un ragionatore superficiale potrebbe sembrare una questione fuor di

dubbio che il mutamento prodotto dal suo disastroso male nelle condizioni

MORALI di Berenice avesse a procurarmi infiniti argomenti per l'esercizio

di quella meditazione intensa e abnorme intorno alla cui natura ho avuto

tanta difficolta' a spiegarmi, questo non era invece affatto il caso.

Negli intervalli lucidi della mia infermita' la sua disgrazia mi

addolorava, e' vero, e prendendomi vivamente a cuore la rovina totale

della sua bella e dolce vita, non mancavo di riflettere spesso e con

amarezza ai mostruosi lavorii che avevano provocato cosi' all'improvviso

una tanto strana mutazione. Ma queste riflessioni non facevano parte

della idiosincrasia del mio male, ed erano tali che avrebbero potuto

presentarsi in circostanze analoghe alla massa comune dei mortali. Fedele

al proprio carattere distintivo, il mio disordine indugiava nei mutamenti

meno importanti ma piu' sorprendenti operantisi nella struttura FISICA di

Berenice, nella singolare e terrificante distorsione della sua identita'

esteriore.

Durante i giorni luminosi della sua ineguagliata bellezza io certamente

non l'avevo mai amata. Nella misteriosa anomalia della mia esistenza i

miei sentimenti NON ERANO MAI STATI del cuore, e le mie passioni ERANO

SEMPRE STATE della mente. Nel grigiore del primo mattino, tra le ombre

intrecciantesi della foresta a mezzogiorno, nel silenzio della mia

biblioteca la notte, ella eveva aleggiato dinanzi ai miei occhi, e io

l'avevo veduta, non come la vivente respiratrice Berenice, ma come la

Berenice di un sogno, non come un essere della terra, terreno, ma come

l'astrazione di un tale essere, non come una cosa da ammirare, ma da

analizzare, non come un oggetto d'amore, ma come il tema di una

speculazione estremamente astrusa per quanto sconnessa. E ORA, ora io

rabbrividivo alla sua presenza, impallidivo al suo avvicinarsi; e pur

compiangendo amaramente le sue condizioni miserevoli di decadimento, mi

rammentai che da tempo ella mi amava e in un istante malaugurato le

parlai di matrimonio.

Ed ecco che finalmente il momento delle nostre nozze si stava

approssimando: durante un pomeriggio, nell'inverno di quell'anno, - una

di quelle giornate fuor di stagione, calde, calme, piene di foschia, che

ricorrono nell'epoca detta la nutrice del bellissimo Alcione, - io sedevo

(e sedevo solo, cosi' almeno credevo) in un angolo remoto della

biblioteca, allorche' alzando gli occhi mi accorsi che Berenice mi stava

di fronte.

Era frutto della mia immaginazione eccitata, o della influenza nebbiosa

dell'atmosfera, o del crepuscolo incerto della stanza, o erano forse i

grigi panneggi che cadevano in pieghe attorno ala sua figura, che

provocavano in questa un aspetto cosi' vacillante e vago? Non saprei

dire. Ella non proferiva parola, e io... neppure con uno sforzo sovrumano

sarei riuscito a pronunciare una sola sillaba. Un brivido di ghiaccio mi

corse per le ossa; mi sentii oppresso da una sensazione d'insopportabile

angoscia; una curiosita' divorante mi pervase l'anima, e ricadendo

all'indietro sulla sedia rimasi per qualche tempo immobile e senza fiato,

gli occhi fissi sulla sua persona. Ahime'! La sua emaciatezza era

estrema, e in tutto il suo aspetto non vi era piu' neppure una lontana

traccia dell'antica creatura. Alla fine il mio sguardo bruciante si poso'

sul suo viso.

La fronte era alta, pallidissima, stranamente serena; e i capelli un

tempo color del giaietto ricadevano parzialmente su di essa adombrando le

tempie cave d'innumerevoli riccioli ora di un giallo vivo e

sgradevolmente discordanti nel loro fantastico aspetto con la malinconia

predominante nelle sembianze di lei. Gli occhi erano senza vita, opachi,

apparentemente privi di pupille, e io mi ritrassi involontariamente dalla

loro vitrea fissita' per contemplare le labbra sottili, affilate. Queste

si aprirono, e in un sorriso di particolare significato i DENTI della

mutata Berenice si dischiusero lentamente ai miei occhi. Volesse il cielo

che io mai li avessi veduti, o che dopo quell'attimo in cui io li vidi

fossi morto!

Il rinchiudersi di una porta mi disturbo', e allorche' alzai lo sguardo

mi accorsi che mia cugina era uscita dalla stanza. Ma dai recessi del mio

cervello alterato non era, ahime', uscito, ne' mai ne sarebbe stato

scacciato, il bianco, terrificante SPECTRUM dei denti. Non una

macchiolina sulla loro superficie, non un'ombra sul loro smalto, non

un'intaccatura nei loro orli; ma che cosa quell'attimo del suo sorriso

non era bastato a imprimere nella mia memoria! Io ORA li vedevo con

minore possibilita' di equivoco di quanto li avevo veduti ALLORA. I

denti! I denti! essi erano qui, e li', e dovunque, e visibili e palpabili

dinanzi a me; lunghi, stretti, innaturalmente bianchi, con le pallide

labbra arricciantisi su di essi, come nel momento stesso del loro primo

spaventoso sviluppo. Allora sopravvenne la furia totale della mia

MONOMANIA, e invano io lottai contro la sua strana irresistibile

influenza. Negli oggetti moltiplicati del mondo esterno io non avevo

pensieri che per quei denti. Li consideravo con una cupidigia frenetica;

ogni altra cosa, ogni altro diverso interesse si astraeva nella loro

contemplazione singola. Essi, essi soltanto, erano presenti all'occhio

della mia mente, ed essi, nella loro unica individualita', diventarono

l'essenza dela mia vita mentale. Io li contemplavo in qualsiasi luce: li

volgevo in ogni atteggiamento; ne studiavo le caratteristiche, mi

indugiavo a studiarne le particolarita'. Meditavo sulla loro

conformazione: fantasticavo sulla trasformazione della loro natura:

rabbrividivo nell'attribuire ad essi con l'immaginazione un potere

sensitivo e sensorio, e anche senza l'ausilio delle labbra una capacita'

di espressione morale. Di Mademoiselle Salle e' stato detto "que tous ses

pas etaient des sentiments"; ma di Berenice io fermissimamente credevo

"que toutes ses dents etaient des idees". DES IDEES... Ah! questo fu il

pensiero allucinante che mi distrusse! DES IDEES!... Ecco PERCHE' li

desideravo con cosi' pazza cupidigia! Sentivo che soltanto il loro

possesso poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione.

E cosi' la sera si chiuse su di me, e poi scesero le tenebre, e

indigiarono, e si dileguarono, e il giorno spunto' di nuovo, e i veli di

una seconda notte nuovamente si addensarono, e sempre io sedevo immobile

in quella stanza solitaria; e seguitavo a sedere sprofondato in

meditazione, e sempre il PHANTASMA di quei denti esercitava il suo

terribile influsso aleggiando con nitidezza sfolgorante, paurosa, tra le

luci mutevoli e le ombre della camera. Alla fine i miei sogni furono

interrotti da un grido come di orrore e di sgomento, al quale, dopo una

pausa, segui' un suono di voci turbate misto a molti sommessi gemiti di

dolore o di pena. Mi levai dal mio sedile e nello spalancare uno degli

usci della biblioteca vidi in piedi nell'anticamera una domestica in

lagrime la quale mi disse che Berenice... non era piu'. Era stata colta

da un attacco di epilessia durante le prime ore del mattino, e adesso che

la notte si avvicinava gia' la tomba era pronta ad accoglierla, e i

preparativi delle esequie gia' erano terminati.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Mi ritrovai seduto nella biblioteca e ancora una volta solo. Mi sembrava

che mi fossi da poco svegliato da un sogno eccitante e confuso. Sapevo

che era ormai mezzanotte, ed ero perfettamente consapevole che Berenice

era stata seppellita sin dal calar del sole, ma di quel tetro periodo

intermedio non avevo alcuna coscienza esatta, o per lo meno non definita.

Nondimeno il suo ricordo era pieno di orrore... di un orrore tanto piu'

orribile in quanto vago, di un terrore reso ancor piu' terribile dalla

ambiguita'. Era una pagina paurosa del libro della mie esistenza tutta

scarabocchiata di ricordi confusi, orrendi, incomprensibili. Tentai di

decifrarli, ma invano; mentre a intervalli, ripetuti, simile allo spirito

di un suono fuggente, l'urlo acuto lacerante di una voce femminile

sembrava rintronare entro le mie orecchie. Io avevo fatto qualcosa... ma

che cosa? Mi ripetevo la domanda ad alta voce, e gli echi bisbiglianti

della stanza mi rispondevano. - Che cosa?

Sul tavolo accanto a me bruciava una lampada, e accanto a questa era

posata una piccola scatola. Non rappresentava alcuna caratteristica

particolare e gia' io l'avevo veduta molte altre volte, essendo di

proprieta' del nostro medico di famiglia; ma come era venuta a finire

li', sul mio tavolo, e perche' rabbrividivo nel guardarla? Non sapevo in

alcun modo spiegarmi questo mio stato d'animo, finche' i miei occhi

caddero sulle pagine aperte di un libro, e precisamente su una frase

sottolineata in esso. Erano le strane e pur semplici parole del poeta Ebn

Zaiat: "Dicebant mihi sodales si sepulchrum amicae visitarem, curas meas

aliquantulum fore levatas". Perche' dunque nello scorrere quelle poche

righe i capelli mi si rizzarono sul capo, e il sangue del mio corpo si

raggelo' entro le mie vene?

In quella si intese all'uscio della biblioteca un bussare sommesso, e

pallido come l'abitante di una tomba un domestico entro' in punta di

piedi. Aveva lo sguardo alterato dalla paura, e si rivolse a me, con voce

tremante, soffocata, bassissima. Che cosa mi disse? Non afferrai che

alcune frasi rotte. Mi narro' di un grido forsennato che aveva squarciato

il silenzio della notte, che i familiari si erano radunati, che ricerche

erano state fatte in direzione del grido, e a questo punto i suoi accenti

divennero paurosamente distinti mentre egli mi sussurrava di una tomba

violata, di un corpo avvolto nel sudario sfigurato, eppure ancora

respirante, ancora palpitante, ancora VIVO.

Parlando, il domestico appunto' l'indice contro i miei abiti; erano

coperti di fango e tutti ingrommati di sangue. Io non parlai, ed egli mi

prese dolcemente la mano: era tutta segnata dall'impronta di unghie

umane. Rivolse quindi la mia attenzione a un oggetto appoggiato contro la

parete; lo fissai per alcuni minuti: era una vanga. Con un urlo balzai

verso il tavolo, afferrai la scatola che vi era posata sopra. Non ebbi

pero' la forza di aprirla; tremavo tanto che essa mi scivolo' di mano e

cadde pesantemente frantumandosi in mille pezzi. Da essa, con un rumore

secco, crepitante, uscirono rotolando alcuni strumenti di chirurgia

dentaria, mescolati a trentadue piccole cose bianche, eburnee, che si

sparsero qua e la' sul pavimento.