martedì 31 agosto 2010


STORIA della Basilica di Saint Denis

Essa sorge sul luogo di un antico cimitero gallo-romano dove  venne sepolto il primo vescovo di Parigi,martirizzato nel 250 d.C.La leggenda narra che egli, decapitato a Montmartre dai gallo-romani per aver tentato di convertire il popolo al cristianesimo, raccolta la propria testa si incamminò verso nord,prima di crollare a terra sul luogo della futura basilica. Pare che il primo santuario venne edificato da Santa Genoveffa all'incirca nell'anno 475 d.C.Fin da allora si susseguirono pellegrinaggi e nel VII° sec.DAGOBERTO divenne il benefattore del monastero che era stato edificato. Pipino il Breve si fece consacrare proprio qui,insieme ai suoi figli Carlomanno e il futuro Carlomagno,nel 754.I re di Francia  ci tenevano ad essere sepolti accanto al santo decapitato e il primo ad essere inumato fu proprio Dagoberto. Si instaurò un legame del tutto particolare tra l'Abbazia e il potere REALE,tanto che Saint Denis divenne una delle più potenti del regno sotto SUGER(1122-1151),che era consigliere dei re e reggente di Francia  durante la seconda CROCIATA. L'abate Suger,amico del re Luigi VII°,decise di ricostruire questa basilica nel nuovo stile che si andava imponendo.Qui vi furono consacrate numerose regine e la storia della monarchia francese si mescola con quella della basilica che-per la presenza delle reliquie dei santi martiri-nel tempo aveva assunto una triplice protezione,agli occhi dei sovrani:

- Del corpo e dell'anima del re per la sua stessa funzione di necropoli

-del regno,simboleggiato dalla presenza dell'ORIFIAMMA,vessillo reale

-della corona,per la conservazione -nel suo tesoro-degli oggetti della consacrazione,detti REGALIA.

Con la Guerra dei Cent'anni prima ,le guerre di religione e le questioni politiche faranno sì che il ruolo della Basilica vada in declino,finchècon la Rivoluzione Francese 800 tombe furono profanate e i corpi gettati nella fossa comune,nella cripta,sotto il transetto nord

Fortunosamente,le statue dei re e delle regine erano state tolte da Lenoir poco tempo prima per restauro,quindi si salvarono. I lavori restauro furono iniziati per volere di  Napoleone I  e proseguirono per tutto il XIX° sec., diretti da Viollet-le-Duc,a partire dal 1846.

STRUTTURA

Suger intraprese la ricostruzione della chiesa carolingia,partendo da ovest.Pur presentando fedeltà alla struttura Romanica, la Basilica costituisce un'innovazione per l'iconografia e soprattutto per la presenza di un rosone,che è il primo del genere.


 

Si narra che l'intraprendente Suger non si fermasse di fronte ad alcun ostacolo,nella realizzazione dell'opera:si prodigò in ogni maniera possibile pur di renderla sontuosa come si era prefissato.Raccolse fondi,ricercò le materie prime,dall'oro alle pietre preziose per le suppellettili della chiesa fin'anche alle travi della dovuta lunghezza per le strutture,controllando minuziosamente il lavoro e volendo ad ogni costo quella 'architettura di luce'che era nel suo progetto mentale.Alla morte di Suger,i lavori subirono un arresto fino al 1231(circa mezzo secolo fermi)per poi riprendere sotto la direzione dell'architetto Pierre de Montreuil,lo stesso che-abbiamo detto prima-pare abbia seguito anche i lavori della Sainte Chapelle.Sopra la massiccia cripta,vengono elevati un DOPPIO DEAMBULATORIO e le CAPPELLE RADIALI nelle quali la volta su 'ogive'crociate appare perfettamente manifestata per la prima volta. Questa tecnica permette di alleggerire i supporti e di scavare le pareti per dare l'illusione-tramite le VETRATE-di un "muro ondulatorio di luce".Saint Denis conserva alcune vetrate  che sono le più antiche di Francia.


 

Quella che venne definita "La Crociata delle cattedrali"era stata vinta,a Saint-Denis e R.Oursel nei recenti anni '70 dirà ":Suger proietta una luce trasmutata attraverso le vetrate multicolori,incarna nell'edificio una filosofia della volontà,e tutta la generazione gotica-dietro di lui-si slancia verso quel fascinoso ideale.La pietra preponderante e dura scompare dietro le evanescenze del vetro mutevole"

        
 

Le vetrate furono restaurate nel XIX° secolo.Nella foto centrale vediamo sullo sfondo a destra, un soggetto importantissimo "L'ALBERO DI JESSE'", nella cappella assiale,che servirà poi da modello per quella di Chartres.

Sostando nella Basilica,ci si interroga sul  significato profondo che si volle dare alla LUCE e che i costruttori gotici conoscevano molto bene, rendendo la cattedrale stessa depositaria del suo messaggio spirituale.Rifacendosi a grandi filosofi greci quali Platone e Plotino,  Goethe ha affermato:"Se l'occhio non fosse solare/come potremmo vedere la luce?/ Se non vivesse in noi la stessa forza di Dio/ come potremmo entusiasmarci per il divino?"(teoria dei colori). La luce delle cattedrali (e io devo dire che a Saint Denis l'ho avvertito in special modo), esprime esattamente quelll'entusiasmo per il divino cui fa riferimento Goethe e la sensazione (che diviene consapevolezza)di essere parte della stessa forza creatrice, della stessa energia cosmica.


 


 

La chiesa abbaziale fu soprannominata "LUCERNA"(la lanterna) in ragione della sua luminosità e  a ragione costituisce una delle principali opere del XIII° secolo.

(della dualità luce/tenebre ho già accennato nella sez."Medioevo e cattedrali").

  Il coro, costruito tra il 1140 e il 1144, esprime lo 'spirito'della nuova arte gotica.

rosone sud.Notare come è marcata la similitudine con la 'ruota' dai 12 raggi.

Il nuovo architetto conserverà parzialmente la costruzione di Suger ma le conferirà gli apporti tecnici del gotico che era a quel tempo all'apice:eleva ulteriormente le volte grazie all'impiego dell'arco rampante e crea una pianta totalmente modificata con un transetto di eccezionale ampiezza, che doveva raccogliere le tombe reali.

LA NECROPOLI  REALE

Fin dall'Alto Medioevo, la Basilica fu scelta dai RE di Francia Merovingi come necropoli reale.Il primo,abbiamo detto,fu DAGOBERTO,ma in precedenza la regina Aregonda-nuora di Clodoveo-vi aveva creato una tomba  grandiosa e riccamente adornata,che fu scoperta in occasione di scavi archeologici nella cripta.

Tra i sovrani CAROLINGI, sono sepolti CARLO MARTELLO,PIPINO IL BREVE,CARLO IL CALVO. 

A partire da UGO CAPETO -eccettuati Luigi IX e Luigi XI- tutti i re di Francia vengono inumati qui.

Sarà Luigi IX (San Luigi) ad ordinare le prime statue giacenti di pietra.


 

La sua tomba,però,fu distrutta durante la Guerra dei Cent'Anni. 

Vi riposarono indisturbati  46 re, 36 regine, 63 principi e principesse,10 grandi del regno fino alla Rivoluzione.

Re senza tombe, i BORBONI venivano seppelliti nella cripta appositamente sistemata per i loro corpi imbalsamati e chiusi in bare adagiate su telai di ferro.Questo è lo 'scaffale' situato all'interno della camera sepolcrale dei Borboni,molto buia.La fotocamera ha stranamente riportato un'immagine chiara e così si possono notare i vari contenitori che conservano parti anatomiche(cuore soprattutto) dei vari re a cui appartengono.

Bisognerà attendere la RESTAURAZIONE perchè venga ridata alla Basilica la funzione di necropoli reale.Fu nel 1817 che Luigi XVIII fece inumare nella cripta le ossa dei re che erano state disperse e fece trasferire dal cimitero della Madeleine i corpi di Luigi XVI° e di MARIA ANTONIETTA,che ora riposano nella cappella centrale della cripta, accanto anche a Luigi XVIII°,Luigi VII° e Luisa di Lorena.


 

L'ambiente è molto suggestivo. I capitelli delle colonnine sono tutti istoriati e costituiscono una delle rare testimonianze della scultura romanica dell' Ile -de -France.

L'intera cripta -alla quale si accede tramite una scala- si erge  su vestigia più antiche,della vecchia chiesa carolingia dell'abate Fulrad che era stata consacrata nel 775. Ma essa si ergeva sui strutture ancora più antiche.Infatti, una cripta martyrium  ricorda il luogo dove dovevano trovarsi le reliquie di Saint-Denis,qui conservate fino al XII°sec.

Oggi le reliquie di S.Denis,sono conservate nell'altare maggiore in questa teca,insieme a quella di altri due Santi.

Uno dei capitelli della cripta:rappresenta il Santo Denis con la testa in mano;secondo la leggenda egli,decapitato sulla collina di Montmartre,,si rialzò e la raccolse.

Il corridoio della cripta è a forma circolare ed è aperto da vetrate che conservano ancora tracce policrome. 

Vi si trova anche un'OSSARIO con le ceneri  dei re e le liste reali di tutti i re di Francia Lista di alcuni re delle prime dinastie sepolti qui.


 

Il baldacchino ad archi  e a forma di tempietto,è ornato da statue di apostoli e dalle virtù cardinaali.All'attenzione,presentano tutte un  marcato simbolismo. All'interno,le statue della coppia  reale rose dai vermi,mentre al di sopra la coppia reale è in preghiera e le statue simboleggiano la loro resurrezione. 

Altre tombe seguono questa particolarità:quelle di Francesco I e Claudia di Francia,quella di Enrico II e Caterina dè Medici.In ognuno dei due mausolei,la coppia reale è rappresentata due volte:una prima volta da viva e in preghiera(o risorta), una seconda nuda e distesa sul letto di morte.

Nel DEAMBULATORIO si trova   la statua giacente di Childeberto I (metà del XII° sec.), che è  la più antica, di questo tipo, della Francia del Nord.

Nell'altare della Basilica vi si trovano i  reliquiari dei martiri,che qui furono collocate fin dal XII° sec.

Transitando per il lato Sud  si noterà -in una delle cappelle radiali-la copia del vessillo reale od Orifiamma e le splendide statue in preghiera di LUIGI XVI° e MARIA ANTONIETTA, che furono commissionate dal  re Luigi XVIII°.


 


 

Chiarito il mistero del cuoricino del delfino di Francia,Luigi XVII

Nella Basilica di Saint-Denis si trovano le reliquie dei due figli maschi di  Maria Antonietta e di Luigi XVI, nonchè eredi al trono. A causa della sua salute cagionevole, il primo ebbe un destino  molto breve,morendo a soli otto anni. Il corpicino venne posto in mostra, con indosso una veste di stoffa intessuta d'argento, in una bara foderata di velluto. Il cuoricino fu portato in Val-de-Grace dal figlio del Duca d'Orleans per essere sepolto a parte. Il resto del corpo venne seppellito a Saint-Denis. La scritta che corre attorno al tondo dice Louis J.X.F.DAUPHINE DE FRANCE NE' A VERSAILLES LE 22 OCT.1781 MORT A MEUDON LE 4 JUIN 1789  

Di fronte a questa lapide vi è quella del fratello, Louis-Charles secondogenito di Luigi XVI°  e di Maria Antonietta, Delfino di Francia.La scritta dice: LOUIS XVII ROI DE FRANCE ET DE NAVARRE(nessuna data di nascita e di morte nè i luoghi). Divenne titolare della corona (con il nome di LUIGI XVII)  alla morte del fratello Joseph nel 1789 e fu già duca di Normandia, non ebbe una sorte molto diversa da quella del fratello e attorno alla sua morte aleggia un certo mistero.Nel corso della rivoluzione segue il destino della famiglia reale. Rinchiuso nella prigione del Tempio nel 1792, si sa che egli  venne portato via alla madre insieme alla sorella Teresa, dopo la sentenza di condanna a morte della Regina, e in seguito affidato ad un certo calzolaio Simon, pare un rivoluzionario, per essere allevato nel rispetto dei principi repubblicani; costui- però- dopo che fu eletto nella Comune, lo abbandonò a sè stesso e ufficialmente il governo  annunciò il ritrovamento del corpicino ormai morto in una cella,nel 1795(anche se,come si può vedere nella foto sotto,sul pannello dell'Histoire de France è scritto 1794,per 'tubercolosi ossea'). Pare che fosse morto di stenti e di tisi.  Successivamente sorsero dubbi su questa versione, in quanto numerose persone si  spacciarono, tempo dopo, per l'infelice, giovane sovrano. Si era voluta mascherare la morte dell'erede al trono di Francia? I monarchici avrebbero esultato se il delfino fosse stato ancora vivo.

A detta della versione ufficiale, il corpicino venne gettato in una fossa comune previa anestesia. Il dottore che se ne occupò pensò di trattenere il cuoricino nel tentativo di conservarlo, ma  la reliquia fu  rubata dal suo assistente e restituita al dottore solo quando questi era  in punto di morte. Venne ,in seguito, trafugata altre volte e pare che venne preso in custodia da un certo don Massimo nella sua dimora religiosa. Ai nostri giorni il cuoricino, sottoposto a molte analisi di laboratorio  sembrerebbe non lasciare  dubbi sulla sua appartenenza, i dati genetici coincidono infatti con  quelli di Maria Antonietta e di Luigi XVI.Comunque sia,nella chiesa di S.Marguerite c'è qualcosa di strano,dicono i bene informati. Dalla sacrestia si può accedere al vecchio cimitero che ormai conserva una sola tomba ma di grande interesse storico.Una piccola croce di pietra,piantata ai piedi del muro esterno della chiesa,porta la semplice iscrizione "L XVII" che per taluni starebbe ad indicare "Luigi XVII"(ma potrebbe essere una data). E'sepolto qui il bambino che morì nella Torre del Tempio? Intanto,il suo cuore è almeno stato ricongiunto a quello dei suoi genitori,del fratellino e dei suoi avi,nella cripta della necropoli reale di Saint Denis.


 

  • Resta da chiarire dove sia finita la figlia( l'orfanella del Tempio) di Maria Antonietta e del re Luigi XVI, sorella degli altri due bambini. A quanto pare,fu mandata in esilio e di lei non si seppe più nulla.Questo pannello,dell'Histoire de Paris(se ne incontrano moltissimi in città),situato dove un tempo sorgeva la Torre del Tempio, ricorda ai turisti il fatto che in essa furono imprigionati i re di Francia durante la Rivoluzione (Luigi XVI e consorte, con i loro figli); riguardo al delfino(l'altro bambino era morto in precedenza) e alla sorella dice questo:"Le dauphin meurt,sans doute en 1794,de tuberculose osseuse; l' "orpheline du Temple",liberèe en 1795,prend le chemin de l'exil". Cioè "Il delfino morto, senza dubbio nel 1794, di tubercolosi ossea;l'orfanella del Tempio,liberata nel 1795,prese il cammino dell'esilio". Sembrerebbe chiudersi tutto qui. Ma sappiamo come la storia è piena di 'corsi e ricorsi'...

Speriamo ci sia un po' di pace in tutte queste anime.


 

 
 

 
 

Bibliografia consigliata:

  • "La Basilique  Saint-Denis"Alain Erlande-Brandenburg, èditions Ouest-France,1994
  • "Le Tresor de Saint-Denis"(ouvrage collectif=opera collettiva),èdition Faton,Dijon,1992
  • "La Basilique  Saint-Denis les etapes de sa construction"Branislav Brankovic,èdition du Castelet,1990
  • "Saint-Denis,la montee des pouvoirs"Anne-Marie Romèro, CNMHS/Ouest-France,1993

 
 

  


 
  • Nel mese di luglio dell'anno 1135 gli occhi dell'uomo medievale videro qualcosa che nessuno aveva mai visto prima d'allora.
    L'abate Suger di Saint-Denis (uno dei più importanti centri monastici, nonché sacrario di tutti i re di Francia) durante la ricostruzione della sua chiesa abbaziale realizzò un'architettura nuova, un' "architettura di luce" sostenuta da mura sottilissime.


     

    In quell'estate, a Saint-Denis, era nato un nuovo modo di concepire l'architettura: era nato l' Opus francigenum. l'Arte di Francia, il Gotico.

    Ma com'è possibile che dalle mura tozze e massicce del Romanico, d'improvviso, sia potuto nascere un concetto così rivoluzionario di architettura che in pochissimi anni muterà radicalmente il gusto e l'estetica di tutta Europa? Dove trovarono i mezzi e le conoscenze architettoniche per realizzare edifici del genere, considerando che le tecniche costruttive romane erano ormai dimenticate da secoli?

    L' opera di Suger non si può considerare come un fatto isolato.
    Nulla nella Storia avviene per caso e le schematiche suddivisioni temporali che le imponiamo nascondono sotto la loro superficie una serie di sfumature infinite, infiniti passaggi: più la lente si avvicina e più essi si moltiplicano, come avviene per la materia e per l'atomo.

    Il Basso Medioevo è un'epoca di grandi sconvolgimenti, rivoluzioni, sperimentazioni, riscoperte. Un'epoca in cui spiriti arditi si battono in favore dei diritti dell'intelligenza e si liberavano da concezioni tradizionali, rivendicando il diritto di giudizio e di critica. È in formazione una società nuova nella quale l'uomo si affranca, a poco a poco , dal potere feudale, laico e religioso, individuando propri rappresentanti che reclamano nuove libertà

    Improvvisamente, nel XII secolo, il movimento di espansione accelera.
    La crociata, la corsa dei cavalieri di Cristo alle ricchezze dell'Oriente, l'avventura favolosa, è un segno dello sviluppo. Ma ce n'è un altro meno clamoroso, più sicuro, inscritto nel paesaggio: è allora che si crea la sua fisionomia, visibile ancora oggi. Villaggi nuovi, campi floridi, vigneti e un nuovo attore che va impadronendosi del ruolo principale: il denaro. Sempre troppo raro perché se ne ha sempre più bisogno ovunque, a causa della vitalità di tutti i commerci.

    I contraccolpi di questa crescita si ripercuotono su ogni livello dell'edificio culturale.
    Il sentimento religioso muta, imponendosi la convinzione che il rapporto con Dio è affare personale.
    Dall'Apocalisse lo sguardo scivola insensibilmente verso gli Atti degli Apostoli, verso il Vangelo.
    Un tale mutamento di prospettiva si riflette sull'opera d'arte.

    Figure di uomini ovunque, figure vere, coraggiose. La nuova arte del XII secolo è coraggiosamente libera.

    Intanto fiumi di oro affluiscono nei forzieri dei regni d'occidente grazie allo slancio conquistatore nei confronti dell'infedele, grazie ai commerci delle Repubbliche Marinare.
    Gruppi di chierici francesi seguono i cavalieri che stavano strappando la Spagna e la Sicilia al dominio musulmano; essi si gettano sui libri raccolti nelle splendide biblioteche di Toledo e di Palermo.

    Così Parigi conosce la scienza degli antichi, Euclide, Tolomeo e i trattati di logica di Aristotele.
    Così si afferma il metodo, da qui nascon i primi centri di ricerca e il pensiero di Abelardo: "Dal dubbio ci muoviamo alla ricerca, e attraverso la ricerca percepiamo la verità". Tutta la nostra scienza è uscita da li.

    La luce di Cristo, dispensatrice di vita, comincia a uscire dalle cripte e a comparire all'esterno. Diffusa, profusa da ogni lato, in modo che l'universo sia dominato nelle sue dimensioni, spazio e tempo, fino alla fine del mondo. La Luce è lì, ora, nel presente.
    La luce, il perpetuo irradiamento del dio luce diffuso su creature in cui, insensibilmente, la materia e lo spirito si confondono; questa idea è al centro dell'estetica di Saint-Denis.

    Ciò conduce l'abate a ridurre quanto più possibile lo spazio dei muri, a renderli porosi, traslucidi; a sfruttare al massimo, per questo, la crociera ogivale, artificio di costruttori del nord che i cistercensi avevano già impiegato soltanto come mezzo per consolidare l'edificio.
    Suger lo nobilita, lo rende protagonista, facendolo diventare la "chiave di volta" della nuova architettura.
    In questo modo i raggi luminosi possono penetrare in abbondanza, e lui desidera che lo facciano in maniera trionfale, ornandoli di "splendide gemme". Gloria della vetrata.

      

 

lunedì 30 agosto 2010


Storia dell'Abbazia di Farfa


 

"Iste est quem tibi promiseram locus"
"Questo è il luogo che ti avevo promesso" Parole rivolte dalla Madonna a S. Tommaso di Moriana, restauratore di Farfa, per indicargli il luogo dove erano le rovine dell'Abbazia distrutta, ricostruita poi dal santo: è il luogo dell'attuale monastero

 
 

L'Abbazia di Farfa è uno dei monumenti più insigni del Medio Evo europeo; ebbe il patrocinio di Carlo Magno e possedette, nel periodo di massimo splendore, una vastissima porzione dell'Italia Centrale. L'origine dell'Abbazia è ancora incerta, anche se i più recenti scavi archeologici guidati dal prof. David Whitehouse, direttore della British school di Roma, hanno appurato l'esistenza di un complesso del periodo romano sotto l'attuale Badia. La quasi certa identificazione di Lorenzo Siro con il vescovo di Forum Novum (Vescovio) del 554 accerterebbe la creazione, nel Vl secolo, di un centro fervente di fede e di ricchezza. Al tempo dell'invasione longobarda esisteva una basilica ed alcuni edifici monastici. Secondo una leggenda, nell'ultimo ventennio dei VII secolo, Tommaso di Moriana (o Morienna), che viveva a Gerusalemme, a seguito di una visione della Madonna, esortato a cercare in Sabina, in un detto Acuziano, i resti di una basilica a lei dedicata, riedificò l'opera costruita dal vescovo Siro e diede luogo ad una rifondazione della comunità. Nei primi anni dell'VIII secolo il monastero godette della protezione del Duca di Spoleto Faroaldo II.

Farfa era così un'Abbazia Imperiale, svincolata dal controllo pontificio ma vicinissima alla S. Sede. In pochi decenni diveniva uno dei centri più conosciuti e prestigiosi dell'Europa medievale; Carlo Magno stesso, poche settimane prima di essere incoronato in Campidoglio, visitò l'Abbazia e vi sostò. Per comprendere l'importanza economica di Farfa basti pensare che nel terzo decennio del IX secolo, sotto l'Abbate Ingoaldo, essa possedeva una nave commerciale esentata dai dazi dei porti dell'impero carolingio. Sempre a questo periodo risale l'ampliamento massimo del monastero. La chiesa principale, dedicata alla Vergine, si arricchì di una seconda abside dedicata al Salvatore, con un ciborio tutto d'onice, affiancata da due torri. Nel tesoro abbaziale figuravano, in questi anni, tra l'altro, un cofanetto d'oro purissimo adorno di gemme (dono di Carlo Magno), una croce d'oro con pietre preziose lunga oltre un metro, due croci d'oro con reliquie della Croce, quattordici calici d'argento, due corone d'oro e d'argento e quattro sigilli d'oro. La decadenza dell'Impero carolingio e la penetrazione dei Saraceni furono fatali all'Abbazia. Sette anni resistette l'Abbate Pietro I con le sue milizie e, alla fine, divisi monaci e tesoro in tre parti, abbandonò Farfa. L'Abbazia fu presa e incendiata. Dei tre gruppi il primo fondò Santa Vittoria di Matenano nelle Marche, il secondo fu trucidato a Rieti dai Saraceni e il terzo, che si era salvato a Roma, passato il pericolo tornò a Farfa sotto la guida di Ratfredo che, divenuto Abbate, nel 913 completò la chiesa. Fu però un fuoco di paglia, perduta la protezione imperiale si allentò l'unità territoriale. Alcune famiglie romane (Crescenzi-Ottaviani e Stefaniani) si insediarono in molti territori dell'Abbazia divenendone di fatto padroni, la decadenza fu tale che si ebbero all'interno dell'Abbazia contemporaneamente tre abbati in lotta tra loro.

L'ultima ripresa di Farfa si ebbe per opera dell'Abbate Ugo I (997 - 1038), non a caso con il contemporaneo rilancio imperiale ad opera della dinastia degli Ottoni. Nel 999 fu introdotta la riforma nata a Cluny. Con Berardo I (1047 - 1089) Farfa riassume i caratteri di Abbazia imperiale e nella lotta per le investiture si schiera contro i Papi e a favore di Enrico IV con la conseguenza che, nel 1097, i monaci decidono, per motivi di sicurezza, di trasferire il complesso abbaziale sul sovrastante monte Acuziano, dove ancora oggi sono visibili le imponenti rovine dell'opera iniziata e mai finita. I possedimenti farfensi di questo periodo sono vastissimi, si possono leggere in un diploma del 1118: l'Imperatore Enrico V riconferma pertinenti all'abbazia le zone di S. Eustachio e Palazzo Madama in Roma, Viterbo, Tarquinia, Orte, Narni, Terni, Spoleto, Assisi, Perugia, Todi, Pisa, Siena, Camerino, Fermo, Ascoli, Senigallia, Osimo, Chieti, Tivoli, il territorio aquilano, il Molise, il porto di Civitavecchia e metà città.

La definitiva decadenza inizierà, però di lì a poco: il Concordato di Worms (1122) segnerà, infatti, il passaggio del monastero all'autorità pontificia; con l'Abbate Adenolfo (1125) si sancì ufficialmente la totale sudditanza. Una fiammata filoimperiale si ebbe nel 1155 al passaggio di Federico Barbarossa. Decadenza economica e crisi monastica aggravarono in modo irreparabile la vita dell'Abbazia e alla metà del XIV secolo si arrivò all'interdizione e alla scomunica dell'Abbate per il mancato pagamento delle decime alla Camera Apostolica

Carbone Tomacelli, Cardinal nipote di Bonifacio IX, all'inizio del XV secolo fu il primo Abbate Commendatario. Non tornò certo il prestigio dei secoli passati ma, in alcuni casi, le famiglie nobili che ebbero, con l'istituto di Commenda, il monastero, ne migliorarono le strutture. Gli Orsini nella seconda metà del XV secolo costruirono l'attuale chiesa che fu consacrata nelle 1496; i Barberini riordinarono e ampliarono il borgo, in larga parte utilizzato per le due grandi. fiere del 25 Marzo e dell'8 Settembre, ricorrenze dell'Annunciazione e della Vergine alla quale è dedicata l'Abbazia.

Nel 1798 Farfa subì il saccheggio dei Francesi e nel 1861 la confisca da parte dello Stato italiano. Dal 1921 l'Abbazia appartiene alla comunità benedettina di S. Paolo fuori le mura. Occupiamoci ora della fisionomia architettonica quale si rivela al visitatore. Attraverso un portale romanico del XIV secolo (con aggiunte gotiche) si accede ad un cortile sullo sfondo del quale si apre la Chiesa Abbaziale consacrata alla Vergine, risalente alla seconda metà del XV secolo. Da notare sopra il portale romanico, nella lunetta, un affresco quattrocentesco.

Nelle mura della chiesa si possono distinguere frammenti di sarcofaghi paleocristiani. L'interno del la basilica è a tre navate divise da due filari di eleganti colonne joniche, sulla parete di fondo un grande olio su muro rappresentante il Giudizio Universale dipinto nel 1561 dal pittore fiammingo Henrik van der Broek. Affreschi del XVI e XVII secolo rappresentanti Storie della Vergine, Santi e Storie bibliche decorano l'abside e le navate minori; da segnalare nella prima cappella a destra una Crocifissione (copia da Francesco Trevisani), nella seconda una Madonna col Bambino e due Angeli detta Madonna di Farfa, venerata tavola del XIII secolo, ricoperta (nel XIX sec.) da una lamina d'ottone sbalzata che lascia visibili solo i volti. Presso la porta della Basilica, nel transetto e nell'abside sono tornati alla luce interessanti resti: un altare di epoca Carolingia e un tratto di parete affrescata con un'immagine di abbate (il cosiddetto Arcosollo di Altperto) che il prof. Whitehouse, leggendo attentamente il tratto di scrittura superstite, recentemente ha identificato con S. Lorenzo Siro. Nelle tre cappelle della navata di sinistra hanno lavorato Orazio Gentileschi e i suoi allievi. Del maestro sono infatti le tre tele raffiguranti S. Orsola (I cappella), Madonna col bambino (Il capp.), Crocifissione di S. Pietro (III capp.), degli allievi gli affreschi che arredano l'interno delle cappelle e che raffigurano episodi di storia sacra. Nel transetto è visibile, in parte, il pavimento originario della I metà del IX secolo. Nella cappella di sinistra del transetto si stagliano le severe immagini dei fondatori dell'Abbazia di Farfa: San Tommaso di Morienna e San Lorenzo Siro. Nel soffitto del transetto e nel coro vanno attentamente osservate le poco consuete (per un luogo sacro) grottesche della scuola degli Zuccari. Il coro ligneo dell'abside è del primo Seicento. Prima di lasciare la chiesa, alzando gli occhi, si può ammirare il soffitto a cassettoni del 1494 con lo stemma degli Orsini in un riquadro al centro della navata. Da visitare sono anche la cripta a forma semianulare dei secc. VII - VIII, nell'atrio della quale vi è un bellissimo sarcofago romano (fine II sec. d. C.) con scena di battaglia fra Romani e Barbari, e la torre Campanaria (secc. IX - XIII), alla base di quest'ultima, in un vano quadrato, si notano, anche se deperiti, interessantissimi affreschi di scuola romana della metà dell'XI secolo, rappresentanti Storie bibliche e l'Ascensione. Salendo nelle stanze superiori, in una di esse, affrescati in un sottareo, alcuni Profeti dipinti nel XV secolo.

La visita all'Abbazia si può completare chiedendo di essere accompagnati al Chiostrino Longobardo (con una bifora romanica del XIII sec.). e al Chiostro grande risalente alla seconda metà del XVII secolo, dove sono raccolte sculture ed epigrafi romane; da qui, per un portale a punte di diamante si passa nell'attuale biblioteca dotata di oltre 45.000 volumi, dove si trovano alcuni pregevoli codici. Non possiamo lasciare questo luogo benedettino senza ricordare l'antica biblioteca e il suo prestigioso Scriptorium. Della prima possiamo dire con certezza che nel periodo di massimo splendore (fine Xl sec.) fu una delle biblioteche più ricche d'Europa; del secondo che ebbe la capacità di creare una scrittura, sotto il governo dell'Abate Ugo I, che assunse una caratteristica propria distinguendosi da tutte le altre minuscole del tempo: la Minuscola Romana nello Scriptorium Pharfense diventa la Romanesca Farfense che troverà gloria nelle opere di Gregorio da Catino (1062 -1133), autore di fondamentale importanza per la storia italiana ed europea del Medio Evo. Da visitare anche i locali del nuovo Museo, in corso di allestimento, siti al piano terreno. Nella Sezione Arcaica fanno bella mostra i materiali archeologici appartenenti ai popoli che vivevano nell'antica Sabina (molto più grande dell'attuale) provenienti dalla vicina località di Colle del Forno. Testimonianza eccezionale di questa cultura italica, per troppo tempo ignorata e tutt'oggi poco conosciuta, è il Cippo di Cures, unico esemplare di epigrafia sabina su pietra della fine VI sec. a.C. Il prezioso reperto, non ancora completamente interpretato, fu rinvenuto nel marzo del 1982 nell'alveo del torrente Farfa. Nella sezione medievale si evidenziano tra l'altro, un cofanetto in avorio di scuola amalfitana della seconda metà dell'XI secolo, una tela del primo Cinquecento rappresentante la Vergine col Bambino e un Angelo e due tavole opistografe di fine Quattrocento rappresentanti S. Lorenzo Siro e S. Benedetto e S. Tommaso di Morienna e San Placido di uno scolaro di Antoniazzo Romano.

Usciti dall'Abbazia, prima di lasciare Farfa, è opportuno visitare il villaggetto con case a schiera di eguale altezza. Un tempo queste casette, durante le grandi fiere di Aprile e Settembre, venivano affittate dai monaci ai commercianti più facoltosi che ivi convenivano. Con le donazioni del Duca Farfa divenne un piccolo stato autonomo tra il patrimonio di San Pietro e il Ducato longobardo. Nel 774 I'Abbate sabino Probato, governatore dell'Abbazia, ne modificò sostanzialmente la linea politica, schierandosi dalla parte dei Franchi, e quindi del Papato, nella guerra tra Longobardi e Franchi. Nell'anno successivo Carlo Magno concedeva a Farfa il privilegio di autonomia da ogni potere civile o religioso: di qui il suo splendore, la sua ricchezza.


 

: S. BEDA VENERABILE (672-735)


 


Trascorse tutta la sua vita nel monastero di Jarrow in Inghilterra,  dedicandosi solo alla preghiera, allo studio e all'insegnamento. Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c'è l'Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un'opera letteraria universalmente riconosciuta da cui emerge la Romanità (o meglio l'universalità) della Chiesa. 


 

Questo "padre dell'erudizione inglese" (Burke) è nato a Jarrow, nel Northumberland, sulle terre dell'abbazia di Wearmouth, fondata nel 674 da S. Benedetto Biscop OSB. Rimasto orfano, a sette anni fu affidato dai parenti al suddetto sapiente abate il quale, tre anni dopo, lo commise al suo coadiutore S. Ceolfrido (+716) che con qualche religioso andava a fondare il monastero di Jarrow all'imboccatura del Tyne. Fu là che Beda si iniziò alla vita benedettina, fu là che a diciannove anni ricevette il diaconato e a trenta il sacerdozio dalle mani di S. Giovanni di Beverley OSB., vescovo di Hexham. In seguito non ebbe mai altra dignità.
Beda trascorse tutta la sua vita a Jarrow, non lasciandolo che per visitare Lindisfarne e York. Lo afferma egli stesso nella sua opera principale in cinque libri intitolata Storia Ecclesiastica degli Angeli: "In questo monastero ho passato tutta la mia vita, consacrandomi interamente alla meditazione delle Scritture, e tra l'osservanza della disciplina regolare e la cura quotidiana di cantare l'ufficio in chiesa, ebbi sempre carissimo lo studio, l'insegnare, lo scrivere" (Ivi, 5, 24). Monaco pacifico e metodico, si era proposto come fine di raccogliere dai suoi predecessori tutte le conoscenze, umane o divine, che potevano essere utili a coloro che doveva istruire con la parola o con la penna. Il suo ideale e la sua fede sono espressi nella preghiera che conclude l'opera citata: "Vi supplico, o dolce Gesù, che come mi avete graziosamente accordato di bere con delizia le parole della vostra sapienza, mi concediate pure, nella vostra misericordia, di giungere un giorno a Voi, sorgente di ogni scienza e di comparire per sempre dinanzi al vostro cospetto".
Con questo ideale avente per scopo di fondere insieme la scienza e la pietà, Beda rafforzò in Inghilterra la tradizione di Aurelio Cassiodoro (+583) che a Vivarium, presso Squillace in Calabria, aveva insegnato ai suo monaci a valorizzare la scienza del passato e a trasmetterla alle generazioni future. Quando egli apparve, gli anglo-sassoni terminavano di entrare in seno alla Chiesa. L'opera missionaria iniziata nel 597 da S. Agostino di Canterbury era stata vigorosamente sviluppata dai monaci S. Teodoro e S. Adriano, che papa S. Vitaliano (+672) aveva inviato ai britannici affinchè li ammaestrassero nel greco e nel latino, nella rettorica, l'astronomia, la matematica e la musica. Beda fu il principale assimilatore e dispensatore di quella cultura, messa da lui soprattutto a servizio della S. Scrittura.
Insieme con S. Isidoro di Siviglia egli è la maggior figura di erudito dell'alto medioevo, e divenne uno dei padri di tutta la cultura posteriore. Conosceva oltre l'anglosassone, il greco e il latino, anche un po' di ebraico. Aveva familiari i poeti cristiani, ma non gli erano sconosciuti Aristotele e Ippocrate e soprattutto i classici romani le cui opere riteneva praticamente utili per coloro che devono studiare materie sacre.
S. Beda studiò specialmente di continuo i Padri e gli scrittori ecclesiastici raccogliendo, fin da giovane, larghissima copia di estratti dalle loro opere. Le sue trattazioni sacre sono quasi totalmente composte con questi materiali. Parte per gusto personale, parte per i bisogni della scuola e l'indole dei tempi, egli fu un temperamento enciclopedico e quindi un poligrafo. Si può dire che possedeva tutte le scienze coltivate ai suoi tempi e in grado tale da esserne considerato maestro eccezionale. Lo studio gli fu agevolato dai numerosi e preziosi manoscritti che i suoi abati gli portavano dai loro frequenti viaggi sul continente e a Roma: di essi si fece egli stesso copista, collatore e correttore.
L'insegnamento, la fama della dottrina e degli scritti gli procurarono molte illustri amicizie, come quella dei discepoli e poi abati del suo monastero, Vetberto e S.Cuthberto, Notelmo, arcivescovo di Canterbury, S. Acca vescovo di Hexham, i quali lo spronavano a comporre molte opere fornendogli magari il materiale storico e che furono poi ad essi dedicate. Fu pure in intima relazione con Ceovulfo, re della Northumbria, Albino, primo abate anglosassone del monastero di S. Agostino di Canterbury, Egberto, arcivescovo di York e maestro di Alcuino, il grande artefice della "rinascita carolingia". Nel 734 Beda era andato a far visita a quel suo antico scolaro, ma ne era ritornato colpito da una malattia da cui non si riprese più. A letto continuò a dettare brani scelti delle opere di S. Isidoro per uso dei suoi confratelli e la versione anglosassone del Vangelo di S. Giovanni.
Secondo il suo discepolo, S. Cuthberto, malgrado la crescente debolezza, continuava a passare senza interruzione dalla preghiera liturgica allo studio e viceversa. Morì il 25-5-735 in concetto di santità mentre, inginocchiato sul pavimento della cella, cantava il Gloria Patri. Il concilio di Aquisgrana dell'836 lo chiamò "venerabile e ammirabile dottore dei tempi moderni" e Leone XIII il 13-11-1899 gli decretò il titolo di Dottore della Chiesa Universale. Le sue reliquie, trasportare a Durham accanto a quelle di S. Cuthberto, furono profanate sotto Enrico VIII. Rapito dalla sua figura di monaco umile e discreto "dall'anima di cristallo", il Newmann disse di lui: "Beda è il tipo del benedettino, come S. Tommaso è il tipo del domenicano". Dante lo ha posto tra i saggi del cielo del sole (Par. 10, 131).
Beda fu maestro di monaci, teologo e predicatore di professione, ma si preoccupò pure di tutte le scienze del tempo non esclusa la versificazione.
Per questo Manitius Max (+1933), filologo e storico tedesco, lo definì " il più grande erudito del medioevo" e Martino Grabmann (+1949), studioso di teologia medioevale, "il primo teologo a carattere scientifico del medioevo, aperto anche alle scienze profane, che ha esercitato il suo influsso sulla teologia e storiografia della sua epoca. Lasciò numerosissime opere. La più importante è la Storia Ecclesiastica degli Angli, di cui narra le gesta fino al 731 prendendo per primo, come punto di riferimento, l'anno dell'Incarnazione del Signore.
Lasciò circa 60 libri di commento a quasi tutta la Bibbia seguendo le orme dei dottori latini. Fu il primo a proporre la teoria del senso storico, morale, allegorico e mistico della Scrittura, divenuta poi familiare agli scolastici. Notevole è pure il De ratione temporum contenente la continuazione, fino al 1063, dei calcoli del ciclo pasquale iniziati da Dionigi il Piccolo; tale calendario fece testo in tutta l'Europa. Opere teologiche in senso proprio non ne compose. L'aliquot quaestionum liber però lo colloca tra i precursori della Scolastica..it/


 


 


 

San Beda Venerabile - 25-05 - Monastero S.Vincenzo M.

San Beda Venerabile - 25-05 - Monastero S.Vincenzo M.

mercoledì 25 agosto 2010


Santa Patrizia di Costantinopoli


Santa Patrizia è una discendente dell'imperatore Costantino. Nacque a Costantinopoli e fu educata a corte dalla nutrice Aglaia.
In giovane età, emise i voti di verginità e per poterli mantenere dovette fuggire dalla città, in quanto l'imperatore Costante II (668-685) suo congiunto le voleva imporre il matrimonio.
Insieme a Agliaia e altre ancelle giunse a Roma, dove ricevette da papa Liberio il velo verginale.
Patrizia ritornò poi a Costantinopoli, rinunciando ad ogni pretesa sulla corona imperiale. Distribuì i suoi beni ai poveri e partì in pellegrinaggio verso la Terra Santa.
Una terribile tempesta la fece però naufragare sulle coste di Napoli e più precisamente sull'isoletta di Megaride (Castel dell'Ovo), dove dopo brevissima malattia muore.
La nutrice Aglaia fece fare i funerali in forma solenne e vi parteciparono il vescovo, il duca di Napoli e molte persone.
Il carro tirato da due torelli senza guida si arrestò davanti al monastero di Caponapoli dedicato ai ss. Nicandro e Marciano e retto dai Padri basiliani.
Qui Patrizia fece tappa nel precedente viaggio a Roma e lo indicò come il luogo dove avverrà la sua sepoltura.
E così avvenne e rimasero le sue consorelle che l'avevano seguita e che da lei si chiameranno Patriziane o Suore di Santa Patrizia.
Trasferitosi i monaci basiliani nel monastero di san Sebastiano, qeullo di Caponapoli rimase alle suore, sotto la regola benedettina.
Nel 1864 le spoglie di Santa Patrizia furono traslate nel monastero di san Gregorio Armeno, rivestite di cera, sono conservate in un'urna d'oro e d'argento ornata di gemme, nella cappella laterale della monumentale chiesa del monastero.
S. Patrizia è compatrona di Napoli ed è nota anche per il prodigio della liquefazione del sangue e della manna.
La manna fu vista trasudare dal sepolcro il 13 settembre di un anno non ben precisato tra il 1198 e il 1214.
Il sangue invece sarebbe uscito miracolosamente da un alveolo di un dente strappato da un cavaliere romano in um momento di devozione esagerata.
Dente e sangue sono conservati in un reliquiario. Nei vari secoli lo scioglimento del sangue è avvenuto con modalità e tempi diversi. Attualmente, dopo le preghiere si scioglie lungo le pareti dell'ampolla.

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domenica 22 agosto 2010


Le buone maniere nella tavola medioevale



….. e ricordati di pulirti la bocca prima di bere dal bicchiere.
E questa una delle raccomandazioni che nel tardo 1200 un anziano signore da ad un giovane che vuole ben figurare nell'alta società dell'epoca. Consiglio che tutto oggi vale, e che ha passato indenne il corso dei secoli. Infatti già nel Medioevo vengono codificate una serie di regole di buona educazione a tavola.

Si consideri che l'apparecchiatura della tavola consisteva in un tavolaccio su dei cavalletti, e due serie di tovaglie che ricoprono il piano.
Per ogni commensale veniva posta una ciotola di ceramica o di legno stagionato dove era servita la zuppa o qualsiasi piatto a base di brodo. Un secondo e un piatto piano era messo sotto alla ciotola, e poteva essere sia di ceramica che di legno. In alcuni casi si utilizzavano dei piatti fatti di un pane speciale chiamati Mense ( da qui la nostra parola mensa!).
Infine veniva messo a disposizione del commensale un cucchiaio e era cura dell'invitato portarsi un coltello.
Ogni due persone era posto un boccale da cui sorbire le bevande.

L'apparecchiatura,come si può notare ,era molto diversa da quella che attualmente definiamo come il minimo indispensabile per poter mangiare.
Infatti la nostra preziosa forchetta nasce a Venezia nel tardo trecento mentre il coltello viene posto a fianco del commensale solo dal seicento in avanti.
Infine il tovagliolo era già conosciuto, e utilizzato, ma era una chicca solo per i più ricchi.
Con questo tipo di preparazione era necessario conoscere un minimo di buone maniere per non mettere in imbarazzo gli commensali.
Di conseguenza nasce il così detto galateo dove le regole più importanti erano:

  • Quando mangi non parlare con la bocca piena, ma mastica silenziosamente senza far vedere cosa hai in bocca.
  • Pulisciti la bocca prima di bere, in modo tale da non mettere in imbarazzo il tuo vicino che si servirà della stessa coppa.
  • Non nettarti le dita sulla giubba o sulla tovaglia, ma puliscitele sul tovagliolo e lavale nell'acquamanile.
  • Non pulirti i denti con il coltello e non emettere nessun rumore sgradevole che possa indurre il tuo vicino ad avere schifo di te.
  • Non prendere il boccone più grosso e non rovistare nelle parti già tagliate cercando la più prelibata.
  • Si accorto a non sporcare ne' il tuo vestito ne quello dei commensali.
  • Non stropicciare il tovagliolo e non fare dei nodi con lo stesso, ma usalo per pulirti la bocca e le mani.

    Questo galateo, che in gran parte si può applicare ai nostri tempi, ci ricorda che certi comportamenti a tavola erano sgraditi anche nel 1200.

    Le stesse regole di buona creanza vengono elencate nel Menanger de Paris scritto nel tardo 1300, dove un marito insegna alla giovane moglie a tenere decorosamente la casa, a cucinare e a preparare la tavola come si deve.

    Questa cura per le buone maniere delinea perciò che il medioevo non è un epoca dove sontuosi banchetti venivano preparati per gozzovigliare allegramente e per rimpinzarsi di carni e cacciagione senza un minimo di decoro, ma erano eventi ben codificati, dove il modo di presentarsi e comportarsi erano molto importanti tanto quanto era importante indossare un bel vestito.

sabato 21 agosto 2010



 

 


 

  

Il secolo XVII:. La dottrina del Contagio. La caccia alle streghe.

   


 

 


 


 

Questione del contagio.


 

Nonostante nel '300 e nel '600 ci fosse stata la peste, e nonostante ci fossero molte malattie endemiche come la lebbra e la tubercolosi ( che allora non era considerata una sola malattia ma comprendeva 6 o 7 malattie diverse) non si sviluppò il concetto di contagio da organismi viventi (contagio vivo).

In pratica non si capiva come si trasmettessero le malattie: l'idea più accreditata era che gli odori (miasmi) portassero il contagio, ma non si capiva assolutamente quale fosse la via di trasmissione. Non c'era nessun concetto di igiene, i malati venivano messi su letti con lenzuola sporche che poi venivano riciclate senza lavaggio. Questo portò alla diffusione di malattie, soprattutto nelle zone molto affollate.

In Sardegna c'è il tipico esempio di come malattie come la peste attecchissero soprattutto nelle città, ma non nei villaggi. Il veicolo della peste è una pulce. In realtà sono i ratti che si ammalano di peste, poi la pulce la trasmette all'uomo, quando poi la peste diventa veramente epidemica allora c'è la peste polmonare che permette il contagio diretto uomo-uomo. La peste venne dall'Oriente e pare che sia stata portata a Messina da una nave di genovesi, scappati dalla città che presidiavano perchè era stata assediata dai turchi. Questi però avevano buttato dei cadaveri di appestati nella città, così alcuni marinai si ammalarono e portarono la peste a Messina da dove poi si diffuse in tutta l'Italia e in tutta l'Europa.

La scomparsa della peste fu favorita e dal fatto che intorno alla fine del 600 ci fu un'invasione di ratti marroni che soppiantarono il ratto nero, che era molto più recettivo alla peste, e anche perché si cominciò a evitare di costruire i solai in legno dove potevano albergare i topi (questo accadde soprattutto nelle zone calde). Un'altra ipotesi sostiene che ciò è dovuto alla comparsa di un germe meno virulento che permette l'immunizzazione dei ratti.

Quasi contemporaneamente alla pubblicazione dell'opera di Vesalio (1514-1564), c'era stato un famoso anatomo medico veronese Gerolamo Fracastoro (1478/9-1553), il quale diede il nome ad una malattia endemica che si era appena sviluppata: la sifilide.

La sifilide scoppiò per la prima volta in modo epidemico alla fine del '400 durante l'assedio di Carlo VIII a Napoli (1496); finchè l'Italia fu la nazione leader i napoletani chiamarono la sifilide male francese, mentre, quando l'Italia decadde, i francesi la chiamarono mal di Napoli. La sifilide forse era dovuta ad una recrudescenza di una malattia che ha cambiato fisionomia ma che era già endemica nell'oriente arabo, oppure un'altra teoria dice che venne portata dall'America ad opera dei marinai di Cristoforo Colombo. Si riconobbe subito che la sifilide era dovuta al contagio sessuale e si diceva che si era sviluppata dall'amplesso di una prostituta con un lebbroso.

Fracastoro diede il nome alla sifilide in un famoso poemetto, dedicato a Pietro Bembo, e parlò anche del legno santo che era uno dei principi terapeutici di allora: si trattava di un legno (guaiaco) che provocava una grande sudorazione. Si pensava che anche la sifilide fosse una malattia da curare secondo i principi ippocratici, per cui bisognava eliminare la materia peccans: in questo caso si doveva togliere l'eccesso di flemma con l'uso di farmaci che provocassero la sudorazione, come il legno guaiaco e il mercurio. La sifilide è una malattia che fece la fortuna dei medici perché nel 30% dei casi guariva da sola e, quando un malato guariva, il medico sosteneva che era merito delle sue cure, anche se in realtà non era così. Per combattere la sifilide si somministrava il mercurio che essendo tossico per le ghiandole salivari e per quelle sudoripare, provocava una secrezione potentissima. Al tempo, il trattamento proposto per ovviare a ciò era quello di mettere un ferro incandescente sulla testa del malato, perché si credeva che la saliva ed il sudore derivassero dal cervello. Un altro effetto del mercurio era quello di annerire i denti, costringendo le nobildonne a limarsi i denti per nascondere il fatto che stavano facendo la terapia mercuriale contro la sifilide. Fracastoro sosteneva che esistessero degli organismi viventi invisibili, da lui chiamati seminaria, che portavano il contagio. Questi seminaria si potevano trasmettere non solo per contatto diretto ma anche con vestiti, lenzuola, oggetti.

Un'altra malattia che allora era endemica era la lebbra. La lebbra in Sardegna attecchì proprio perché è una malattia ad incubazione molto lenta (simile alla tubercolosi anche se i due microrganismi sono rivali, infatti dove c'è la lebbra non c'è la tubercolosi e viceversa). La lebbra è una malattia che si sviluppa nel giro di decenni, e in Sardegna c'erano molti focolai che andarono avanti fino all'età moderna (infatti è uno degli ultimi posti dove ci sono stati i lebbrosari). Occorre un contagio prolungato per prendersi la lebbra, quindi è difficile che le persone che girano molto la contraggano. La lebbra era considerata una malattia da temere, oltretutto aveva dei risvolti sociali molto particolari; infatti quando si scopriva che uno era lebbroso (siamo nel tardo medioevo e all'inizio dell'età moderna) gli veniva fatto addirittura il funerale e perdeva qualsiasi diritto. I lebbrosi venivano tenuti in luoghi appartati, ma venivano mantenuti a spese della comunità; questo spiega il perché di persone indigenti che per sopravvivere si dichiaravano lebbrosi, in modo da avere l'assistenza pubblica.

L'infame fenomeno della caccia alle streghe si è sviluppato tra la fine del XIV_secolo e l'inizio del XVIII secolo nell'occidente cristiano (sia in ambito cattolico che protestante). I criteri utili a riconoscere le streghe e a perseguirle come eretiche erano specificate nel famigerato libro: Malleus Maleficarum, scritto nel XV da due fanatici Domenicani tedeschi, Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, che ebbe una diffusione enorme (ben 34 edizioni ed oltre 30000 copie). Le "caccie alle streghe" si verificarono soprattutto tra la fine del 1400 e la prima metà del 1600. Le presunte streghe appartenevano in genere alle classi popolari ed erano per lo più donne sole o vedove, levatrici, erboriste, fattucchiere o prostitute. Molte "streghe" vennero ferocemente torturate e bruciate vive, con le motivazioni più varie e le "confessioni", estorte con la tortura, utilizzate per incriminare altre disgraziate. Il fenomeno fu, con qualche eccezione, confinato al sesso femminile. I due ultimi processi in cui le "streghe" vennero condannate e arse vive avvennero uno nella Svizzera protestante (1782) e l'altro nella Polonia cattolica (1793).

giovedì 19 agosto 2010



 

Lucca

La luminara e la leggenda del "Volto santo"

Nicodemo era un fariseo influente - magistrato dei Giudei e membro del Sinedrio - che rimase folgorato dalle parole e dalle azioni di Gesù Cristo. Subito dopo la morte del Messia, fu lui, insieme con Giuseppe d'Arimatea, a deporlo dalla croce, ad avvolgere il suo corpo nella sindone e a dargli onorata sepoltura. E fu lui che, sul filo della memoria, scolpì in un tronco di noce, la figura del Cristo in croce.
Passarono i secoli e della grande scultura si persero le tracce. Ricomparve nell'anno 742 su una nave, priva di uomini a bordo, che entrò nel porto di Luni. Contemporaneamente il vescovo di Lucca, Giovanni, fece un sogno nel quale un angelo gli disse: "Alzati e con prestezza vanne al porto di Luni. Là troverai una nave nella quale è riposta l'immagine del Salvatore del mondo come patì in croce per gli uomini."
Intanto i lunensi tentavano di impadronirsi di quella misteriosa nave, ma ogni loro sforzo era vano perché appena le si avvicinavano essa, come spinta da una forza arcana, si allontanava.
Quando il vescovo di Lucca arrivò sul posto, "la nave si offerì spontanea ai pietosi fedeli ed a loro esibì il prezioso, inestimabile tesoro, destinato ad essi per beneficio celeste." A quel punto però nacque una diatriba fra lunensi e lucchesi su chi avesse maggior titolo per conservare la scultura.
Secondo una versione, il vescovo di Lucca Giovanni avrebbe donato ai lunensi un'ampolla di vetro piena del sangue di Cristo in cambio della figura. Un'altra versione parla invece di un carro sul quale fu deposta la scultura e i cui buoi furono lasciati liberi di prendere la direzione che preferivano. Quando gli animali puntarono senza esitazione verso Lucca, "a quella vista rimasero tristi quei di Luni, ed i lucchesi giubilarono, intonando un cantico di letizia e di benedizione al Signore"

Questa è, in estrema sintesi ed estrapolando da varie narrazioni, la leggenda che racconta le origini e le vicende del "Volto Santo", la miracolosa scultura lignea che da oltre dodici secoli si conserva e si venera a Lucca.
Si parla, a ragione, di "leggenda" perché infatti si tratta di una realtà inestricabilmente mescolata al fantastico e all'immaginario. Nessuno storico dell'arte, per esempio, metterebbe le mani sul fuoco nell'asserire che quella scultura risale a pochi anni dopo la morte di Cristo. Nessuno potrebbe giurare sull'autenticità dell'episodio dei buoi che scelsero la via di Lucca; oppure, come narra un'altra leggenda, che all'interno della croce si trovassero alcune reliquie, fra le quali, "una parte della corona di spine, uno dei chiodi, un'ampolla di sangue preziosissimo, il prepuzio di nostro Signore, un pannolino che Gesù portava al collo e unghie e capelli del Salvatore, raccolti in due lembi di velo della Beata Vergine".

Ma ai lucchesi poco importa quanto c'è di vero o di fantastico nella storia dell'oggetto a loro più caro. Il fatto è che sta con loro da più di un millennio. Ne ha parlato anche Dante:
"Qui non ha luogo il Volto Santo;
qui si nuota altrimenti che nel Serchio."

E il fatto che per generazioni e generazioni si sia provveduto a tributargli reverenti omaggi, basta per continuare in questa pratica devozionale di grande impatto mistico e anche scenografico.
Perché ancora oggi, sulla falsariga di quello che è stato fatto per secoli, la sera del 13 settembre le strade percorse dalla processione con il prezioso simulacro della passione di Cristo, vengono illuminate con migliaia di ceri a formare una scenografia assai suggestiva.


Questa non è stagione da vecchi.


 

"Questa non è stagione da vecchi",sarebbe il titolo giusto per iniziare a descrivere la situazione italiana e più in generale europea rispetto al problema degli anziani.

In realtà noi tutti siamo di fronte ad un paradosso culturale:da una parte l'età media è cresciuta ed insieme all'età media è migliorata la qualità di vita degli individui:basti pensare che nel Medioevo l'età media si aggirava intorno ai 40 anni,per arrivare intorno ai 60 nel XIX secolo

.Accanto a questa inconfutabile realtà dei paesi occidentali,assistiamo ad una progressiva forma di regressione adolescenziale della società.

In altre prole se da una parte siamo una società di persone sempre più anziane e sempre più vitali e sane,dall'altra .la cultura impone ed enfatizza solo modelli giovanili.

Tutto sembra orientarsi,dai media,al Free time(tempo libero) al divertimento,alla moda ,a soddisfare esigenze e gusti di utenti che sono appena usciti dall'adolescenza.

C'è poi da considerare un altro ed interessante fenomeno,cioè la stagionalità del fenomeno.

E' infatti l'estate il momento culminante e simbolico del delirio giovanilistico.

D'estate,con i corpi in mostra,il sole battente,l'esigenza di performance dei ritmi circadiani portati al paradosso(basati pensare alla moda di ritirarsi a dormire alle 5-6 del mattino dopo nottate di balli tribali),il fenomeno dell'emarginazione degli "over "diviene tanto frequente da essere assimilabile ad un rituale di massa.

Vero è che in questa stagione si contano gli abbandoni maggiori dei soggetti socialmente più impegnativi:anziani e cani.

I bambini fortunatamente meno ,poiché in questo settore vengono prontamente riciclati anziani ancora fisicamente abili e si salva capra e cavoli.

Ma fortunatamente i cosidetti "anziani"sono anziani solo per una fetta ristretta di popolazione:i giovani,questi animali in via di estinzione che si agitano tra rave party,discoteca alla moda ed improbabili paradisi artificiali.

E' con questo pensiero che mi ha colpito,affascinato ed incuriosito un progetto,un'idea che nasce dall'inventiva di una imprenditrice(vecchia?non saprei:vitale e sulla cinquantina)e di una promotrice di marketing milanese.

E',e questa la novità,un progetto solo per over,ma non quegli over che si trascinano stancamente da una panchina all'altra o attendono l'ultimo sreial in televisione.

Si rivolge a tutti coloro che,in barba ai giovani già stanchi ed annoiati di vivere nei loro scalmanati divertimenti,hanno ancora il gusto ed il piacere della vita.

Il progetto si chiama"Serenità in allegria",speciale formula dedicata ai clienti della seconda gioventù.

Il nome del progetto dice già tutto.

Il programma è ben modulato e l'organizzazione precisa ,ma senza obblighi o forzature:i clienti possono scegliere tra un ampia gamma di momenti ludici o culturali o di semplice e rilassante riposo.

E' prevista animazione,ma,importante e fondamentale.è prevista anche assistenza infermieristica e la presenza di un medico nella struttura alberghiera.

Per le persone non autosufficienti oppure i soggetti che vivendo soli si sono organizzati con una persona di supporto esiste la possibilità ,con una minima spesa,di condurre con sé la "badante"

Tutti sappiamo che grosso punto di riferimento può essere una badante per una persona sola.

Ottima idea quella di Gabriella Lenzi e di Danilo Franconi,suo marito e collaboratore.

Un idea da riproporre ed estendere anche ad altre situazioni ed ad altri contesti.

Sento già la domanda,o meglio le tante domande:"Ma dove?In che posto?Quale albergo?"

Via,farò un po' di pubblicità,ma l'idea mi sembra troppo buona per tacere dell'utile.

Il progetto si realizza a Casciana Terme(è prevista anche un'apposita convenzione con l'Istituto termale) e l'Hotel è "Hotel La Speranza"proprio nel centro del paese.

Mi scordavo(ma ormai son vecchia anch'io):la cucina è ottima!E si sa che uno dei piaceri della vita è il buon mangiare e il buon bere.

Per dirla con i proprietari:"perché avere più anni è una ricchezza che va enfatizzata e giocata"

Susanna Franceschi

Riproduzione vietata

mercoledì 18 agosto 2010


Influenza germanico-longobarda sui territori della Toscana

Nomi di origine germanico-longobarda


 

Ancora oggi sono utilizzati nomi di origine chiaramente alto - germanica come Edgardo, Ermengarda, Ermenegildo, Valfrido, Frida, Gerardo (Gherardo), Ugo, Valdo (dal longobardo Bald = ardito). Numerosi sono anche i cognomi di origine longobarda fra cui l'ormai raro "Gastaldi" oppure "Sibaldi",più frequente è tuttora il cognome Berti con varionti Bertini,Bertoni,Bertuccelli. Altre volte, invece, la sopravvivenza del nome germanico è stata possibile solo a prezzo di una sovrapposizione del termine germanico con altri termini di derivazione latina e mediterranea; è il caso, ad esempio, di Hildjo (un nome proprio col significato di combattimento e dal quale derivano composti come Brunilde) che, attraverso una contaminazione col latino Ilia (fianchi) e col nome della città di Ilio (Troia), ha derivato due rari nomi pistoiesi: Ildo e Ilio. Nella "Historia Longobardorum" Paolo Diacono ricorda un Ildichis (I,21), un Ildeprando (VI, 54, 55) e un Ilderico (VI 55), mentre il più antico testo di poesia epica germanica a noi pervenuto è dedicato all'eroe Ildeprando (lo "Hildebrandslied" ambientato nella penisola italiana ai tempi di Odoacre che taluni attribuiscono proprio all'epica longobarda nonostante sia giunta a noi per tramite di una trasposizione in tedesco antico del IX secolo). Tornando al cognome Sibaldi sopra menzionato ricorderemo che lo stesso è tipico e quasi esclusivo di Pistoia (su 44 cognomi registrati nelle pagine bianche di Virgilio ben 24 sono in provincia di Pistoia e 28 in Toscana) e deriva dal nome di origine longobarda Sigebaldus di cui abbiamo un esempio nel Codice Diplomatico della Lombardia medievale sotto l'anno 1182 a Sartirana (PV): "...Nona pecia iacet in valle de Stagnono; coheret ei: de duabus partibus Sigebaldus de Lomello, a tercia Asclerius de Roglerio...", tracce di questa cognomizzazione le troviamo nell'Archivio storico comunale di San Miniato (PI) in atti dell'anno 1583 dove compare l'Ufficiale Benedetto Sibaldi da Montecatini (PT).

Ovviamente i nomi odierni sono solo la sopravvivenza di una ben più diffusa tradizione medioevale: le carte pistoiesi del medioevo sono piene di nomi longobardi (Gaidoald, Alhais, Ildebrand, etc., etc.), ricchissimi sono anche le testimonianze per l'Alto Reno con i vari Sigifrido, Agiki, Enghelberto, Tegrimo, Alboino, etc., etc. (in proposito si consiglia di leggere l'articolo di Paola Foschi "Note di onomastica pistoiese medioevale", pubblicato alle pagine 49 - 85 del Bullettino Storico Pistoiese Anno CV (2003) - Terza Serie - XXXVIII).

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Che, in generale, la Toscana sia una delle Regioni più "germanizzate" d'Italia è d'altra parte un fatto noto e per taluni fu proprio la Toscana la terra di elezione dei Longobardi:

"Anche un autore dell'autorità di Gioacchino Volpe ammette che la Toscana, per la sua posizione, sia stata fra le regioni d'Italia quella più fittamente popolata da Goti, Longobardi e Franchi. In particolare la densità numerica degli stanziamenti arimannici autorizza molti storici a parlare di «Tuscia Longobarda», mentre noi provocatoriamente ci domandiamo nel titolo, visto che anche l'egemonia politica si trovava nelle mani dei conquistatori, se la denominazione di "Lambardia" non sarebbe più appropriata per la Toscana che per la regione lombarda" (Gualtiero Ciola).

Andrà ancora osservato che i Toscani, assieme ai Veneti ed ai Friulani, detengono il primato dell'altezza corporea fra gli abitatori di tutta la penisola italiana.

A conferma dell'importanza e della persistenza di una identità; germanico - longobarda nei territori di nostro interesse basterà ricordare che ancora nel XII secolo a Pistoia era frequente l'applicazione delle norme giuridiche dettate dal Re longobardo Rotari quali il launechild, il mundium e il morgengab (N.RAUTY, "Storia di Pistoia", Vol. 1, cit., p. 140). Il guidrigild peraltro risulta godere di ottima salute ancora alla fine del XIII secolo (N. RAUTY, Op.Cit., p. 145) e anche il mundualdo è ampiamente attestato nel XIII secolo in Alto Reno (Savena Setta Sambro, n. 25 (2003), pp. 3-9). Anche successivamente sono innumerevoli i documenti che attestano la professione di legge longobarda. La sopravvivenza di queste tradizioni, così contrarie alla tradizione giuridica - romana, ben oltre la fine del regno longobardo la dice tutta sulla volontà dei "germanici" che hanno abitato queste terre di preservare la propria identit&agrave. Tuttavia, nel corso dei secoli, si arrivò pian piano ad una assimilazione tra Longobardi e "Romani" (XVIII): è proprio il già citato Gioacchino Volpe a sostenere che in Toscana si verificò, attorno al X secolo, una vera e propria fusione tra italici e stranieri (cfr. M. ZUCCHELLI, "Lo statuto di Montieri del 1500", Tesi di Laurea in Giurisprudenza, Anno Accademico 1997/98, Università di Pisa, cap. I) (XIX) . E questo atteggiamento di consapevole identità senza separazioni è gravido di eventi positivi:

"La Toscana fu il paese d'Italia che più compiutamente d'ogni altro eliminò il feudalesimo ed ebbe i più evoluti Comuni di contado; e prima mise al sole i frutti della lunga elaborazione interiore, le forme dell'italianità nell'arte e nella lingua" (G. VOLPE, citazione riportata in M. ZUCCHELLI, op. cit.)

martedì 17 agosto 2010


 
 

Berta: i matrimoni e i figli

 
 

Prima dell’880 (Ann. Bertiniani, p. 151), Berta era stata data in matrimonio al conte lorenese Teobaldo che dopo gli sfortunati tentativi di Ugo, anch’egli figlio naturale di Lotario II e quindi fratello di Berta, per la conquista del regno del padre (880-85), aveva dovuto esulare presso il cugino Bosone di Provenza, divenendo conte di Arles.

Da queste nozze nacquero quattro figli, destinati a svolgere ruoli importanti nella tormentata storia italiana di quegli anni:

Ugo  (nato forse nell’881), che fu re d’Italia, Bosone, che fu marchese di Toscana, Ermengarda, che divenne marchesa di Ivrea, avendo sposato  Adalberto,Teutberga che andò sposa a Guarniero di Chalons.

Il matrimonio di Berta non durò molto per la prematura morte di Teobaldo (di cui non si ha più notizia dopo l’887), ma l’esilio provenzale fu sufficiente per permettere a Ugo di assicurarsi una posizione, come conte di Vienne, all’ombra di Lodovico, re di Provenza.

Dal nome dei figli di Teobaldo e Berta è possibile dedurre gli orientamenti politici dei genitori: così Ugo e Teutberga segnano il momento di adesione alla casa di Lorena (Ugo era il senior di Teobaldo, Teutberga la moglie di Lotario II), e dovettero quindi nascere prima del 880-885, appunto in Lorena; Bosone ed Ermengarda invece, vennero alla luce  durante la residenza in Provenza, quindi fra l’885 e l’887.  - Bosone –nome di famiglia di uno zio ed il nonno di Teobaldo, ma morti da tempo in Italia – ripete certamente il nome del re di Provenza, 879-887; Ermengarda quello della regina provenzale, figlia dell’imperatore Lodovico II.

Tuttavia, le date non possono che restar congetturali, per mancanza di una documentazione più sicura.

Berta di Toscana alla corte di Lucca

Rimasta vedova, Berta passò a seconde nozze con Adalberto di Toscana, probabilmente perché, avendo la famiglia di questi proceres italici molti beni in Provenza (come risulta da una lettera di papa Giovanni VIII dell’aprile 879, in Mon. Germ. Hist., Epist., VII, I, Berolini 1912, n. 171, p. 139), Berta e i suoi parenti, o il suo partito, si ripromettevano particolari posizioni in Provenza.

Quindi potremmo pensare che il secondo matrimonio sia stato combinato negli ultimi anni del IX  secolo,intorno all’895.[1]

Gli avvenimenti invece portarono Berta a svolgere dalla città di Lucca, dove visse per circa trenta anni, un’intensa attività politoco-diplomatica oltre il contesto italiano ed europeo spingendosi fino alla corte di Baghdad.

I marchesi di Toscana presero parte attiva al “marasma” della vita politica italiana di quegli anni, intervenendo nella disputa per la corona d’Italia.

Lucca aveva il controllo delle vie di accesso a Roma, in particolare attraverso il Passo della Cisa chiamato allora passo di Monte Bardone, e quindi poteva interferire sull’incoronazione imperiale: è infatti solo il papa, comunque eletto, che può incoronare l’imperatore.

La testimonianza di Berta a Lucca nella cattedrale di S. Martino

A Lucca, nella città dalla quale si irradiò il suo potere, custodiamo la più certa testimonianza di Berta di Toscana, attestata dalla lapide proveniente dalla sua tomba.

Questa lapide, in distici elegiaci, si trova nel duomo di S. Martino, a destra della parete di controfacciata [2].

HOC TEGITUR TUMOLO COMITESSE CORPUS HUMATU (m). INCLITA PROGENIES BERTA BENIGNA PIA – UXOR ADALBERTI DUCIS ITALIAE FUIT IPSA. REGALIS GENERIS QUAE FUIT OMNE DECUS – NOBILIS EX ALTO FRANCORU (m) GERMINE REGU (m). KAROLUS IPSE PIUS REX FUIT EIUS AVUS – QUAE SPECIE SPECIOSA BONO SPECIOSIOR ACTU. FILIA LOTHARII PULCHRIOR EX  MERITIS – PERMANSIT FELIX SECLO DU (m) VIXIT IN ISTO. NON INIMICUS EAM VINCERE PRAEVALUIT – CONSILIO DOCTO MODERABAT REGMINA MULTA.
SEMPER ERAT SECUM GRATIA MAGNA DEI – PARTIBUS EX MULTIS MULTI COMITES VENIEBANT. MELLIFLUUM CUIUS QUARERE COLLOQUIU (m) – EXULIBUS MISERIS MATER CARISSIMA MANSIT. ATQUE PEREGRINIS SEMPER OPE(m) TRIBUT – CLARUIT HAEC MULIER SAPIENS FORTISQUE COLU(m)NA. TOTIUS VIRTUS GLORIA LUX PATRIAE – IDIBUS OCTAVIS MARTIS MIGRAVIT AB ISTA. VITA CUM DOMINO VIVAT ET IN REQUIE – MORS EIUS MULTOS CONTRISTAT PRO DOLOR EHEU. EOUS POPULUS PLANGIT ET OCCIDUUS – NUNC EUROPA GEMIT N(un)C LUGET FRANCIA TOTA. CORSICA SARDINIA GRECIA ET ITALIA – QUI LEGITIS VERSUS ISTOS VOS DICITE CUNCTI. PERPETUAM LUCEM DONET EI D(omi)N(u)S AMEN – AN(no) D(omi)NICAE INCARNATIONIS. DCCCXXV. INDIC(tione) XIII OBIIT DE MUNDO .

Questa tomba protegge il corpo sepolto della Contessa Berta, inclita progenie, benigna e pia, moglie di Adalberto duca d’Italia, fu anch’essa di stirpe regale e ne fu tutto l’ornamento. Nata nobile dall’eccelsa stirpe dei re Franchi, ebbe per avo proprio il re Carlo pio. Bella d’aspetto, più bella per il bene compiuto, la figlia di Lotario fu ancor più splendida per i meriti. Finché visse in questo mondo fu felice, e nessun avversario riuscì a prevalere su di lei. Con saggezza di pareri guidava molti governamenti, e sempre la grazia grande di Dio era al suo fianco.
Da molte regioni venivano molti conti a cercare la sua saggia e dolce conversazione. Fu sempre per gli infelici esuli la madre più cara e sempre aiutò col sussidio i pellegrini. Questa donna risplendente come sapiente e robusta colonna, virtù, gloria, luce di tutta la patria. L’8 marzo emigrò da questa vita; viva col Signore nella pace eterna. La sua morte rattrista molti per il dolore, le genti dell’Oriente e dell’Occidente sono in lutto, ora geme l’Europa, ora piange tutta la Francia, la Corsica, la Sardegna, la Grecia e l’Italia.
Voi tutti che leggete questi versi, pregate che il Signore le doni la luce eterna, e così sia. Morì nell’anno 925 dall’incarnazione del Signore, nell’indizione[3] XIII[4]

Note:

[1] G. Treccani – Berta di Toscana, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana vol, 9. Roma, 1967, pp. 431-434 in particolare a pag.431.

[2] Isa Belli Barsali ,  Guida di Lucca , II edizione, Lucca 1970, MPF , pag. 108.

[3] Indizione. E’ un sistema adottato nei documenti medievali per indicare l’anno e corrisponde a un ciclo di 15 anni, numerati progressivamente da 1 a 15.
Il primo ciclo indizionale coinciderebbe con il III anno a. C. Per stabilire dunque la concordanza tra l’indizione e l’anno di Cristo si devono aggiungere tre unità agli anni di Cristo e dividere tale somma per 15. Il quoziente indicherà i cicli indizionali passati e il resto l’anno indizionale del ciclo in corso; se il resto è zero l’indizione è la quindicesima. Sembra che in origine tale computo fosse quinquennale e fosse legato a una forma di imposizione tributaria usata in Egitto; diffusosi poi in Occidente, divenne il sistema di computo più popolare, tanto da indicare anche da solo l’anno di Cristo nella documentazione.  Anche per l’indizione si distinsero vari stili: l’indizione greca o bizantina.
Inizia il 1° settembre, per cui per trovare la sincronia con l’anno comune bisognerà aumentare quest’ultimo di una unità dal primo settembre al 31 dicembre. Fu usata a Bisanzio, dalla cancelleria pontificia fino all’anno 1087, a Lucca, a Milano e si può trovare anche nei documenti regi del IX secolo.Oltre a queste esistevano l’.indizione senese, l’indizione bedana,l’ indizione bedana genovese,l’ indizione romana.
P. Brezzi – Storia d’Italia  - Dalla civiltà latina alla nostra repubblica –Vol 3, pag. 17,  Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1980,

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lunedì 16 agosto 2010


I LINCHETTI:UNA TRADIZIONE DELLA LUCCHESIA

   

  
 
 

I linchetti vivono nelle lande della Toscana, soprattutto in Lucchesia e nella Garfagnana, ma non è difficile trovarli in altri posti data la loro velocità di spostamento. Sono alti circa 40-50 cm, con orecchie lunghe e appuntite e occhi che assomigliano a due piccoli carboni, fluorescenti al buio.
Sul capo hanno il berretto rosso e generalmente portano una mantellina scura.
Di giorno camminano tranquilli per i boschi, mentre al calar del sole cominciano a pensare alle monellate da combinare, ma generalmente i loro scherzi non sono troppo pesanti. Sono piccoli folletti maliziosi e dispettosi, molto popolari specialmente in campagna e sui monti, ed escono in prevalenza solo di notte in cerca di nuove "vittime" per i loro scherzi.
Spesso si nascondono nei tini al tempo della vendemmia, arricciano i crini ai cavalli e si prendono il gusto di bussare la notte alla porta di quelli che dormono, spingendo alle volte lo scherzo al punto di entrare nella camera da letto e di buttare per terra le lenzuola o di mettersi a sedere sul petto dell'ignaro dormiente, impedendogli di respirare. In questo caso bisogna levarsi e andare a mangiare in un cantuccio un poco di pane e di formaggio facendo al tempo stesso i propri bisogni e pronunciando la frase: "alla faccia del Linchetto mangio e caco 'sto cacetto".

Pare che il Folletto, di fronte a un simile oltraggio, se ne vada via offeso e sdegnato proferendo insulti e minacce di ritorsione verso l'incauto. I linchetti possiedono dei poteri particolari come apparire, scomparire, spiccare grandi balzi e sono così cocciuti da fare quasi spavento!
Adorano i bambini e detestano le vecchiette. Ma in modo particolare amano fare scherzi alle giovani spose, nascondendo gli oggetti alla vista o spostandoli nei luoghi più impensati. Il Linchetto vive spesso vicino alle case dei contadini o alle stalle dove sono custoditi gli animali della fattoria; il suo animo dispettoso lo porta a fare complicate trecce alle criniere dei cavalli e alle chiome delle belle ragazze. Può rubare il mangime alle mucche nelle stalle, magari per darlo ad un altra mucca che resta loro più simpatica.
I linchetti solitari prendono dimora nei boschi, prediligendo quelli di castagno e di faggio; si scelgono un albero di loro gradimento e vi costruiscono la propria abitazione, con soluzioni tecniche a dir poco fantasiose. Altri sono molto socievoli e tengono volentieri compagnia alle persone che prediligono, tempestando di scherzi gli abitanti della casa dove prendono dimora: nascondono o spostano gli oggetti, provocano inspiegabili rumori.

 

Non amano farsi notare ed è quindi difficilissimo vederli. Per questo motivo le immagini riguardanti il Linchetto sono variegate; l'unica cosa della quale si può esser certi è che il suo cappello sia rosso.
Se si è presi di mira dal Linchetto c'è solo da sperare di essergli simpatici altrimenti non ci lascerà in pace tanto facilmente e saremo oggetto delle sue "attenzioni" dispettose sino a che non riusciremo a cacciarlo via. Per tenere lontano un Linchetto gli anziani ci insegnano che è opportuno appendere alla porta di ingresso della propria casa o della stalla un ramo di ginepro.
Per qualche misterioso disegno il Linchetto si sente in obbligo di contare le innumerevoli bacche del ginepro prima di oltrepassare quella soglia, ma si stanca subito di contare e abbandona quindi il suo disegno dispettoso fuggendosene via.