domenica 27 febbraio 2011



GIORDANO BRUNO

(breve biografia elaborata essenzialmente sui seguenti testi: "Giordano Bruno" di Michele Ciliberto, Laterza, Bari 1992; "Giordano Bruno" di Giovanni Aquilecchia, Ist. Encicl. Ital., Roma 1971; " Il processo di Giordano Bruno" di Luigi Firpo, Salerno Edit.., Roma 1993)

Giordano Bruno nacque a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un militare di professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l’Università. Nel giugno 1565 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entrò, col nome di Giordano, nell’ordine domenicano dei predicatori nel convento di S. Domenico Maggiore. Si fa rilevare come l’età di 17 anni sia da considerare piuttosto elevata, nel contesto, per decisioni del genere.
Nel convento cominciò subito a manifestarsi il contrasto tra la sua personalità inquieta, dotata di viva intelligenza e voglia di conoscere e la necessità di sottostare alle rigorose regole di un ordine religioso: dopo circa un anno era già accusato di disprezzare il culto di Maria e dei Santi e corse il rischio di essere sottoposto a provvedimento disciplinare. Percorse peraltro rapidamente i vari gradi della carriera: suddiacono nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572 (celebrò la sua prima messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo in Campagna ), dottore in teologia nel 1575. Ma contemporaneamente allo studio serio e profondo dell’opera di S. Tommaso non rinunciò a leggere scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti e la cui scoperta causò l’apertura di un processo locale a suo carico, nel corso del quale emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576 e l’Inquisizione aveva ormai da tempo dato clamorosi esempi di rigore e di efficienza per cui il B., temendo per la gravità delle accuse, fuggì da Napoli abbandonando l’abito ecclesiastico.

Ebbe così inizio la serie incredibile delle sue peregrinazioni, durante le quali si mantenne impartendo lezioni in varie discipline (geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, etc.).Nell’arco di due anni (1577-1578) soggiornò a Noli, a Savona, a Torino, a Venezia e a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in mancanza di una formale reintegrazione nell’ordine, rivestì l’abito. Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 si diresse verso Lione ma, giunto presso il convento domenicano di Chambery, fu sconsigliato di fermarsi in quella città di confine con i paesi riformati e soggetta a particolari controlli, per cui decise di recarsi nella non lontana Ginevra, la capitale del calvinismo.

Qui venne accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule dall’Italia e fondatore della locale comunità evangelica italiana. Deposto di nuovo l’abito e dopo una esperienza di "correttore di prime stampe" presso una tipografia, il B. aderì formalmente al calvinismo e fu immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579). Già nell’agosto però, avendo pubblicato un libretto in cui stigmatizzava il titolare della cattedra di filosofia evidenziando ben venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione, fu accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a pentirsi sotto pena di scomunica. Il B. ammise la sua colpevolezza ma dovette lasciare Ginevra, non senza conservare in sé un forte risentimento.
Quasi per reazione si recò allora a Tolosa, in quegli anni baluardo dell’ortodossia cattolica nella Francia meridionale, dove cercò, senza ottenerla, l’assoluzione presso un confessore gesuita, ma poté comunque ottenere un posto di lettore di filosofia nella locale università e per due anni circa commentò il "De anima" di Aristotele.
Nel 1581 lasciò anche Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose tra cattolici e ugonotti e si recò a Parigi dove tenne, in qualità di "lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare la messa, cosa a lui interdetta come apostata e scomunicato) un corso in trenta lezioni sugli attributi divini in Tommaso d'Aquino.

La notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale B. dedicò subito dopo (1582) il suo "De umbris idearum" con l’annessa "Ars memoriae" ottenendo la nomina a "lettore straordinario e provvisionato". L’appartenenza al gruppo dei "lecteurs royaux" gli consentiva una certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non mancò di criticare il conformismo aristotelico. E’ questo un periodo di grande fecondità nella produzione filosofica e letteraria del B., che pubblica in breve successione il "Cantus circaeus", il "De compendiosa architectura et complemento artis Lullii" e "Il Candelaio".

Con il favore del re divenne "gentilomo" (ma ben presto apprezzato amico) dell’ambasciatore di Francia in Inghilterra Michel de Castelnau, che raggiunse a Londra nell'aprile del 1583, e grazie al quale frequentò la corte della "diva" Elisabetta. Continuò qui a pubblicare opere importanti: "Ars reminiscendi", "Explicatio triginta sigillorum" e "Sigillus sigillorum" in unico volume e subito dopo la "Cena delle ceneri", il "De la causa, principio et uno", il "De infinito, universo et mondi" e lo "Spaccio della bestia trionfante". Nell’anno seguente, sempre a Londra, diede alle stampe "La cabala del cavallo pegaseo" e il "Degli eroici furori".

Quest'ultima opera, al pari dello Spaccio, è dedicata a sir Philip Sidney, nipote di Robert Dudley conte di Leicester. Alcuni di questi testi risentono di polemiche con l’Università di Oxford e con una parte dell’aristocrazia inglese. Venuto a contatto con la famosa università oxoniana, sospinto dall’irruenza del suo carattere, durante un dibattito mise in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato docente: John Underhill, e restò così inviso a una parte dei suoi colleghi che non mancarono di manifestare in seguito la loro animosità. Ottenuto infatti, dopo alcuni mesi, l’incarico di tenere una serie di conferenze in latino sulla cosmologia, nelle quali difese tra l'altro le teorie di Niccolò Copernico sul movimento della terra, fu accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e costretto a interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese del tempo alcune idee di fondo del B., quali appunto la sua cosmologia ed il suo antiaristotelismo. L’episodio del giorno delle ceneri del 1584 (14 febbraio) è significativo: il B. era stato invitato dal nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le sue idee sull’universo.

Due dottori di Oxford presenti, anziché opporre argomento ad argomento, provocarono un acceso diverbio ed usarono espressioni che il B. ritenne offensive tanto da indurlo a licenziarsi dall’ospite. Da questo fatto nacque "La cena delle ceneri" che contiene acute e non sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea, attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa, principio et uno". Nei due dialoghi italiani, Bruno contrasta la cosmologia geocentrica di stampo aristotelico-tolemaico, ma supera anche le concezioni di Copernico, integrandole con la speculazione del "divino Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il Nolano immagina un cosmo animato, infinito, immutabile, all'interno del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro.

Tornato in Francia a seguito del rientro del Castelnau, il B. si occupò di una recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso differenziale, per presentare la quale scrisse - su invito dell’inventore - una prefazione in latino nella cui stesura prevalevano talmente le applicazioni che il B. faceva dello strumento per avvalorare le sue tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o ridurre a un fatto "meccanico" l’invenzione. Offeso, il Mordente si affrettò a comprare tute le copie disponibili e le distrusse. Bruno rinfocolò la polemica pubblicando un dialogo dal titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo" che indirettamente rese più difficile la sua permanenza a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca di Guisa, che di li a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua parabola ascendente, mentre il B. ribadiva la sua fedeltà ad Enrico III. Reazioni negative suscitarono di li a poco a Cambrai le tesi fortemente antiaristoteliche contenute nell’opuscolo "Centum et viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a nome del maestro dal suo discepolo J. Hennequin. L’intervento critico di un giovane avvocato che B. sapeva appartenere alla sua stessa parte politica, convinsero il filosofo nolano che la permanenza a Parigi non era ulteriormente possibile. Di nuovo ramingo per l’Europa, il B. approda nel giugno 1586 a Wittemberg, in Germania, dove insegna per due anni nella locale università come "doctor italus", al termine dei quali si congeda (anche per il prevalere in città della parte calvinista) con una "Oratio valedictoria" con la quale ringrazia l’università per averlo accolto senza pregiudizi religiosi.

L’orazione contiene anche un caloroso elogio di Lutero per il suo coraggio nell’opporsi allo strapotere della Chiesa di Roma che ha grande valore come difesa della libertà religiosa ma non rinnega i convincimenti critici del B. circa la dottrina luterana rilevabili in altre opere (specialmente "Cabala" e "Spaccio"). Gli "eroici furori" sembravano al B. incompatibili con la paolina teologia della croce. Dopo un breve soggiorno nella Praga di Rodolfo II, cui dedicò gli "Articuli adversos mathematicos", alla fine del 1588 si reca a Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia" aderisce al luteranesimo.

Ma i problemi di fondo rimangono: dopo nemmeno un anno è scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet per motivi non ben chiariti e che il B. sostiene fossero di natura privata. E’ in questa città comunque che vennero pubblicate gran parte delle opere c.d. "magiche": "De magia , De magia mathematica", "Theses de magia", ecc. Il 2 giugno 1590 il B. giunge a Francoforte dove chiede ma non ottiene il permesso di soggiorno e rimane precariamente ospitato in un convento di carmelitani.

Pubblicati tre poemi latini (De triplice minimo, De monade, De innumerabilis) e dopo alcuni mesi di permanenza a Zurigo dove tiene lezioni di filosofia, torna a Francoforte dove nella primavera del 1591 viene raggiunto da due lettere del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che lo invitano a Venezia per insegnargli l’arte della memoria. I motivi per i quali B. si decise ad accettare l’invito, con tutti i rischi connessi ad un rientro in Italia, sono tuttora dibattuti tra gli studiosi. Probabilmente a ragione, Michele Ciliberto è convinto che convergessero in questa scelta una pluralità di cause. Scomunicato dalle chiese riformate non meno che dalla cattolica, in rotta con gli ambienti puritani e con la fazione allora dominante in Francia, era isolato e indesiderato a livello europeo. Aveva fiducia nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta (dove di fatto sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale") rispetto al Papa, ed aspirava alla cattedra di matematica dell’università di Padova, allora vacante, che sarà poi di Galileo Galilei. A queste considerazioni, peraltro, il Ciliberto ne aggiunge un’altra, direttamente connessa con gli ultimi raggiungimenti della filosofia del nolano: una sorta di forte autocoscienza, di vocazione in senso riformatore, quasi si sentisse un "Mercurio mandato dagli dei" per diradare le tenebre del presente. Una cosa, rileva ancora Ciliberto, B. non aveva previsto: "che razza di uomo fosse il Mocenigo" (Giordano Bruno, cit. pagg. 259 sgg.).
Comunque sia, a fine marzo 1592 l’inquieto pellegrino giunge in casa Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nella sua aspettativa di mirabolanti tecniche magico-mnemoniche, forse anche indispettito per il carattere indipendente del B. che mal si adattava alla condizione di "famiglio", specialmente di una persona così insipiente (egli si apprestava tra l’altro ad andare a Francoforte per far stampare libri e continuava a sperare in una cattedra a Padova), contravvenendo alle più elementari regole dell’ospitalità, rinchiuse B. nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito profferire bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole al B., che si era difeso sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver pronunciato.

Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al tribunale centrale del S. Uffizio. La prima risposta del senato, geloso custode dell’autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella considerazione che l’inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e nel febbraio 1593 il gran peregrinare del B. terminò in una cella del nuovo palazzo del S. Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di Porta Cavalleggeri.
Del processo, che si protrasse per ben sei anni e durante il quale per una volta almeno si ricorse con ogni probabilità alla tortura, ci rimane una "sommario", ritrovato stranamente nell’archivio personale di Pio IX e pubblicato da A. Mercati nel 1942. Si tratta quasi certamente di una sintesi compilata ad uso dei giudici, per consentire loro una visione d’insieme che non era facile avere nella gran congerie dei documenti originali.
Un fondamentale studio di questo estratto è contenuto nel libro di L. Firpo "Il processo di Giordano Bruno", Napoli, 1949, al quale si rinvia per i particolari drammatici e significativi dell’intricato procedimento che, oltre a fornire numerosi dati sulla vita del B., mostra il progressivo sgretolamento della sua tesi difensiva della separatezza tra il piano filosofico (sul quale, soltanto, lui asseriva di aver speculato) e quello teologico, che non gli interessava.
Decisivo al riguardo fu l'ingresso nel tribunale nel 1597 del teologo gesuita Roberto Bellarmino, chiamato ad esaminare gli atti processuali e soprattutto le opere a stampa per enuclearne il contenuto eterodosso.
Quando il nolano, che pure durante il processo aveva cercato di dissimulare, attenuare e talvolta anche accettato di ripudiare talune sue posizioni in più aperto conflitto con la dottrina cattolica si trovò di fronte alla necessità - per salvarsi - di rifiutare in blocco le sue idee, giudicate radicalmente incompatibili con l’ortodossia cristiana, si irrigidì in un fermo e sprezzante rifiuto e fu la fine.

Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse e rifiutando la richiesta di ulteriore tortura avanzata dai cardinali, ordinò che l’imputato, "eretico impenitente", pertinace , ostinato", fosse consegnato al braccio secolare. Ciò significava, nonostante la presenza nella sentenza della solita ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte per rogo. L’8 febbraio la sentenza fu letta nella casa del Cardinal Madruzzo e fu allora che il B., come riferisce un attendibile testimone oculare (lo Schopp) rivolto ai giudici pronunciò la famosa frase "Forse avete più paura voi che emanate questa sentenza che io che la ricevo" (trad. dal latino). Il successivo giovedi 17 febbraio 1600 - anno santo - venne condotto a Campo de’ Fiori con la lingua in giova" cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare e qui, spogliato nudo e legato a un palo venne bruciato vivo ostentatamente distogliendo lo sguardo da un crocefisso, del quale stava condividendo la sorte ma che gli volevano far apparire come carnefice. Aveva messo in pratica e purtroppo sperimentato sulla sua pelle una considerazione di molti anni prima e cioè che "dove importa l’onore, l’utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che minacciano morte" (Dialoghi Ital. a cura di G. Gentile Firenze 1985 pp. 698-99). Nel sommario del processo ci sono tramandati i capi d’accusa (24) ma non quelli ritenuti provati nella sentenza, che peraltro ci sono così riferiti dallo Schopp, a memoria:

1. Negare la transustanziazione;
2. Mettere in dubbio la verginità di Maria;
3. Aver soggiornato in paese d’eretici, vivendo alla loro guisa;
4. Aver scritto contro il papa lo "Spaccio della bestia trionfante";
5. Sostenere l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni;
6. Asserire la metempsicosi e la possibilità che un anima sola informi due corpi;
7. Ritenere la magia buona e lecita;
8. Identificare lo Spirito Santo con l’anima del mondo;
9. Affermare che Mosé simulò i suoi miracoli e inventò la legge;
10. Dichiarare che la sacra scrittura non è che un sogno;
11 .Ritenere che perfino i demoni si salveranno;
12. Opinare l’esistenza dei preadamiti;
13. Asserire che Cristo non è Dio, ma ingannatore e mago e che a buon diritto fu impiccato;
14. Asserire che anche i profeti e gli apostoli furono maghi e che quasi tutti vennero a mala fine.

Di tali errori il quarto risulta manifestamente infondato essendo lo "Spaccio" piuttosto antiluterano che antipapista; le volgari invettive contro Cristo, i profeti e gli apostoli dei nn. 13 e 14 sono evidentemente echi di sfoghi contingenti di una persona esasperata. Dove il contrasto con l’Istituzione appare insanabile è piuttosto con il nucleo centrale della dottrina del B., adombrato nei punti 5, 6 e 8. Non è qui il caso di approfondire il sistema filosofico del nolano, ma il solo pensare che la terra, da centro di un limitato universo, oggetto specifico e privilegiato dell’azione creatrice di Dio, diventi un minuscolo puntolino in un universo infinito e tra mondi infiniti; che tale universo è pervaso e vivificato da uno spirito divino immanente; che nel continuo trasformarsi della vita anche le anime, immortali, informano corpi diversi, ecc. rendeva le Scritture, Cristo, la Vergine, i profeti e i dogmi come imperfettissime ombre di una realtà che la filosofia mostrava ben più grande, e tutt’al più utili a tenere quieti i popoli. Probabilmente le idee di Bruno non sarebbero mai riuscite a far presa sulle masse, a sollecitare scismi lontanamente paragonabili a quello luterano; ma insomma di trattava, in un certo senso, di un tentativo di sostituire una nuova "summa" sull’universo a quella tradizionale di S. Tommaso. E questo fu considerato un pericoloso esempio, un attentato alla supremazia della teologia sulla filosofia, della religione sulla ragione.



Il ritorno in Italia: dal processo al rogo

«Da Francoforte, invitato, come ho detto nell'altro mio constituto, dal signor Zuane Mocenigo, venni setto o otto mesi sono a Venezia. Io non tengo per nimico in queste parti alcun altro se non il signor Gioanni Mocenigo et altri suoi seguaci et servitori, dal quale son stato più gravemente offeso che da homo vivente; perché lui me ha assassinato nella vita, nello honore et nelle robbe, havendomi lui carcerato nella sua casa propria et occupandomi tutte le mie scritture, libri et altre robbe» [Sesto costituto del Bruno (Venezia, 4 giugno 1592)].
Rientrato a Venezia, ospite del Mocenigo, che lo denuncia, Bruno viene arrestato e portato nelle carceri di San Domenico di Castello.
«Dixit quod non debet nec vult resipiscere, et non habet quid resipiscat, nec habet materiam resipiscendi, et nescit super quo debet resipisci» [Visita dei carcerati nel Sant'Uffizio Romano. Minuta (Roma, 21 dicembre 1599)].
Nel suo ultimo costituto Bruno dichiara di non voler ritrattare perché non ha di che pentirsi.
La sentenza viene letta pubblicamente, alla presenza dei testimoni e della Congregazione del Santo Uffizio: «Dicemo, pronuntiamo, sententiamo et dechiariamo te, fra Giordano Bruno predetto, essere heretico impenitente, pertinace et ostinato, et perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche et pene dalli sacri Canoni, leggi et constitutioni, così generali come particolari, a tali heretici confessi, pertinaci impenitenti, pertinaci et ostinati imposte; et come tale te degradiamo verbalmente et dechiariamo dover esser degradato, sì come ordiniamo et comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gl'ordini ecclesiastici maggiori et minori nelli quali sei constituito, secondo l'ordine dei sacri Canoni; et dover essere scacciato, sì come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico et dalla nostra santa et immaculata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno; et dover esser rilasciato alla Corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro» [Copia parziale della Sentenza, destinata al governatore di Roma (Roma, 8 febbraio 1600

venerdì 25 febbraio 2011


La Cucina nel Medioevo



Nel Medioevo l'alimentazione dei più nobili era ricca di selvaggina condita spesso con spezie molto costose poichè provenivano dall' Oriente. L'alimentazione dei contadini era più povera e comprendeva alimenti che potevano sostituire la carne, come i legumi.
Con i miglioramenti dell'agricoltura i contadini si nutrirono prevalentemente di cereali; ma le paste alimentari furono prodotte solo a partire dal XIII sec. I contadini mangiavano una zuppa a metà mattina, del pane (cotto ogni 15 giorni in pesanti pagnotte), del formaggio e castagne bollite durante il giorno, la sera - quando tornavano dai campi - mangiavano di nuovo la zuppa o altri cibi molto poveri. Anche per i ricchi, il pane restava comunque l'alimento principale ma lo volevano bianco, di frumento. Un decreto imperiale dell'884 stabilisce il limite di ciò che può requisire un Vescovo ad ogni tappa delle sue visite pastorali con tutto il seguito, in una regione agricola: 50 pani, 50 uova, 10 polli e 5 porcellini.
Per fare il pane, i poveri mescolavano farine di vari cereali e, se occorreva, anche di legumi, come si faceva fin dai tempi antichi e come consigliava Dio nella Bibbia quando il profeta Ezechiele ricette il comando: "prendi del frumento, dell'orzo, delle fave, delle lenticchie, del miglio e della veccia e fanne del pane". Nei tempi di grande carestia, poi, si cercava di fare il pane con qualsiasi cosa, persino con la paglia e le cortecce macinate, e si ricorreva al cibo dei maiali: le ghiande. Il vino era bevuto sia dai nobili che dai monaci ma i poveri inizialmente erano esclusi da questo "privilegio". Mangiare molto e carne era considerato segno di ricchezza e di potenza. I monaci anche se provenivano da famiglie ricche erano soliti mangiare poco in segno di penitenza; essi però alternavano alle zuppe e verdure del pesce.
Nel Medioevo si amavano profumi e sapori che per noi non sono usuali, come quello delle rose, e gli accostamenti un po' particolari come agro-dolce, dolce-salato, dolce-piccante ecc., forse anche per le tante spezie usate (sempre dai piu` ricchi, pero). Ancora a proposito di ricchi, ricordiamo che i primi libri "ufficiali" di ricette risalgono al 1300, ma si trattava per lo piu` di preparazioni riservate solo a chi se le poteva permettere, richiedendo spesso ingredienti molto costosi.



A tavola la sedia del signore era la piu elevata, gli altri erano seduti su sgabelli. Si usavano vassoi d' argento e coppe d' oro, arrivavano in tavola interi cinghialetti arrostiti, frittate di centinaia di uova, enormi brocche di vino, fruttiere ricolme. In pieno Medioevo apparve uno strumento nuovo che impiegò molto tempo a conquistare le tavole di tutto il continente. Pier Damiani scrisse che durante un matrimonio tra nobili, la sposa si fece portare un "bidente d'oro" e mangiò la carne con quello, invece di usare le dita come dettavano le buone usanze. Era la prima forchetta, ma soltanto a due denti. Per molto tempo, però, fu usata soltanto dalle dame più nobili poichè per gli uomini era un segno di debolezza. Per pulirsi le mani c'erano diversi metodi, a seconda della raffinatezza, dell'ambiente e dell'epoca: si potevano strofinare con noncuranza sul mantello dei cani che girovagavano numerosi attendendo gli ossi, o si potevano lavare delicatamente con acqua di rose, o tergere su tovaglie di lino, che certo uscivano malconce dallo schizzare dei sughi. Dimenticare di offrire l'acqua di rose era considerato un'offesa, come del resto rifiutarla. C'era tutta una serie di regole da seguire, nei banchetti, tra cui "non sputare sul desco, tenere le unghie sempre "nette e piacenti", e infine - dopo essersi soffiati il naso - pulirsi le dita non sulla tovaglia ma nella propria veste. Sempre per pulirsi le mani, c'era anche un'altra soluzione, molto diffusa e graditissima ai poveri: si mangiava su... tovaglie di pane, cioè sopra uno strato di pasta sottile, rettangolare, una specie di "pizza", sulla quale ogni convitato tagliava la carne, lasciava colare il sugo, pulendosi poi le mani con un po' di mollica intatta; quel che restava di queste "tovaglie" veniva dato ai poveri che aspettavano alla porta.



Per tutto il Medioevo sulle mense dei pratesi il pane aveva il primo posto; al pane si accompagnava un alquanto ridotto seguito di companatici, il che contribuiva ad accrescere ulteriormente l'importanza del principale alimento. La nostra civiltà ha attribuito al pane il ruolo di principale garante della sopravvivenza, di provvidenziale scudo contro la fame.
I "buoni uomini" dei Ceppi elargivano farina e pane ai pratesi indigenti, per prima cosa garantivano ai beneficiati qualche giorno di minor preoccupazione: era così che si assicurava la tranquillità in occasione delle ricorrenze e negli altri frangenti in cui la fame di molti poteva rappresentare una fonte di grave turbamento. In questo Medioevo, quando si parla di carestia si deve intendere carestia di cereali: di tutto il resto si poteva anche fare a meno. Ma torniamo per ora al quotidiano; accanto al pane gli altri alimenti consueti per l'uomo comune sono gli ortaggi (prodotti spesso nell'orticello di proprietà, situato accanto all'abitazione o subito fuori le mura di Prato, piccoli fazzoletti di terra dai quali comunque si cavavano insalate, cavoli, zucche, legumi, agli, cipolle, porri e qualche frutto), il formaggio, le uova ed anche la carne, piatto non certo quotidiano per tutti ma neanche agognata rarità per buona parte della popolazione.
Per ciascun cittadino di Prato, tra il 1321 e il 1322 c'era una disponibilità annua di carne di 19,7 chilogrammi. La classifica per genere della carne più consumata vede al primo posto l'ovo caprina, e in particolare quella di castrone, seguita a poca distanza da quella suina (in realtà è probabile che le sopravanzasse, se si tiene conto che l'allevamento del porco per l'autoconsumo domestico - sfuggente alla gabella - era pratica diffusa) e poi da quella bovina. La classifica del pregio poneva ovviamente al primo posto la vitella, e poi il castrone, l'arista, e quindi la carne di bue adulto. Al tempo della grande fiera di settembre, si consumava carne di ovini adulti e di vitelli, dicembre e gennaio erano caratterizzati da un notevole afflusso sul mercato di carne suina e anche bovina. "A cagione che gli è di quaresima ti scriverò pocho e di rado" faceva sapere al marito Margherita Datini "ch'i'ò pocho ciervelo fuori di quaresima, perciò abimi per ischusareta"; e ancora "mi sono morta di fame in questa quaresima e il medicho dice che io òne più male di debolezze che d'altro". A questa temporanea austerità dettata dall'osservanza religiosa e all'altra ben più triste imposta ogni giorno dalle ristrettezze economiche, pratesi ricchi e poveri cercavano di ovviare con un notevole consumo di vino; diffuso in tutti gli strati della popolazione esso costituiva "il modo di procurarsi calorie ad un prezzo spesso più conveniente rispetto ad altri generi" particolarmente per i meno abbienti. I quali si accontentavano del vino locale, di bassa gradazione e bevuto spesso annacquato. Abbastanza rinomata era invece la campagna pratese per la produzione di frutta (fichi, prugne, noci, pere e mele, ciliege, pesche, poponi e cocomeri): anch'essa doveva avere un'importanza rilevante nell'alimentazione del tempo.Cibi dei ricchi e cibi dei poveri si differenziavano insomma in maniera notevole, non solo per quantità ma anche per qualità e per elaborazione, e l'arco della differenza dovette tendere a divenire più ampio nel corso del tardo Medioevo; pasti da "lavoratori": di pane, di vino, carne (presumibilmente "salata") era composto il desinare consueto di un maestro muratore e dei suoi manovali; insalata, cipolle e cacio costituivano il pasto offerto ai battitori del grano; cavolo e aringhe fece preparare Lapo Mazzei per due uomini venuti da Firenze a compiere certi lavori nel suo podere di Grignano. Che i "lavoratori" dovessero starsene per conto loro e mangiare non piu` del "giusto" si vede anche da questa storiella: pare che Luca del Sere si fosse scandalizzato quando seppe che Margherita Datini, vedova, aveva ospitato alla sua stessa tavola i pittori che affrescavano la sua casa con le storie di Francesco: ciò non era " nè bene nè onesto", e per quanto riguardava i loro pasti "e' non ànno a stare a noze nè a morir di fame: abino del pane e vino quello che bisognia loro, l'altre chose sechondo chome vi pare", come se fosse ovvio non avessero diritto a pretendere alcunchè di più. Come nel resto del mondo medievale, anche a Prato - dunque - a una ristretta categoria di ricchi molto ben nutriti, si contrappone la massa della gente che consumava soprattutto cibi vegetali (pane, ortaggi, zuppe) e poca carne di bassa qualita`, pur spendendo buona parte del suo poco denaro proprio per il cibo: "sbirciare" i banchetti dei potenti faceva nascere i sogni nelle menti del popolo e l'acquolina nelle loro bocche...



Restrizioni nella caccia, riserve venatorie, protezione di alcune specie, esistevano anche nel Medioevo e dimostrano fino a che punto gli uomini riuscissero a minacciare l'equilibrio ambientale. Queste restrizioni riguardavano solo i paesi densamente abitati con vaste coltivazioni come L'Inghilterra, mentre nei paesi come la Spagna e nell' Europa orientale non esistevano. Nell' Europa settentrionale, oltre alle zone coltivate, si trovavano molte foreste ampie che costituivano una fonte di risorse quasi inesauribile, prima fra tutte la legna. Anche i contadini sfruttavano le risorse della foresta raccogliendo bacche, miele, erbe, da cui estraevano sostanze chimiche a loro utili (ad esempio per conciare le pelli o fabbricare il sapone). La foresta era anche piena di animali veloci che venivano cacciati come selvaggina più o meno pregiata, d'altronde l' approvvigionamento di carne era ottenuto soprattutto dalla caccia. A poco a poco le grandi riserve incominciarono pero` a impoverirsi. La diminuzione della selvaggina indusse all' allevamento di animali da macello e a fissare prezzi per licenze di caccia. Così la caccia si trasformò progressivamente in uno sport per pochi riservato a quanti potevano affrontarne le spese, quindi cessò di rappresentare il naturale sistema di procurarsi il cibo da parte degli abitanti delle campagne.

Anche la pesca era molto importante per la popolazione medioevale: in particolare nei mari settentrionali la pesca e la preparazione di altri pesci salati e affumicati costituivano un ottimo guadagno per pescatori e commercianti. Spingendosi verso nord i marinai cacciavano pesci di grande taglia (balene, capodogli e trichechi) per la loro pelle, il loro grasso, le loro zanne. Sulla terra ferma si pescava in fiumi e vivai appositamente realizzati. Il pesce è sempre stato una sorpresa perchè, anche se le città facevano molti sforzi per organizzare il mercato, la pesca restava pur sempre incerta, la freschezza precaria e i trasporti difficili. Alla chiusura del mercato del Venerdì, i poveri recuperavano i pesci invenduti che gli venivano lanciati dai proprietari dei banchi che per legge glielo dovevano dare per evitare che al prossimo mercato potesse essere rivenduto il pesce avanzato al mercato precedente. Probabilmente in campagna (quelle lontane dalla riva del mare) non si conosceva il pesce di acqua salata. Dunque il pesce, benche` sinonimo di penitenza, era anche gola, perché l'incertezza di poterselo procurare rinfocolava il desiderio di averlo.



La differenza fra giorni quotidiani e festivi era molto grande soprattuto dal punto di vista alimentare (e soprattutto nelle case dei ricchi): nei giorni festivi gli acquisti aumentavano in modo sproporzionato: si comprava molta più carne, soprattutto pregiata (vitello, capretto, pollame, capponi). Gli uomini piu` agiati cominciavano ad andare a caccia gia` molti giorni prima; entrano nelle cucine dei signori molti prodotti: uova, farina, formaggi, spezie, indispensabili per la preparazione di alcune ricette. Per alcune feste religiose il consumo era ritualizzato: lasagne a Natale, farro a Carnevale, uova e formaggio per Ascensione, oca per Ognissanti, agnello a Pasqua; questa lista fu proposta da Simone Prudenziali, poeta orvietano di fine 200.



Una delle testimonianze più interessanti dell' epoca medievale è rappresentata dagli " erbari ". Qesti codici, riccamente miniati, raffiguravano le varie erbe e le piante allora conosciute, elencandone anche i vantaggi che se ne potevano trarre per la salute. Citiamo dal Tacuinum Sanitatis alcuni dei consigli terapeutici:



Frumento: indicato per guarire le ulcere.
Segale: indicato come calmante e sedativo.
Uovo: nutre, depura e ingrassa.
Miglio: per coloro che desiderano rinfrescarsi.
Bietole: il loro succo toglie la forfora.
Zucche: mitigano la sete e fanno bene ai collerici.
Cocomeri e cetrioli: abbassano la febbre.
Finocchio: giova alla vista.


Cosa erano e a che cosa servivano le spezie che l'occidente importava dall'oriente a carissimo prezzo? Le spezie (o droghe) sono in realtà bacche, gemme o semi di piante. Le più conosciute sono: cannella, noce moscata, zénzero, zafferano, cumino, ... Oltre a rendere più stuzzicanti i cibi contribuivano a conservarli meglio. Ma non solo, le spezie erano anche gli essenziali componenti di molte medicine: con il ginepro, il cumino e l'anice ci si facevano liquori, tonici ed elisir. Il pepe era invece un ottimo disinfettante intestinale. Esse erano fonte di grandi guadagni per i mercanti perchè erano poco ingombranti, perciò costava poco caricarne e trasportarne qualche migliaio di chili ed i compratori erano disposti a pagarle care. Le spezie tennero il primo posto nel commercio sul Mediterraneo fino al XVII secolo. Anche il sale era usato nella cucina e nelle farmacie. Oggi è un prodotto comune e poco costoso, ma nel medioevo era molto raro e caro, tanto che i governi ne tassavano spietatamente il consumo. Venezia si arricchì con le spezie ed il sale fino dall'alto medioevo, quando la principale attività dei veneziani era lo sfruttamento delle saline e il sale era usato come moneta e come mezzo di scambio.

Il sale esaltava il sapore degli alimenti e permetteva di conservare la carne ed il pesce essiccandoli. Era inoltre considerato un ottimo disinfettante, un ricostituente del sangue energetico e corroborante, una sostanza capace di rassodare pelle e muscoli. Ed era utilizzato nella concia delle pelli.

Il valore del sale era legato anche ad antiche tradizioni magiche e religiose, tanto che il carattere sacro e magico del sale è all'origine di molte credenze popolari vive ancora oggi, come quella di considerare un segno di sventura spargere e sprecare il sale.



Mastro Pasquadibisceglie

mercoledì 23 febbraio 2011


CARLO CATTANEO

BIOGRAFIA



Nacque il 15 giugno 1801 in Milano e morì il 6 febbraio 1869 in Castagnola, presso Lugano. Studioso di problemi economici, sociali, discepolo di Gian Domenico Romagnosi, ispirò la sua attività al proposito di promuovere gradualmente, attraverso il progresso scientifico, l'evoluzione politica dell'Italia. Così egli si adoperò assiduamente per realizzare un miglioramento delle condizioni economiche e sociali del Lombardo-Veneto al fine di assicurarne l'autonomia in seno all'Impero asburgico. Un analogo processo di sviluppo politico nelle altre parti d'Italia avrebbe dovuto condurre, infine, alla formazione di una federazione italiana indipendente. Di formazione e di cultura positivista, nutrì un'assoluta fiducia nel progresso tecnico-scientifico come mezzo di elevazione materiale e morale dei popoli. Lasciò numerosi scritti, spesso frammentari. Le opere più famose sono Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) e Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1849). La vicenda pubblica di Cattaneo comincia nel 1820 quando fu nominato professore di grammatica latina e poi di umanità nel ginnasio comunale Santa Marta. Seguiva ogni tanto la scuola privata di Gian Domenico Romagnosi e si laureò in diritto presso l'Università di Pavia nel 1824. Nel 1835 lasciò l'insegnamento (e si sposò); da quel momento svolse l'attività di scrittore, occupandosi di ferrovie, di bonifiche, di dazi, di commerci, di agricoltura, di finanze, di opere pubbliche, di beneficenza, di questioni penitenziarie, di geografia, ecc., insinuando tra questi argomenti anche qualcuno di quelli che "hanno viscere", com'egli diceva, di letteratura ed arte, di linguistica e di storia, di filosofia. Richiesto nel 1837 dal governo britannico, scrisse sulla politica inglese in India e sui sistemi di irrigazione applicabili all'Irlanda. La sua attività di pubblicista cominciò ben presto a procurargli dei problemi con il governo austriaco di Milano. Lui che s'era tenuto estraneo a sette e congiure e che aveva cercato con la sua opera di accrescere il prestigio e il decoro e di elevare nell'animo dei cittadini la coscienza dei loro diritti, si trovò, in breve, a causa della sua idea di conquista graduale di riforme politiche e civili che ridessero al Lombardo-Veneto l'indipendenza, ad essere bersaglio della diffidenza dell'Austria. In verità Cattaneo, oltre ad aver serratamente criticato il programma di Gioberti, non fu contrario a lasciare l'Austria nel Lombardo-Veneto, a patto che concedesse riforme liberali. L'obbiettivo principale del suo programma - che precisò meglio solo dopo il 1848 - era la fondazione di tante repubbliche da unire in una Federazione. Non era favorevole, a differenza di Mazzini, ad una Repubblica unitaria; temeva che l'accentramento avrebbe sacrificato l'autonomia dei Comuni, delle regioni e delle zone più povere, soprattutto il Mezzogiorno. Il raggiungimento di una vera libertà e di una reale indipendenza era possibile, secondo lo storico ed economista milanese, solo attraverso l'educazione delle masse lavoratrici e l'eliminazione delle grandi ingiustizie sociali, delle troppo marcate differenze tra ricchi e poveri. Al problema politico Cattaneo abbinava cioè anche la questione sociale.
Il dibattito si allargava coinvolgendo nuovi gruppi, più vasti settori di opinione pubblica: solo nel 1848, tuttavia, fu possibile fare il primo decisivo passo avanti sulla via dell'unità e dell'indipendenza. Le Cinque Giornate trovarono in lui un leader naturale: nei tre giorni dal 19 al 21, Cattaneo fu Capo del Consiglio di guerra, non mercanteggiando con nessuno ma teso solamente alla vittoria. Il suo motto era "A guerra vinta". Prevalsi però gli avversari politici, angosciato per gli eventi, lasciò Milano nell'agosto di quell'anno e si recò a Parigi.
Nel 1859, pur lieto della guerra, non volle, tenacemente fermo nelle sue idee federali, partecipare al nuovo ordine economico delle cose e tornò a Milano il 25 agosto esclusivamente per parlare di filosofia. Sul finire di quell'anno fece risorgere il Politecnico, un importante strumento utilizzato come "difensore" d'ogni progresso materiale e morale del paese; lo lascerà nel 1864.
Nel 1860 fu a Napoli con Garibaldi, ma se ne allontanò quando vide la impossibilità di imporre la soluzione federalista. Eletto più volte deputato, non andò in Parlamento per non prestare giuramento alla corona. Eletto deputato a Sarnico, Cremona, e nel V collegio di Milano, optò per questo ma non entrò mai in Parlamento, non volendo prestare giuramento contro la sua fede repubblicana. Abbandonò anche, nel 1865, con atto di fiera onestà, la cattedra di filosofia al liceo di Lugano, unica sua risorsa economica. Nel marzo del 1867 fu rieletto deputato a Massafra e al I collegio di Milano: optò per la città natale, fu più volte al Parlamento di Firenze, ma non seppe mai piegarsi ad un giuramento formale.

domenica 20 febbraio 2011


Grasso e Magro storia dei canoni estetici





La tradizione etrusca e romana, frutto di una civiltà agricola, non esitava a porre il pane al centro del suo sistema alimentare e a designarlo come ideale per ogni uomo, dal contadino al soldato. L'ìmmagine estetica da sublimare era quella del condottiero agricoltore, perfettamente identificata dall'asciutto Lucullo.
Questo cambiò nell'alto Medioevo, quando il cibo carneo andò ad identificare per gli strati dominanti la prima occasione per manifestare superiorità.
Ciò era legato alla concezione fisica e muscolare del potere, che vedeva nel capo anzitutto un valoroso guerriero e cacciatore. L'imperatore Carlo Magno, rappresentava perfettamente questa icona di uomo potente che consumava più cibo degli altri. Per rafforzare questa identità spesso anche i cognomi delle famiglie nobili erano presi a prestito dal mondo degli animali carnivori: Lupi, Orsi, Leoni, Leopardi.
Con il trascorrere dei secoli, il passaggio da una nobiltà di "fatto" conquistata con la forza fisica sul campo, ad una nobiltà di "diritto" acquisita per via ereditiera, fece affermare un modello alimentare diverso.
L'importante non era più consumare obbligatoriamente più cibo degli altri commensali, ma averne a disposizione di più sulla tavola, per poi distribuirlo a compagni, ospiti, servi e cani.
Il linguaggio alimentare sviluppò così un contenuto sempre più ostentatorio e scenografico. Tra il XIV e XVI sec. e fino alle soglie della contemporaneità, questo concetto venne applicato nei cerimoniali di corte in modo quasi aritmetico.
Pietro IV d'Aragona voleva che a tavola si segnalassero con precisione le differenze:
"Poichè nel servizio è giusto che alcune persone siano onorate più delle altre, secondo la condizione del loro stato", leggiamo negli Ordinacions del 1344 "vogliamo che nel nostro vassoio sia posto il cibo necessario per otto persone; cibo per sei sarà posto nei vassoii dei principi reali, degli arciverscovi, dei vescovi; cibo per quattro nei vassoi degli altri prelati e cavalieri che siedano alla tavola del re".
Regole ispirate alla medesima logica valevano ancora nel XIX sec. alla corte napoletana dei Borbone.
Ne seguiva come ideale estetico un generale apprezzamento del corpo robusto, perché essere grassi era bello e segno di ricchezza.
Il valore della magrezza, collegato a quelli di rapidità e produttività, sembrò proporsi come nuovo modello culturale ed estetico solo nel corso del Settecento, ad opera degli intellettuali borghesi che si opponevano al vecchio ordine.
Il puritanesimo ottocentesco, riprendendo certi valori del penitenzialismo cristiano medievale, contribuì ad affermare ulteriormente l'immagine del corpo magro e snello: il corpo borghese, che "si sacrificava" per la produzione dei beni.
A poco a poco, già nel corso del XIX e poi sopratutto del XX sec., mangiare molto ed essere grassi cessò di rappresentare un privilegio indicante superiorità sociale.
Di fronte alla progressiva democratizzazione dei consumi, imposta dalla logica industriale di produzione del cibo, nuovi ceti sociali vennero ammessi all'abbuffata.
L'ostentazione di mangiare molto si ridefinì come pratica popolare, dalla piccola borghesia ai ceti contadini. Esempio di questo erano gli usi linguistici delle nonne, che per indicare un nipote in salute affermavano "sei proprio bello grasso".
Il modello estetico della magrezza, arricchito di implicazioni salutistiche, trovò ampia diffusione nelle classi dominanti europee della prima metà del Novecento.
Poi l'esperienza devastante della guerra, riportò la fame e i modelli tradizionali medievali ripresero il sopravvento: negli anni Cinquanta le figure femminili che campeggiavano sui cartelloni pubblicitari erano improntate sopratutto verso una corporeità florida e piena.
Solo a iniziare dagli anni Settanta-Ottanta l'ideologia del magro ha trionfato, rafforzata anche dalle esigenze salutistiche sempre più importanti della società attuale.

venerdì 18 febbraio 2011


ARTHUR RIMBAUD


Jean-Arthur Rimbaud nacque nel 1854 a Charleville. Il padre abbandona per sempre la moglie e i figli. Arthur trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Charleville, nel clima soffocante della famiglia e della provincia. Subito, dai primi anni di scuola, rivela doti di ragazzo prodigio: un'eccezionale precocità sostanziata da un ferreo tirocinio umanistico. La madre, guidata dall'ambizione proiettata sul futuro dei propri figli, isolò il giovane Arthur, che si immerse negli studi. Nel 1896 scrive la sua prima poesia "Le strenne degli orfani". Nel 1870 assistiamo a una vera e propria esplosione poetica: compone le ventidue poesie che sconsacrano la precocità del suo genio. Ha un legame d'amicizia con un giovane professore di francese, che allarga la sua cultura. Questi nel luglio muore, nel conflitto franco-prussiano, e questo sconvolge Rimbaud. Comincia a manifestare i primi sintomi della sua insofferenza e della sua rivolta verso le istituzioni fondamentali: famiglia, scuola, religione e patria. Fugge tre volte di casa; la fuga lo porta a Parigi, costringendolo ad una vita da strada. Questo è un momento di totale ribellismo. Egli legge poeti "immorali" come Baudelaire e si nutre di filosofia e di occultismo e si accende la sua furia anticristiana e anticlericale.
Nel 1871 conosce Verlaine, con cui intreccia una relazione che scandalizza la Parigi letteraria. È l'inizio di una grande, storica amicizia particolare, intensa e burrascosa, ricca di viaggi, rotture, riconciliazioni, stravizi (alcool e droghe), episodi violenti e drammatici.
Rimbaud assume droga e vive in maniera dissoluta; l'unico in grado di avvicinarlo è Verlaine, che nel '72 abbandona la moglie e parte con Arthur per Londra. Durante il sodalizio con Verlaine, Rimbaud compone le opere maggiori: "Ultimi versi", "Una stagione all'inferno" e "Illuminiazioni".
Nel '73 Rimbaud lascia l'amante, che reagisce sparandogli e colpendolo al polso. Verlaine finisce in galera, mentre Rimbaud completa "Una stagione all'inferno". Ha solo diciannove anni e prima del suo ventesimo compleanno deciderà di non scrivere più, dedicandosi allo studio delle lingue e alla pratica dei più vari, avventurosi mestieri.
Parte poi per l'Africa dove diventa mercante e contrabbandiere d'armi. Colpito da sifilide, gli viene amputata la gamba destra. Torna in Francia nel 1891, assistito dalla sorella Isabelle e il 10 novembre dello stesso anno muore.

In Rimbaud vita e poesia appaiono indissolubilmente legate come segno del destino. Ragazzo precoce e geniale, Rimbaud non può sfuggire alla legge comune, e inizia a scrivere versi sotto l'influsso palese di altri poeti. Rimbaud è forse il più "maledetto" tra i poeti simbolisti e d'avanguardia. La sua poesia si proietta sulla vita e ne fa strazio. Il giovane Arthur aspira alla rivelazione dell'ignoto e dell'assoluto, che forse solo la poesia può cogliere e svelare. Egli vive fino alle estreme conseguenze il disprezzo del mondo, che colpì già Baudelaire e Verlaine, mentre ricerca l'impossibile identificando la poesia con il caos e con la rivoluzione.
La poesia e la vita di Rimbaud si svolgono al di fuori di tutte le convenzioni e delle normali esperienze. Negando il valore di ogni consuetudine borghese, anzi rifiutandole e fuggendole, egli tenta di cogliere l'autentico significato dell'esistenza. Come la sua biografia è ricca di episodi eclatanti e scandalosi, allo stesso modo la sua poesia si consuma in una brevissima stagione (dai 16 ai 19 anni), durante la quale insegue la poesia e la "verità" nelle avventure più stravaganti e pericolose.
La rivolta rimbaudiana si esprime nella tematica antiborghese e anticristiana. Nel '71 scrive le due "lettere del Veggente" nelle quali afferma la sua nuova poetica ormai svincolata dalla tradizione. Sono due documenti di straordinaria importanza per l'itinerario di Rimbaud e per il divenire della poesia e dell'arte moderna fino ai giorni nostri. Rimbaud sostiene che il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi, e giunge all'ignoto di dove riporta le sue visioni. Le invenzioni d'ignoto richiedono forme nuove e una nuova lingua. In queste "lettere del Veggente" il poeta critica la poesia soggettiva della tradizione in favore di una poesia oggettiva.
"Una stagione in inferno" ha le caratteristiche di una presa di coscienza, di una confessione: presenta i tratti di un'autobiografia spirituale. Qui l'autore vuol presentare la chiusura di una stagione della vita (e seguirà il silenzio definitivo). Torna il tema della rivolta letteraria, il rapporto con la civiltà e col cristianesimo, il legame con Verlaine. Alla fine, nella logica non discorsiva, contraddittoria del testo, prevale l'accento della rinuncia e dell'accettazione del dovere.
Sulla scia di Baudelaire, Rimbaud nelle "Illuminazioni" abbandona il verso per la prosa, che diventa nelle sue mani uno strumento lirico d'inaudita potenza e ricchezza. Il libro consta di 42 prose, divise in autobiografiche e descrittive. Rimbaud distrugge le apparenze sensibili e ricrea sulla pagina un mondo stravolto, surreale, dove vigono nuove misure, proporzioni, rapporti. La scrittura è rapida, lucida e rigorosa. Nel loro delirio fantastico, le "Illuminazioni" non smettono di mantenere un riferimento costante alla realtà storica. Con le parole del poeta "la memoria e i sensi divengono il nutrimento dell'impulso creatore".
Per la sua carica utopica e per la tensione che pervade tutta la sua opera, Rimbaud è stato assunto tra i numi tutelari del surrealismo e di tutta l'avanguardia storica. La singolarità della sua vicenda biografica e letteraria ha creato intorno a lui un vero e proprio mito.

giovedì 17 febbraio 2011


Harem Ottomano
I sultani vissero in concubinato. Siccome L`Islam proibisce la schiavitù di un mussulmano, i mercanti di schiavi ne procuravano provenienti da Asia, Africa ed Europa.
Le giovani vennero prima mostrate alla Valide ed all`Eunuco capo, in seguito sottoposte ad un severo « controllo ».

Dopo aver dato loro un altro nome le Odalische (turco oda= camera) dovettero convertirsi all`Islam ed assolvere uno studio della nuova cultura.
Le più belle ed intelligenti furono destinate all`Harem, altre per servire le sorelle o figlie del Sultano, la capa tesoriera ecc…
L' harem non era solo un luogo di odalische che danzano in attesa del sultano come si vede nei dipinti.
C' erano biblioteche, moschee, stanze per studiare danza, musica, astronomia, cucito, lingue.
Per molte di loro l`essere rinchiuse fu la salvezza dalla povertà e dalla fame. Poterono uscire dall`Harem per frequentare i bagni (Hamam), per compere o passeggiate in compagia di Eunuchi.

Quando la favorita del Sultano partoriva, saliva al rango di Kadin (signora), oppure Kaseki Sultana.
La nascita di un figlio maschio dette loro la possibilità di diventare a loro volta Valide Sultana. Gli intrighi alla corte dell`Harem furono spietati.

In tempi passati il Sultano sceglieva come favorita o moglie donne dell`Asia minore, principesse Bizantine.
Con l`andar del tempo schiave.
Lo storico Hammer ha ragione quando scrive che - …il Sultano è praticamente figlio di schiava..-

Margherita Marsili la Rossellana.
La toscana che dominò il Sultano

La villeggiatura
Margherita Marsili, detta "la bella Marsilia" o anche "la Rossellana" per via della fluente chioma rosseggiante, di quel rosso tiziano così di moda ai giorni vostri, tanto che anche chi non ce l'ha se lo fa lo stesso, come si vede in televisione, il 22 aprile del 1543 non aveva ancora sedici anni, ma era già una splendida ragazza che probabilmente pensava già al suo non lontano matrimonio, visto che a quei tempi le cose andavano per le spicce e che fra guerre, lotte, duelli e scaramucce i maschi dell'epoca non avevano tempo da perdere in fidanzamenti e altre quisquilie del genere.

Era senese ma quel giorno si trovava ancora in Maremma con i familiari per le vacanze pasquali, dove babbo Giovanni possedeva una casetta di una ventina di stanze, la rocca di Collecchio appunto, niente di impegnativo, solo una seconda casa al mare per la villeggiatura e per qualche weekend durante l'anno quando il tempo lo permetteva. Tuttavia l'indomani o, al massimo, dopodomani, tutta la famiglia sarebbe dovuta rientrare a Siena a causa di improrogabili impegni mondani: i Marsili erano una famiglia in vista ed avevano organizzato una grande giostra di primavera alla quale avrebbero partecipato anche i fratelli di Margherita.

Era sera e i familiari stavano per andare a dormire. Margherita si era attardata su una delle torri a guardare la luna che si rifletteva sul mare calmo mentre l'aria profumava di corbezzolo e di rosmarino che abbondavano fra i monti dell'Uccellina. Quelle voci sullo sbarco di pirati saraceni sulla costa a sud che aveva sentito nei giorni precedenti l'avevano un po' preoccupata ma non voleva pensarci: a Siena sarebbe stata comunque al sicuro e poi i pirati erano probabilmente ancora impegnati giù a Roma, come al solito. Volgendo lo sguardo verso la spiaggia, però, scorse improvvisamente una serie di fiammelle sulla spiaggia...


L'assalto
Ser Giovanni, avvertito dai famigli, stava precipitosamente chiamando a raccolta e armando tutta la servitù, oltre che i figli e gli altri ospiti della rocca, preparandosi a respingere l'attacco dei turchi che avanzavano verso il Collecchio da Cala di Forno. La scia di fiaccole lungo il crinale della collina si faceva sempre più vicina; al chiarore si potevano distinguere i turbanti rossi e i larghi mantelli degli invasori.

Guidava la carovana l'ammiraglio della flotta saracena Kayhr-el-Din, detto il Barbarossa o anche Ariadeno dal popolino toscano, conosciuto e temuto su tutto il litorale per la sua audacia e la sua ferocia, responsabile di aver messo a ferro e fuoco varie località della costa, da Porto Ercole all'Isola d'Elba. Dove non trovava oro o preziosi, le sue prede preferite erano giovani robusti che potevano essere venduti sui mercati orientali degli schiavi o ragazze giovani e belle destinate agli harem dei potenti. Insomma, una specie di gran farabutto, di nemico pubblico n. 1, di terrorista pericoloso, insomma di un Bin Laden ante-litteram, impegnato nella guerra di corsa per conto del sultano di Costantinopoli Solimano II il Magnifico.

Ser Giovanni e i suoi vennero presto sopraffatti dagli assalitori che sfondarono le porte e irruppero nella rocca. Margherita, in catene, fu trascinata via sulla nave mentre giurava a suo padre e ai fratelli che li avrebbe vendicati. I capelli sembravano ancora più rossi al fuoco delle torce e si confondevano con la barba di Ariadeno mentre questi, soddisfatto dell'insperata preda, già pensava a come trarne il massimo beneficio. Era roba da re, quella! Le donne di carnagione chiara, bionde o rosse, erano ricercatissime negli harem e poi quella ragazza era anche giovanissima. Un bel bocconcino che il Gran Visir avrebbe certamente apprezzato!


Il serraglio
Ibrahim Pascià, Gran Visir di Solimano II, ricevuta in dono Margherita (si fa per dire, perché Ariadeno, come del resto si aspettava, fu lautamente ricompensato), l'avrebbe volentieri tenuta per sé, giusto per togliersi qualche piccola soddisfazione ogni tanto, ma, vista la qualità e la rarità della merce, giudicò più produttivo per la sua carriera arruffianarsi, ehm no... ingraziarsi, la benevolenza del Sultano come antidoto per i potenziali concorrenti alla carica.

E d'altra parte, visto che le elezioni da quelle parti non erano ancora state inventate, cosa c'era di meglio di una benedizione "sultanica" per restare Gran Visir a vita? Quando poi col tempo si fosse stancato, avrebbe sempre potuto fondare un club, i Sempreverdi, e dall'opposizione si sarebbe divertito a smoccolare sempre contro tutto e tutti, rompendo magari le p... ehm, scatole ma godendo comunque di un ascolto inversamente proporzionale al numero dei soci.

Ibrahim, quindi, omaggiò Solimano II con la Rossellana. Non è dato sapere se Margherita fosse o meno soddisfatta di questa promozione sociale ma probabilmente unico suo pensiero allora era di riuscire a vendicare la sua famiglia, anche se non sapeva ancora come. Fatto sta che il Sultano si mostrò invece entusiasta di quel bel regalino, dei suoi capelli rossi e della pelle chiara, così rara dalle parti di Costantinopoli e cadde, come si dice, perdutamente innamorato di Margherita.




La vendetta
Margherita entrò così a far parte dell'harem del Sultano ma poiché quando a questi prendeva il ghiribizzo, lei non era invece così entusiasta di soggiacere alle sue voglie, ecco la pensata geniale: si fece nominare da Solimano favorita ufficiale, pensando bene che le cose riescono meglio se si collabora in due a farle e che una mano lava l'altra e che se tu dai una cosa a me e insomma ogni botte dà il vino che ha.

Non so se la Rossellana fosse rimasta particolarmente lusingata da quel trattamento; gli è tuttavia che da allora cominciò a lavorarsi Solimano sotto sotto (no, non sotto le lenzuola o almeno non solo sotto di esse, voglio dire). In poco tempo riuscì a far fuori le ex-colleghe e quindi, facendo credere al Sultano come dalle parti di Toscana certe cose fossero consentite alle ragazze dabbene solo nel talamo coniugale, si fece sposare, divenne la Sultana di Costantinopoli e convertì lo sposo alla monogamia.

Non contenta, poco alla volta mise in condizioni di non nuocere anche i figli che Solimano aveva avuto dalle precedenti concubine. Il maritino lasciava fare visto che era impegnato in cose ben più importanti: in pochi anni, mettendocisi proprio d'impegno, riuscì a regalare alla Rossellana quattro figli; poi, esausto per la soddisfazione o lo sforzo, schiattò e così usò anche la cortesia di togliersi di mezzo.

Il maggiore dei ragazzi, Selim, salì al trono di un impero sterminato assicurando alla discendenza di Margherita onore e potenza per molti secoli. A suo modo la Rossellana aveva portato a termine la vendetta: da allora in poi i sultani turchi, per secoli e secoli, sarebbero discesi tutti da una ragazza di Siena...

domenica 13 febbraio 2011




Jozefina Dautbegović

«Non annotare niente lasciare la pagina vuota /senza data / Se dò un nome a un giorno si penserà che abbia contribuito a qualcosa / o che sia colpevole Dio non voglia di qualcosa», scrive Jozefina Dautbegovic´ in ”Provare a ricordare” - e con queste parole compie un inconsapevole gesto di ribellione a una consuetudine che negli ultimi tempi è andata cristallizzandosi nella sua poesia: ricordare il quotidiano, legando la propria parola poetica al tempo e allo spazio. Le vicende personali di questa autrice si trovano molto probabilmente alla radice di una simile scelta espressiva. La sua biografia è caratterizzata da molti spostamenti, avviati in quella che ancora si chiamava Jugoslavia. Nata nel 1948 e cresciuta a Šušnjarinei pressi della città di Derventa (Bosnia-Erzegovina), si trasferì ancora giovanissima in Croazia, precisamente nella città di SlavonskiBrod, per proseguire gli studi superiori e universitari. Terminati gli anni della formazione e conseguita una laurea in lettere e storia,tornò in Bosnia-Erzegovina, a Doboj, dove scrisse e pubblicò isuoi primi tre libri di poesia (Cˇ emerike, 1979; Uznešenje, 1985; OdRima do Kapue, 1990) e lavorò come insegnante, bibliotecaria e curatrice di riviste letterarie, partecipando attivamente alla vita culturale della città. Tuttavia, la Bosnia-Erzegovina non divenne neppure questa volta la sua dimora fissa e i tristemente noti eventi bellici dell’ex Jugoslavia la costrinsero negli anni Novanta ad abbandonare ancora la terra natale e cercare nuovamente una dimora in Croazia. Nel 1992, con l’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina, lasciò Doboj per stabilirsi a Zagabria, dove ha vissuto e lavorato fino al momento della morte come archivista presso il Centro di documentazione museale. I primi anni dell’esilio croato si possono considerare decisiviper la sua produzione poetica. Tra il 1994 e il 1997 dà alla luce isuoi libri di poesie più incisivi come Rucˇak s Poncijem, 1994 e Prizoris podnog mozaika, 1997, distinguendosi nel panorama della poesia croata per una scrittura che intreccia il fisico con il metafisico in una tonalità quotidiana e colloquiale, guadagnandosi il positivo giudizio della critica. La raccolta Il tempo degli spaventapasseri, oltre la produzione poetica più recente, ospita i versi degli anni dell’esordio artistico, che permettono di riconoscere la sua evoluzione. Segnata dagli spostamenti sino dalla giovanissima età, Dautbegovic´, anche quando all’inizio scriveva una poesia intimista caratterizzatada un ricorrente uso del linguaggio simbolico, che occultavai suoi referenti nel reale o, come ha detto qualcuno, «ermeticamente» chiuso perché privo di «conferme empiriche», sentiva già l’esigenza di collocare le proprie parole poetiche, di fermarle nel tempo e nello spazio. Nelle poesie delle sue prime tre raccolte, come anche in quelle degli anni Ottanta e dei primi Novanta che troviamo nella selezione presente (ad esempio “Uno spettacolo difficile”, “La casa”, “Il grande riposo”, “Attese”, “La belva e il cacciatore di frodo”, “Il frumento e la malerba” e “Armate solo d’occhi con le pupille bianche”), Dautbegovic´ annotava gli anni e i luoghi delle proprie parole, come se volesse suggerirci il legame segreto, esclusivo con i contenuti poetici. Tutto ci induce a pensare che la quotidianità avesse già allora rappresentato un importante punto di riferimento e che la riflessione poetica di quei primi anni, nonostante la mancanza di un legame esplicito con quella quotidianità, avesse tra gli obiettivi la memoria di ciò che in essa veniva vissuto benché abilmente taciuto. L’importanza del quotidiano nella sua prima produzione poetica tuttavia non è sempre stata occultata, come emerge dalla poesia “Armate solo d’occhi con le pupille bianche”. La straziante, dolorosa realtà del vissuto femminile è qui tematizzata. In pochi versi è narrato il dramma delle donne che dietro di loro lasciano l’aria della propria stanchezza «come dietro una candela appena spenta», perché impossibilitate a esprimere ciò che le tormenta intimamente, costrette a vivere nel mondo delle apparenze («Il rossetto sul bordo della tazzina non è per nulla una prova / loro imitano se stesse»). E anche se i versi hanno riferimenti comuni, ricordandoci che in molte società europee oggi il silenzio è la condizione piùdiffusa della donna, siamo propensi a intendere il richiamo di questa poesia a quella data - «1990» - e a quel luogo - «Doboj». Molto ci induce infatti a pensare che l’autrice in quell’anno e in quel luogo, parlando della comunicazione femminile in termini generici, in realtà si riferiva anche al silenzio della sua parola poetica («In un silenzio molto sospetto / del quale si circondano come di un diversivo / depositano parole non rivolte a nessuno»); un silenzio che, come abbiamo ricordato, aveva caratterizzato la sua poesia giovanile, occultante i referenti nel reale, ma che scomparirà nella produzione più recente, quando troverà nella terribile realtà segnata dalla guerra il suo contesto predominante. Quello che rappresenta il tratto distintivo e originale della recente scrittura poetica di Dautbegovic´, una chiara volontà di ricordare ciò che l’io poetico vive nell’immediato, si trovava in fieri già nei suoi primi componimenti. Tuttavia, le vicende legate all’esilio della poetessa sono sicuramente da considerarsi tra le cause prime che hanno fatto emergere questo aspetto peculiare della sua poesia attuale: la consapevolezza di trovarsi, dopo lo scoppio delle guerre degli anni Novanta, in una nuova condizione esistenziale, che Brodskij ha definito «metafisica», determinata dal cambiamento del luogo di dimora, e la necessità di offrirsi come testimone nel quotidiano. Ma come ci ricorda la poetessa stessa, in una intervista rilasciata in occasione di un importante premio: «L’uomo non può creare per puro diletto, qualcosa lo deve stimolare, deve dapprima vivere un’esperienza per essere in grado di concepire qualcosa di nuovo». Che proprio le date e i luoghi rappresentino un referente importante, senza il quale le poesie di Dautbegovic´ non sarebbero le portatrici degli stessi valori poetici, emerge anche dai versi più recentidella raccolta Il tempo degli spaventapasseri. Come se si trattasse di scrittura diaristica, di un «diario in versi», molte poesie di quest’opera trovano la loro collocazione negli ultimi due decenni nella città di Zagabria, e si ha la sensazione che, quando ciò non avviene, l’autrice, spezzando i legami tra il quotidiano e la parola poetica, voglia nascondere qualcosa accaduto in un luogo e uno spazio determinati, mentre sa che in questo potrà aiutarla l’inarrestabile corso del tempo. E ricorda ai suoi lettori come i tragici eventi della ex Jugoslavia e in modo particolare la vita trascorsa in esilio a Zagabria siano centrali per comprendere l’ultima sua produzione poetica, segnata dalle esperienze della guerra. Il mondo «alterato» con il quale entriamo in contatto leggendo le poesie di Jozefina Dautbegovic´ mostra un io poetico ferito, che però non si chiude autisticamente in se stesso, bensì presta generosamente la propria voce a chi è più debole, al «subalterno» che non può parlare ma che ha la necessità di far sentire le proprie urla di dolore. Il mondo intimo delle sue poesie diventa il mondo di tutti coloro che hanno visto la propria vita invasa prepotentemente dalla guerra, da ciò che la guerra circonda o accompagna e che ad essa consegue. Quello che ci comunica l’io poetico «dislocato», che vive, come veniamo a sapere da uno dei titoli delle sue poesie, “Al valico di frontiera”, diventa la voce poetica di un’intera comunità segnata dagli eventi degli anni Novanta, dalla distruzione causata dalla guerra ai popoli della ex Jugoslavia. Se l’esilio è sicuramente tra i temi più presenti in questa raccolta, in quanto testimonia la condizione della poetessa, esso non ha la priorità sulle altre tematiche legate al destino di distruzione e di sofferenza di questi popoli. Incontriamo in queste poesie la morte violenta, le fosse comuni, la perdita della quotidianità, i crimini di guerra, la fragilità di un’intera comunità incapace di emarginare la realtà bellica, che prepotentemente si è imposta sulla vita e per sempre l’ha cambiata. Anche quando Dautbegovic´ ci propone versi in prima persona, pare di sentire l’eco di questa comunità: La scena che dovrebbe suonare consolatoria A me in realtà non è successo niente sono riuscita a uscire dalla città prima che catturassero la mia camicetta gialla di seta prima che con la baionetta accorciassero le mie gonne troppo lunghe che comunque non amavi perché nascondevano le ginocchia Dico che non mi è successo niente Ma io ancora tremo a piedi nudi sul cemento bagnato di un qualche lager e nessuno mi troverà mai più Lontana da tutto svolgo attività quotidiane completamente libera Ma in ogni sogno mi catturano di nuovo mentre mi difendo tento di fuggire piango mi fa male tutto così tanto che in stato di veglia non ho coraggio di muovermi Quando nessuno guarda tastando cerco i gonfiori e conto le unghie sulle dita mentre stringo la maniglia nel tram Parlo normalmente rido scrivo poesie d’amore mangio con gusto e regolarmente Ma io in realtà raggomitolata nell’angolo di un qualche lager sul cemento bagnato piango Quando le previsioni del tempo alla TV annunciano l’abbassamento della temperatura il vento del nord e la neve sui monti io stretta ad un termosifone caldo tremo perché sono a piedi nudi sopra la fossa al freddo secco e aspetto che mi chiamino Mentre ti telefono e fisso l’appuntamento per il caffè che mi rende felice disegno con grande precisione le sbarre sulla carta Nessuno mi potrà mai più liberare mentre mi dici dormi non è successo niente.Zagabria, 17/XI/1995 da Prizori s podnog mozaika (Scene da un mosaico)

sabato 12 febbraio 2011


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Marie di Francia
Marie visse nella seconda metà del XII secolo. Nata in Normandia, visse e operò in Inghilterra, fu alla corte di Enrico II Plantageneto. Di lei non sappiamo molto. Alcuni studiosi hanno pensato potesse essere la figlia di Luigi VII di Francia e di Eleonora d'Aquitania, oppure di Galeran de Beaumont, ma in realtà non sappiamo nulla su questo. Aveva una buona conoscenza della letteratura francese e provenzale, in particolare di quella cortese, oltre che del latino. Il suo nome è legato a una dozzina di lais, brevi racconti in versi (la parola di origine celtica significava "motivi musicali") di argomento amoroso e d'ambiente fiabesco, avventuroso e romanzesco, derivati dalle fonti più diverse: agiografia, aneddotica storica, tradizionale biblica e cavalleresca, novellistica orientale. Nel prologo alla raccolta dà un orientamento morale alla sua opera («chi vuol sfuggire al vizio deve riflettere e applicarsi a un severo lavoro: solo così potrà difendersi e liberarsi da un gran male»).
"Brevi sviluppi narrativi di una canzone" (come li definisce *Macchia), le storie narrate si snodano con ritmo fluente, il linguaggio essenziale e secco. Cultura dotta e clericale si incontrano con quella folclorica e popolare felicemente. Si tratta soprattutto di storie di amori infelici. La narrazione è immersa in una luce irreale e incantata, l'epilogo (annunciato spesso da una fulminea e enigmatica anticipazione) risulta imprevedibile.
Nei suoi lais più famosi (Il caprifoglio, Eliduc, Il frassino, Lanval) ha tracciato commoventi ritratti di donne abbandonate e perseguitate, rivelandosi poetessa gracile e dolce, molto sobria, elegante.
Nel lais di Bisclavret, che deriva da una leggenda che circolava in Bretagna e Normandia ma che ha radici nelle credenze più antiche della Grecia arcaica, è la storia di un nobile cavaliere molto devoto della sua sposa. Le nasconde però un segreto: ogni settimana andava in un bosco, lasciava i vestiti ai margini e si trasformava in un lupo mannaro. Dopo tre giorni tornava uomo rinfilandosi gli abiti. Una volta, cedendo alle insistenze della moglie, le confessa tutto. La donna sconvolta, lo tradisce. L'amante segue Bisclavret nel bosco, gli sottrae i vestiti così che il lupo mannaro non può più tornare umano. I due amanti si sposano e vivono felici. Un giorno il re durante una battuta di caccia trova questo lupo incredibilmente docile, e che parla. Stupì to del prodigio, lo porta a corte. Il lupo è docile con tutti, ma quando per caso capita a corte l'uomo che gli ha rubato la moglie, gli si avventa contro. Il lupo segue poi il re nei pressi della foresta. La donna si agghinda per rendere omaggio al sovrano: non appena la vede, Bisclavret le zompa addosso e con un morso le stacca il naso. La fiaba termina con il particolare sarcastico: gli amanti banditi dal paese se ne andarono raminghi, ebbero molti figli, riconoscibili perché le femmine nacquero senza naso. In questo lai, i toni crudi, la dolcezza degli affetti sono fusi con grazia a accrescere la magia dell'unione simbolica di naturale e sovrannaturale.
Maria ha composto anche una raccolta di favole, Isopet, rielaborazione di un testo inglese derivato a sua volta da Foedrus e dal "Romulus".

Possibili identità di Maria di Francia Numerose sono state le ipotesi proposte sulla possibile identificazione storica dell'Autrice, in merito risulta notevole il saggio di Carla Rossi;[1][2]. Alcune delle possibili identità sono:

Marie di Meulan, ipotetica figlia di Garelan IV de Meulan, studioso e letterato, a cui è dedicata la Historia regum britannie, il quale però non risulta che avesse avuto una figlia di nome Marie. È esistita una badessa Marie di Meulan, ma sarebbe morta entro il 1000, mentre i Lais sono stati scritti fra il 1160 e il 1175.
Marie d'Ostillie, badessa e secondo alcuni sorellastra di Enrico II, secondo altri figlia di un uomo di fiducia del re. Entrata in tenera età in convento, mentre la cultura dell'Autrice dei Lais mostra chiaramente la sua vicinanza all'ambiente di corte di Enrico II e alle querelles letterarie coeve.
Marie di Blois, principessa d'Inghilterra, badessa del monastero di Romsey, ma in pessimi rapporti con Enrico II, quindi non si spiegherebbe, oltre la vicinanza culturale all'ambiente di corte, anche la dedica al "nobile re" presente nel prologo.
Marie sorella di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury. Maria sarebbe diventata badessa del monastero di Barking, monastero che conservava la tomba della badessa sorella dell'arcivescovo. Questa ipotesi, formulata da Carla Rossi, è la più probabile perché innanzitutto è quella più compatibile con i dati anagrafici: la badessa non sarebbe entrata da piccola in convento, ma da vedova, secondo un uso molto diffuso all'epoca. In secondo luogo i testi di Maria di Francia sono stati più volte trasmessi da manoscritti tramandanti testi strettamente legati a Thomas Becket.
Marie di Francia, secondo R. Baum, non è mai esistita e il suo nome è una pura invenzione letteraria che mette insieme un primo nome "Maria" che vuole indicare un'identità letteraria portatrice della cultura e dei valori cristiani all'indicazione "de France" che non deve essere interpretata in senso geografico, ma culturale: l'autore si richiama direttamente alla cultura e ai valori celebrati in quello che era allora il centro culturale più prestigioso: Ille de France. Tra gli studiosi che hanno fatto propria questa ipotesi, non è mancato chi ha veduto la raccolta di Lais come opera di diversi autori, cosa che stride notevolmente con la palese unità stilistica dell'opera.

venerdì 11 febbraio 2011





Manorial Marriage and Sexual Offense Cases

1. Alexander Wymer was attached to answer Vincent Buncheswell on a plea of wrong (trespass) in which (Vincent) says that A.W. on the Friday after St. Gregory the Pope's day in the 26th year of king Edward [1298] in the vill of "Estrudham" came and brought with him unknown men and others speaking ill with the friends [including kinsmen] and neighbors of the said V. and spread scandal about him with shocking ("enormis") words, and caused him to lose 20 m. value concerning Mary of Hecham whom he was supposed to marry, because the said Alexander told Mary that the said Vincent did not sow or plough his land in good time and was not a good farmer ("cultor"). Because of this, he lost Mary's love and marriage to the said Vincent's serious loss 40/-. He seeks a [jury] inquiry into the matter. [Gressenhall Manor Court, July 8 1298, MEDIEVAL STUDIES xlix (1987), 509, n. 59.]


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2. John Page and Agnes his wife appear through their attorney John Chupm' against John Baker in a plea of a broken covenant alleging that the aforesaid John [Baker] sold to Agnes Page, John Page's wife, one Matilda John [Baker's] wife for one pig (cost 3 shillings) of which pig John Baker took pssession and with which he was well contented. Later the said John came and sought to have his wife back and he gave ("daret") Agnes 2 shillings, and on this he produces suit. And the aforesaid John Baker denies force and injury, and says that he broke no covenant to him and detained no money from him foir the abovesaid reason, and he seeks an inquiry, and the said Agnes does so too. Therefore etc. [m. 2, July 30 1330]
[Inquiry - margin] John Page and Agnes his wife appear through their attorney Peter Godsone against John Baker and Matilda his wife in a plea of broken covenant alleging that the aforesaid John Baker sold his wife Matilda to Agnes Page for one pig (3 shillings) etc. Later John Baker came and sought to have his wife again and he gave (offered?) 2 shillings which he did not pay. And he say he did not make any covenant with him, and he seeks an inquiry. [m. 3d, November 13 1330]

[Amercement 1 penny - margin] Because the aforesaid John Baker failed against John Page by inquest, it is therefore held that the aforesaid John Baker be in mercy and that the aforesaid John Page recover 2 shillings and his losses ("dampna") which are taxed at 2 d. etc.[m. 3d, Feg 5 1331] [Lewisham, Kent, All references from P.R.O., SC2/181/58, courtesy of John Beckerman.]



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3. Henry Cook of Trotteslyve (Kent) and his wife were summoned because each has turned away from the other and they do not live together. Both appear in person. And Henry then alleged that he did not know why his wife left him but she behaved as badly as possible towards him, with contumelious words and other evil deeds, as he asserts. His [unamed] wife said that her said husband loved several other women and therefore had a malevolent mind towards her, and she could not go on living with Henry on account of his cruelty. Finally both of them swore after touching the gospels that they would live together in future and give each other the usual conjugal services ("suffragia"), and that she [blank left for name] will now be humble and "familiaris" with her husband and not fighting, contumelious or insulting; and that the husband will treat his wife with marital affection from now on ... [1347. REGISTRUM HAMONIS HETHE, ed. Johnson, p. 974, courtesy Larry Poos.]


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4. John Marabel, a married man, is cited of adultery and incest with Alice, daughter of Robert de Wywell, daughter of the said John's wife. The man appears and admits (his sin). The woman is not found. And John is forbidden from coition with either the mother or the daughter in future, unless the mother, who is the wife, seeks the debt and he pays it with sadness. And he will have as penance to make a pilgrimage with bare feet to St. Mary at Lincoln, to St. Thomas [Becket] at Canterbury, and to [St. Thomas Cantilupe] at Hereford and to beatings in penitential fashion round the church and round the marketplace of Grantham. And he will forswear the sin and suspect locations for the said Alice under pain of 40/-. It is later held that the same John on his pilgrimage would take much from his said wife, (so) the penance was changed so that he will fast on bread and water as long as he lives every fourth and sixth week, unless work or sickness prevents this... We John warn thee, the aforesaid John, once, twice and a third time that you, having been parted for good from your wife, will eject the said Alice from your company within the next six days under pain of greater excommunication which is now (pronounced) most firmly on your person in these writings if you should disdain to carry out the aforegoing. [1347. Lincoln Dean and Chapter, A/2/24, fo. 72v, courtesy Poos.]

giovedì 10 febbraio 2011


THE HOUSE of TUDOR

The Tudor dynasty continued the Plantagenet line, albeit in a diluted form. The family was descended from the strongest Welsh clans; Owen Tudor, the first man to use the surname, was a direct eighth-generation descendent of Llewelyn the Great and Joan (daughter of King John ). Owen worked within the household of Queen Catherine, widow of Henry V ; Owen and Catherine married in 1429. Their first son, Edmund Tudor, was made thirteenth Earl of Richmond in 1453, and married Margaret Beaufort (great-granddaughter of John of Gaunt ) in 1455, creating yet another link to the Plantagenet line. Edmund and Margaret had one son, Henry, who would be made fourteenth Earl of Richmond and eventually become King Henry VII .

The Tudor era marked the beginning of political and religious reform in England. Henry Tudor, Duke of Richmond, defeated Richard III at the Battle of Bosworth and married Elizabeth of York (he was Lancastrian) to end the War of the Roses and politically stabilize the monarchy. Richmond, as Henry VII, brought the nobility to heel by economic means, revitalizing the monarchical strength which characterized all the Tudor rulers.

Henry VIII inherited a secure throne and was well-received by the general populace. Providing a male heir proved most difficult, resulting in Henry's search for an annulment from his first wife, Catherine of Aragorn. Failing to achieve a settlement with the Pope, Henry separated England from the Roman Catholic church; the result was catastrophic: religious strife that endured throughout both the Tudor and Stuart eras. The struggle to produce a male heir caused Henry to marry yet again, as his first two wives bore him daughter. This union finally produced a male - the future Edward VI . Henry married three more times, for a total of six wives.

Edward VI came to throne upon the death of his father in 1547. He was a strong Protestant, further reforming the Church of England by eliminating Roman Catholic ritual from church services. Upon his premature death at age sixteen, Mary , the staunch Catholic daughter of Henry VIII and Catherine of Aragorn, inherited the throne. Mary's reign was marred by religious persecution on a grand scale: she reinstated Roman Catholicism and burned Protestants for heresy. The frail Mary died in 1558, her short reign lasting for but five years; Elizabeth , Henry's daughter by Anne Boleyn, inherited a kingdom divided between Catholics and Protestants, but had the political acumen to lead both camps to compromise.

Modernization of medieval practices was a constant in Tudor England. Improved methods of collecting revenue and conducting state affairs utilized a larger bureaucracy of skilled officials. Protestant reforms placing the king at the head of ecclesiastical (as well as political) domain was a further catalyst to change. These two factors, combined with the confident manner in which all the Tudors ruled, produced a monarchy capable of directing the winds of change.

martedì 8 febbraio 2011


Si stima che nel mondo vi siano da un minimo di 15 ad un massimo di 30 milioni tra Rom,
Sinti, Kalé, Romanichals ed altri, di cui 5-10 milioni in Europa, con una forte
concentrazione nell'Europa centrale, nei Balcani ed in Spagna.
Si ritiene che in Italia vivano da 80.000 a 110.000 Rom e Sinti.
Si tratta di cifre indicative poiché nella maggior parte dei paesi in cui è presente la
popolazione romaní non è censita e non vi sono criteri unanimemente condivisi da parte di
chi, a vario titolo, si occupa di quantificarne la presenza.
Quale sia il futuro della popolazione romaní all'alba del XXI secolo è difficile dirlo, come
peraltro appare difficile immaginare il futuro di noi tutti. Una cosa è certa: Rom, Sinti, Kalé
e Romanichals rappresentano una sfida pacifica al mondo occidentale consumista ed
individualista. La loro sopravvivenza è possibile solo nella misura in cui la società saprà
rispettare tutte le diverse espressioni culturali di cui essa si compone e nella quale cui
ciascuno opererà per costruire ponti anziché erigere muri divisori.
1.2 Classificazione etnografica della popolazione romaní nel mondo
La diffusione della popolazione romaní in aree diverse del continente europeo ha
comportato una diversificazione tra i gruppi che si fonda principalmente su una ripartizione
costituita da Rom, Sinti, Kalé e Romanichals. Ciascuno di questi gruppi contiene al
proprio interno ulteriori suddivisioni.
Dopo la diaspora balcanica la presenza dei Sinti (che in Francia sono chiamati Manouches)
è rimasta prevalentemente confinata entro i territori dell'Europa Occidentale. Solo pochi di
essi si sono successivamente ridiretti verso est mentre i Kalé si sono stanziati in una vasta
regione compresa tra la Francia del Sud ed il Portogallo.
I Rom, a differenza dei Sinti e dei Kalé, dopo una lunga e spesso forzata permanenza
nell'Europa orientale hanno dato vita a nuove consistenti migrazioni verso l'occidente che,
come vedremo più avanti, perdurano fino ai nostri giorni.

È comunque opportuno quantomeno accennare a quello che unanimemente viene
considerato come schema di classificazione ufficiale della popolazione romaní in Europa,
quantunque tale classificazione sia imperfetta e certamente non esaustiva della varietà etnica
di cui il mondo romanó si compone.
Presso i Rom "Vlaχ" (ossia originari della Valacchia) la ripartizione in sottogruppi avviene
in base ad una identificazione di tipo ergonimico (denominazione che trae origine dal
lavoro tradizionalmente svolto).
A questa segue la nátsija (nazionalità) e la vítsa (stirpe, prende il nome dal capostipite).
Ad esempio: Gruppo: Rom; sottogruppo: kalderáš (calderaio = riparatore di pentole ed
altri recipienti di metallo); nátsija: vúngrika (ungherese); vítsa: Jonéšti (discendente di
Jono).
Gli ergonimi principali sono:
- kalderáša, calderai, fabbricanti e riparatori di pentole e di oggetti di metallo (prob. dal
rumeno căldare = secchio)
- lovára, allevatori e commercianti di cavalli (dall'ungherese ló = cavallo)
- čurára, affilatori di coltelli (dal romaní čurín = coltello).
Le nátsjie si distinguono in:
Serbiája (Serbi), Rusúrja (Russi), Moldovája (Moldavi), Vúngrika (Ungheresi), Grekúrja
(Greci), ecc.
Tra le vítse troviamo, ad esempio, i Minéšti (discendenti di Mino), i Papinéšti (discendenti
di Papino), gli Jonéšti e gli Jonikóni (discendenti di Jono), i Šandoréšti ed i Šandoróni
(discendenti di Šandor), i Kiriléšti (discendenti di Kirilo), ecc.
I Rom "balcanici" sono classificati in diversi sottogruppi ma non sono suddivisi in
nátsjie o in vítse. La denominazione di ciascun sottogruppo è determinata dalla
caratteristica principale con cui esso si identifica. Nel caso dei Xoraχané (da Xoraχái =
Turchia in lingua romaní) tale termine designa la provenienza e, per estensione, anche
l'appartenenza religiosa (musulmani). Analogamente i Serbijája (o Dasiχané) sono i Rom
serbi cristiani-ortodossi.
All'interno di questi due gruppi principali troviamo ulteriori ripartizioni, anch'esse fondate
su precisi elementi di identificazione.
Alcune tra le denominazioni più diffuse tra i Rom "balcanici" presenti in Italia e,
conseguentemente anche in Piemonte, sono:
Xoraχané:
- cergárja (pronuncia: tsergaria; dal serbo croato cerga = tenda. Quelli che abita(va)no
nelle tende);
- crna gora (pronuncia: tsrna gora; Montenegrini);
- šiftárja (pronuncia: sciftaria; Albanesi)
- kalopéri (letteralmente "piedi neri", nome attribuito ai Rom divenuti agricoltori al
servizio di proprietari terrieri ed ai loro discendenti);
Serbijája (o Dasiχané):
- khanjárja (dal romaní khanjí = gallina. Probabilmente usato da altri Rom in senso
dispregiativo nell'accezione di "ladri di galline") ed altri gruppi affini come arlíja, Rom
originari della Macedonia e della Bulgaria, mrznárja, buznjárja, ecc.
Alcuni tra i Rom provenienti dalla Romania sono detti Rudári o Ludári. Essi sono
musicisti per tradizione, non conoscono la lingua romaní e sono presumibilmente

assimilabili ai Rom Boyáša (muscisti ed ammaestratori di orsi) diffusi nell'Europa Centrale
ed in Sud America.
Fra i Sinti ed i Kalé i sottogruppi sono generalmente designati secondo un concetto di
natura toponimica (riferito ai luoghi di insediamento storico), ad esempio: Sinti
piemontesi, Sinti Lombardi, Sinti Gáčkane (tedeschi), Sinti Estraxárja (austriaci),
ecc. (ed analogamente Kalé (Gitani) Andalusi, Catalani, ecc.).
A differenza dei Rom "Vlaχ" essi pure, come i Rom "balcanici", non conoscono ulteriori
ripartizioni di nátsija e di vítsa. Si potrebbe però affermare che il sottogruppo, tra i Sinti ed i
Kalé, in realtà corrisponde alla nátsija dei Rom.
Anche i Rom italiani di antico insediamento, giunti dalla regione balcanica attraverso
l'Adriatico adottano una classificazione su base toponimica. Es. Rom Abruzzesi, Rom
Calabresi, Rom Cilentani, ecc. Essi vivono prevalentemente nell'Italia Centro
Meridionale e non si ha notizia di loro insediamenti o transiti in Piemonte a livello di
gruppo etnico (mentre è quasi certa la presenza di alcuni di essi mescolata a quella di
immigrati meridionali ormai storicamente insediati nella nostra regione).
Infine, a completamento del quadro generale, sebbene non presenti in Piemonte, bensì
nelle regioni del nord est ed in Lombardia, va citata l'esistenza degli Hrvátska Róma (Rom
croati) degli Slovénska Róma (Rom sloveni) e dei Rom Istriani.