venerdì 25 gennaio 2013


 
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Un antico futuro

Il Bioregionalismo e le sue radici nella Civiltà neolitica dell'Antica Europa (7000 – 3500 a.C.)

«Gaia newsletter» - Rete Bioregionale Italiana - Marzo 2000



«La Terra è una Dea»
(Senofonte, IV sec. a.C)



Sommario







Prefazione


Le nostre radici profonde


La maggior parte dei libri di storia ormai ci parla con dovizia di particolari delle origini dell'uomo e essenzialmente della cosiddetta Rivoluzione neolitica che iniziò circa 10.000 anni fa subito dopo la fine dell'ultima glaciazione.

Ci viene spiegato che le tecniche agricole, l'allevamento, la ceramica, la tessitura, la metallurgia, provengono tutte quante da quel periodo, insieme ai primi agglomerati urbani, vere e proprie piccole città ben organizzate socialmente e economicamente e ricche di testimonianze artistiche e religiose quasi sempre raffiguranti divinità femminili o animali.

Però quando gli stessi libri cominciano a parlare delle prime "civiltà" allora si saltano migliaia di anni e si arriva velocemente a quelle dei Sumeri (3.000 a.C.), o dei Babilonesi (2.000 a.C.), tutte civiltà "guerriere", derivanti da guerre e invasioni che si succedettero incessantemente per migliaia di anni. Insieme ad altre come quella egizia o greca, sempre caratterizzate da divinità principalmente maschili, queste grandi civiltà del passato sembrano avere, loro sole, gettato le basi per le civiltà moderne come quella occidentale. Guerre e invasioni vengono presentate come ineluttabili mentre non ci si sofferma mai sul fatto che non ci siano testimonianze di grandi guerre nel periodo precedente. Unica eccezione, in questa fioritura di civiltà guerriere, quella cretese-minoica (XXIX-XV sec. a.C.), una civiltà pacifica, senza fortificazioni intorno alle città, una società operosa, raffinata, paritaria fra i sessi, dedita all'arte, all'amore per la vita e alla celebrazione del principio femminile e del sacro nella natura.

La civiltà minoica era ciò che rimaneva di un'antica civiltà ormai scomparsa, la civiltà dell'Antica Europa, la civiltà dei nostri antenati, le nostre radici. Una civiltà ugualitaria-mutuale sostituita spesso con la violenza e la sopraffazione da quella gerarchico-dominatrice che ancora caratterizza la società odierna. Ma come vedremo non tutto è andato ancora perduto.

Cosa sappiamo noi, per esempio, delle varie tribù, tra cui in Italia quelle villanoviane, che nelle epoche successive del bronzo o del ferro, popolarono l'Italia e l'Europa in genere e della loro visione del mondo? Molto poco.

Normalmente la maggior parte degli archeologi fanno esaustive quanto fredde esposizioni dei loro ritrovamenti e difficilmente alle popolazioni e alle società neolitiche che pure perdurarono per migliaia di anni, viene riconosciuta la giusta importanza nella storia e nell'evoluzione della società umana. Forse perché queste società agricole, pacifiche e ugualitarie che vivevano in un rapporto di simbiosi sacra con la natura rappresentarono qualcosa di troppo diverso dalla società attuale che tende ad annullare le differenze e perdurare in un'ottica di controllo sia degli esseri umani che della natura solo a favore di pochi?

Sembra difficile accettare questa tesi, però la si può intuire solamente pensando all'accanimento messo nel medioevo, da una società ormai dichiaratamente maschile, contro le donne -le cosiddette streghe- che ancora erano portatrici di una cultura diversa, retaggio delle antichissime tradizioni basate principalmente sull'armonia e rispetto per Madre Terra.

Al giorno d'oggi se vogliamo sentire un popolo parlare della sacralità della Terra e del rispetto dovutogli dobbiamo rifarci, per esempio, alle parole dei nativi americani che però non sono i nostri antenati e non parlano delle nostre terre, dei nostri miti e leggende e non rappresentano le nostre radici tribali.

E chi pensa invece, per esempio, ai santuari legati al culto dell'acqua e alle divinità ad essa collegate che in tutta Italia si costruivano ancora in epoca etrusca nell'ultimo millennio a. C. o agli sciamani delle tribù dell'Europa del Nord che ancora in tutto il primo millennio d. C. popolavano le immense foreste germaniche o scandinave? Questi popoli della foresta, anche se ormai popoli guerrieri come gli etruschi, mantenevano ancora una visione del mondo ben diversa dall'attuale e legata anch'essa al rispetto della natura, alla sacralità della Madre Terra, alla tradizione neolitica.

Ormai nel 2000 d.C., dopo circa mille anni, e non sono neanche tanti, i movimenti femministi, pacifisti e ecologisti di tutto il mondo cosiddetto "civile", stanno recuperando l'antica saggezza. torna al sommario ^



Il bioregionalismo e la crisi del pianeta


«Il concetto bioregionale può essere descritto come la visione di una società umana connessa alla geografia della terra, come parte integrante della trama della vita, come il vivere e il lavorare nel rispetto dei ritmi e dei cicli naturali di luoghi specifici. Questi luoghi sono le bioregioni. La terra stessa è organizzata in bioregioni, territori omogenei definiti per continuità di paesaggio, di clima o di suoli, oppure dall'interezza di un bacino fluviale, o dall'areale di piante e animali nativi, ma pure da culture umane che in quel posto hanno saputo evolversi in senso di reciprocità con l'ambiente circostante. Principalmente l'idea bioregionale ci permette di vedere e affrontare i problemi sociali e ambientali da un altro punto di vista. Essa considera il luogo in cui si vive, la propria bioregione, non più come una entità materiale da sfruttare, per l'esclusivo benessere dell'uomo, ma piuttosto come un insieme di esseri e relazioni».

Giuseppe Moretti, Rete Bioregionale Italiana.

In questo fine millennio sia la società capitalistica, sia ciò che rimane della società del cosiddetto "socialismo reale", sia le società percorse da movimenti a carattere religioso-integralista, stanno mettendo terribilmente in luce tutti i loro limiti ambientali, sociali e economici. Il pericolo planetario di una catastrofe nucleare, la guerra, l'inquinamento, l'ingiustizia sociale, sono solo tra i più eclatanti aspetti che stanno lì ad incrinare profondamente il mito di dominio e di sviluppo che sembrerebbe abbia sempre guidato queste società di tipo gerarchico-dominatore nei loro pensieri e nelle loro azioni.

Ma nella storia degli esseri umani e in particolare in Europa, le cose sono andate sempre così? È proprio un destino intrinseco delle società umane, dalle più semplici alle più complesse, generare aggressività violenza e dominio nei confronti degli esseri umani stessi e della natura? E cosa possono rappresentare attualmente movimenti alternativi ecologisti come il bioregionalismo o anche il movimento per la pace o il femminismo, rispetto allo spiegamento di forze culturali e materiali messe in campo dalle società dominanti per mantenere invariata la loro supremazia?

Per cercare una risposta a questi interrogativi e ritrovare le nostre antiche radici europee, insieme alla saggezza dei nostri antenati nativi, ecco quella che a prima vista potrebbe sembrare solamente una bella storia ma che potrebbe servirci per dare un nuovo significato alla nostra vita…

«Rivolgiamo il nostro ringraziamento alla terra
che ci dona la nostra casa.
Rivolgiamo il nostro ringraziamento ai fiumi e ai laghi
che ci donano le loro acque.
Rivolgiamo il nostro ringraziamento agli alberi
che ci donano frutti e noci.
Rivolgiamo il nostro ringraziamento al sole
che ci dona calore e luce.
Tutti gli esseri sulla terra: gli alberi, gli animali,
il vento e i fiumi si donano l'un l'altro
così tutto è in equilibrio.
Rivolgiamo la nostra promessa di iniziare
a imparare come stare in armonia
con tutta la terra
».

Dolores La Cappelle, da Earth Prayers, 1991. torna al sommario ^



L'Antica Europa e il culto della Dea: quando Dio era una donna


C'era una volta una civiltà basata su valori come il legame con la terra e la natura, l'equilibrio ecologico, la pace, l'amore, la non violenza, l'uguaglianza fra i sessi, la parità sociale e la spiritualità, una civiltà dove il profitto e il progresso tecnologico erano investiti nel benessere comune, nelle arti e nel godimento della vita. Le città, prive di fortificazioni, erano costruite in base alla bellezza dei luoghi e alla ricchezza delle risorse naturali locali. Il principio comune era l'amore per la vita in tutte le sue manifestazioni animate e inanimate. Immaginate una società che non conosceva la guerra, almeno non nel senso comune che oggi le viene dato.

La profonda osservazione della natura nei suoi processi ciclici e legati alla fertilità delle donne, degli animali e delle piante, il porsi domande sull'origine della vita e il significato della morte, portò le genti di questa civiltà a immaginare l'universo come una madre onnidispensatrice nel cui grembo ha origine ogni forma di vita e nel cui grembo, come nei cicli della vegetazione, tutto ritorna dopo la morte per poi rinascere. La religione di questa civiltà, di tipo matrilineare, fu quindi quella della Dea Madre, del principio femminile, del rispetto e considerazione delle donne, sacerdotesse e capi clan. La Dea aveva il potere di donare e sostenere la vita, quanto di portare la morte ma anche la rinascita.

Il principio maschile aveva anche la sua importanza ed era rappresentato dal figlio/amante della Dea; la loro unione era simboleggiata dal rito del "matrimonio sacro". Alla mascolinità era quindi associata, tra l'altro, l'energia della Terra e lo spirito selvatico della natura e gli sciamani erano coloro capaci di entrare in contatto con queste forze per operare rituali sacri e guarigioni.

Non stiamo raccontando una bella favola ecologista ma approfonditi studi archeologici sulla civiltà agricola neolitica dell'Antica Europa pre-indoeuropea come è stata definita dall'archeologa lituana Marjia Gimbutas (Europa centro meridionale, balcanica, bacino del mediterraneo). Una civiltà che con i limiti e imperfezioni immaginabili per quel tempo così lontano dai nostri giorni, vide i suoi albori all'inizio del Paleolitico superiore, circa 40.000 anni fa, con la comparsa dell'Homo sapiens sapiens e delle prime pitture rupestri, per poi fiorire verso il 7.000 a.C. e perdurare ininterrotta per circa 3.500 anni. In seguito l'evoluzione sociale e spirituale di questa civiltà fu interrotta dalle invasioni di violente popolazioni guerriere nomadi dedite alla pastorizia, provenienti inizialmente dalle fredde steppe caucasiche dell'Est europeo e in seguito da tutta l'Europa orientale e dai deserti dell'Asia Minore, come per esempio le antiche tribù ebraiche guidate dai loro sacerdoti-guerrieri. Queste genti, con una struttura sociale patriarcale, adoratrici di bellicose divinità maschili e delle armi, lentamente ma inesorabilmente travolsero anche con massacri e distruzioni le pacifiche popolazioni locali. Nella protetta isola di Creta questa antica civiltà, chiamata localmente Minoica, iniziata più tardi rispetto al continente, circa verso il 3000 a.C., perdurò fino a circa il 1500 a.C.

Tra i principali centri della civiltà dell'Antica Europa, vere e proprie città con una tuttora invidiabile organizzazione e influenza socio-culturale, ricordiamo †atal Hòyòk e Hacilar (nell'attuale Turchia), Vin¹a (Yugoslavia), Cucuteni (Romania), Gerico (Palestina) e la più conosciuta Cnosso (Creta). L'Isola di Creta fu forse l'ultimo luogo sul pianeta dove si celebrò l'armonia tra gli uomini e le donne.

In seguito varie popolazioni europee come i greci (che parlavano sempre di una mitica "Età dell'oro"), gli etruschi, i celti e le popolazioni nordiche in generale, presero molti spunti dalla civiltà neolitica dell'Antica Europa. L'antica religione della Dea Madre non fu mai del tutto soffocata ma alla società di tipo ugualitario-mutuale che celebrava la vita e la natura, se ne sostituì gradualmente un'altra di tipo gerarchico-dominatore basata sulla violenza e la sopraffazione che vide innanzi tutto la supremazia degli uomini sulle donne e sulla natura e che ancora caratterizza principalmente le grandi società organizzate moderne come quella occidentale. torna al sommario ^



Marija Gimbutas e la visione universale della cultura della Grande Dea


Queste nostre riflessioni derivano principalmente dagli studi di Marija Gimbutas autrice del libro: Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea Madre nell'Europa Neolitica, di cui riportiamo un passo essenziale:

«La celebrazione della vita è il motivo dominante nella ideologia dell'arte dell'Antica Europa [...]. La Dea era, in tutte le sue manifestazioni, il simbolo dell'unità di tutte le forme di vita esistenti nella natura. Il suo potere era nell'acqua e nella pietra, nella tomba e nella caverna, negli animali e negli uccelli, nei serpenti e nei pesci, nelle colline, negli alberi e nei fiori. Di qui la percezione mistica e mitopoietica della santità e del mistero di tutto quanto è sulla Terra.

Quella cultura si deliziò dei prodigi naturali di questo mondo. Il suo popolo non produsse armi letali, né costruì fortificazioni in luoghi inaccessibili, come avrebbero fatto i successori, anche quando conobbe la metallurgia. Invece costruì magnifiche tombe-santuari e templi, comode abitazioni in villaggi di modeste dimensioni e creò ceramiche e sculture superbe. Fu quello un lungo periodo di notevole creatività e stabilità, un'epoca priva di conflitti. La cultura di quel popolo fu una cultura dell'arte.

Le immagini e i simboli derivanti dalle ampie testimonianze archeologiche di quel mondo antico affermano che la cultura della Grande Dea1 partenogenetica dominò in Europa per tutto il Paleolitico e il Neolitico e nell'Europa mediterranea per la maggior parte dell'Età del Bronzo. La fase seguente, quella degli dei guerrieri, pastorali e patriarcali, che o soppiantarono o assimilarono il pantheon delle dee e degli dei, rappresentò una fase intermedia prima dell'era cristiana e del diffondersi del rifiuto filosofico di questo mondo. Si sviluppò un pregiudizio contro questa mondanità e con questo la ripulsa della Dea e di tutto quello che aveva significato.

La Dea gradualmente si ritirò nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, e lì sopravvisse fino ai nostri giorni nelle credenze e nelle fiabe. Seguì l'alienazione dell'uomo dalle radici vitali della vita terrena, e i risultati sono ben evidenti nella società contemporanea. Ma i cicli storici non si fermano mai, ed ora vediamo riemergere la Dea dalle foreste e dalle montagne, recandoci speranza per il futuro, e riportandoci alle nostre più antiche radici umane».

Prière
Tant que les animaux
auront de quoi manger
et que tous les ruisseaux
pourront chanter
nous serons les amants
de notre Mère Terre
les forêts nous protègerons
l'hiver.
L'amour est si sacré
comme l'eau et la terre
les hommes et les fleurs
sont frères et soeurs.
Une loi nous unit
c'est le cosmos qui vit
harmonie des couleurs
paix dans mon coeur.

Preghiera
Fino a quando gli animali
avranno da mangiare
e tutti i ruscelli
potranno cantare
saremo gli amanti
della nostra Madre Terra
le foreste ci proteggeranno
l'inverno.
L'amore è così sacro
come l'acqua e la terra
gli uomini e i fiori
sono fratelli e sorelle.
Una legge ci unisce
è il cosmo che vive
armonia dei colori
pace nel mio cuore.

Jacqueline Fassero, da: La Danza della Terratorna al sommario ^



Immagini e simboli dell'Antica Europa



1) Statuetta di terracotta rappresentante la Dea delle acquee degli animali (Boezia, Grecia centrale, 700 a.C.). Il motivo a rete, fondamentale nelle raffigurazioni del Paleolitico Superiore e nel Neolitico dell'Antica Europa e in epoche successive, doveva essere un simbolo dell'acqua della vita e sottolineava il potere della Dea di dare la vita.




2) La Dea Uccello, protettrice della famiglia, dispensatrice e sostenitrice della vita. Vita, morte e rinascita, la Dea possiede l'energia cosmica dinamica rappresentata dalla linea tripla. Il triangolo, simbolo della Dea Uccello sin dal Paleolitico Superiore, ha il significato di fertilità. (Terracotta – Tessaglia, Grecia, inizio V millennio a.C.)




3) Urna funeraria a forma di civetta – simbolo di morte. Viso e seni sono caratteristici della Dea Civetta. La vulva simboleggia il fatto che vita, morte e resurrezione sono inseparatamente unite. Nella preistoria la civetta aveva anche qualità positive: profonda saggezza, poteri profetici e capacità di allontanare il male. La sua vista acuta faceva sì che i suoi occhi fossero considerati sacri. (Terracotta, isola di Lemnos, Grecia, 3000-2500 a.C.)



4) Estensione approssimativa della prima civiltà europea denominata "Antica Europa" (7000-3500 a.C.). L'Europa sud-orientale (linea continua) fu il centro di questa civiltà la cui espansione culturale, prima delle invasioni indoeuropee, arrivò a comprendere quasi l'intero continente (linea tratteggiata).
(Fonte: Marja Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Ed. Neri Pozza, Milano, 1989). torna al sommario ^



Che cosa ci insegnano a scuola?


Da Riane Eisler, autrice del libro: Il Calice e la Spada. La nascita del predominio maschile, ci arriva una importante riflessione sul fatto che dopo la caduta della civiltà dell'Antica Europa vennero alla luce le società, come quella greca, che vengono celebrate nei libri di testo delle scuole e delle università come capostipiti della società occidentale. Ma queste società riflettevano ormai un modello sociale di tipo gerarchico-dominatore e patriarcale dove non solo la Dea ma la metà femminile dell'umanità, le donne, e i più deboli in genere dovevano essere sottomessi, al contrario del precedente modello sociale ugualitario-mutuale. In quest'ultimo il potere era visto come responsabilità -la responsabilità che ha la madre verso il proprio figlio- e non come dominio e la tecnologia veniva usata per aumentare il benessere comune e non per conquistare e dominare sia gli altri simili che la natura.

Il poeta americano Gary Snyder ha sempre affermato di voler recuperare nella sua poesia i valori del tardo Paleolitico, tra cui la fertilità della terra, la magia degli animali e anche il lavoro comune della tribù. Snyder in una sua intervista intitolata: La grana delle cose, sostiene che il periodo neolitico, durato migliaia di anni, fu un periodo di profonda stabilità, benessere e vitalità per la razza umana, un periodo in cui si impostarono le basi materiali e spirituali della civiltà occidentale.

Thomas Berry, gesuita, ecoteologo e bioregionalista si spinge ancora più indietro nel tempo ricordando che fu verso la fine dell'Era Cenozoica, diversi milioni di anni fa, quando l'evoluzione naturale aveva portato il pianeta alla sua più splendida espressione, che si palesarono le condizioni per la nascita del genere umano. Fu proprio in un mondo di grandiosa bellezza che il modo di vivere dell'uomo poté svilupparsi pienamente fino a percepire il divino nella sua partecipazione al mistero della vita. La storia del pianeta e del suo evolversi nell'universo, afferma ancora Berry, è la nostra vera storia sacra e la consapevolezza di ciò la vera rivelazione. Come i nostri antenati paleolitici e neolitici dobbiamo ritornare a sapere ascoltare ciò che la Terra può insegnarci. È questo che in un suo bellissimo libro: The Dream of the Earth, Berry ha definito come il sogno della Terra.

Ritornando al neolitico, Riane Eisler afferma che l'agricoltura, l'allevamento, la tessitura, la ceramica, la scrittura sono tutte una eredità di quel periodo e sicuramente inventate dalle donne. Infatti, già nel Paleolitico, mentre gli uomini andavano a caccia, le donne si occupavano dei figli e della tribù stessa, all'inizio tramite la raccolta del cibo e la realizzazione dei primi contenitori e infine, dal neolitico in poi, specializzandosi sempre di più nei mestieri, fino a che, con l'arrivo del benessere materiale, fiorirono anche le arti. Anche concetti come, per esempio, uguaglianza, saggezza, giustizia erano associate a quel tempo alla femminilità. La stessa "democrazia" greca può essere considerata come un retaggio dello stile di vita della società neolitica dell'Antica Europa.

Anche la scienza moderna ci fa ricordare la visione neolitica dell'unità di tutte le cose grazie alla Teoria di Gaia (la Terra, pianeta vivente), da uno dei nomi dati dai Greci alla Dea. La teoria, formulata dal biochimico inglese James Lovelock negli anni '70, afferma che tutte le forme di vita sulla terra assieme all'atmosfera, oceani e suolo formano un sistema vitale complesso e interdipendente.

A questo punto possiamo capire come l'unità con la natura, cardine fondamentale del culto della Grande Dea dell'Antica Europa, dovrebbe ancora oggi soddisfare la ricerca di spiritualità che invece porta tanti occidentali ad allontanarsi dalle loro radici più profonde per avvicinarsi, per esempio, alla spiritualità orientale come quella buddista o alle culture dei nativi americani, spesso in modo superficiale o, peggio ancora, consumistico. torna al sommario ^



Androcrazia e Gilania



L'attuale modello sociale di tipo dominatore-patriarcale che ormai governa da migliaia di anni gran parte del pianeta ebbe in passato, oltre le armi, un altro mezzo altrettanto potente per affermarsi e ridurre sempre di più il potere della Dea e di conseguenza quello delle donne per arrivare alla loro sottomissione. Questo avvenne tramite la creazione di nuove leggende, nuovi miti, nuove storie sacre che soprattutto con l'avvento della scrittura furono tramandate e imposte con tutti i mezzi, spirituali e materiali. Non è possibile in questa sede affrontare in modo esaustivo questo argomento, basti però ricordare che in diversi miti mediorientali la Dea fu uccisa, umiliata con uno stupro o divenne moglie di un dio maschile, in Grecia la dea uccello europea divenne una divinità guerriera (Atena), fino ad arrivare alla Bibbia dove la Dea non è più neanche nominata e l'unica divinità presente è maschile.

Riane Eisler fa notare che la trasformazione della realtà fra sistema mutuale e sistema dominatore è stata così radicale che perfino le complesse lingue moderne non comprendono parole che possano chiarire immediatamente la differenza fra i due sistemi. La Eisler, mentre propone di continuare a definire il sistema dominatore, basato sulla forza dell'uomo, come una androcrazia, dalle parole greche andros, "uomo" e kratos, "governato", per definire l'unica alternativa alla supremazia di una parte dell'umanità sull'altra propone il neologismo gilania, dalle parole greche gynè, "donna" e andros, "uomo". La lettera l tra i due ha il duplice significato di unione, dal verbo inglese to link, "unire" e dal verbo greco lyein o lyo che significa "sciogliere" o "liberare" e cioè la liberazione delle due metà dell'umanità dalle rigide gerarchie di dominio imposte dai sistemi androcratici. torna al sommario ^



Dalla Teoria del Caos una nuova speranza


La consapevolezza che il sistema attuale, il quale sembra ci stia portando inesorabilmente verso la catastrofe, non è stato dettato né da Dio, né da qualche legge naturale inesorabile ma solo da un modello di società di tipo dominatore che sostituì circa 5.000 anni fa l'altro di tipo mutuale, fa pensare che la storia potrebbe ancora invertirsi.

Sempre Riane Eisler spiega questa possibilità basandosi sulla Teoria del Caos. Come per i sistemi naturali sembra che anche per quelli sociali si possa pensare a punti di biforcazione (prendere una via anzichè un'altra) causati da periodi di crisi e controllati dai cosiddetti attrattori dinamici e dai loro possibili effetti replicativi.

Dunque circa 5.000 anni fa le invasioni dei pastori guerrieri indoeuropei misero in crisi la società agricola neolitica sedentaria, amante della pace e impreparata a questo evento che perdurò per circa 1.500 anni e che incominciò in sordina con poche bande nomadi armate -gli attrattori- prima di travolgere completamente le popolazioni locali con un disastroso effetto replicativo.

La Eisler analizzando gli ultimi duemila anni di storia del mondo occidentale e partendo quindi da una società in cui ormai della Dea vi era solo un pallido ricordo, dove le donne avevano perso completamente il loro potere e il modello sociale dominatore era ormai da tempo affermato, trova diversi momenti storici in cui importanti movimenti sociali si sono comportati come attrattori dinamici questa volta indirizzati verso il ritorno dal sistema androcratico a quello gilanico. Gesù e il primo Cristianesimo fino a circa il II sec. d. C., i Trovatori nel XII sec., il Rinascimento nel XV e XVI sec., l'Illuminismo nel XVII e XVIII sec., il primo movimento femminista del XIX sec. e attualmente ancora il movimento femminista (peraltro l'unico movimento ad andare veramente al cuore del problema, la liberazione delle donne dal dominio maschile), il pacifismo e l'ambientalismo (insieme al bioregionalismo e al movimento dell'ecologia profonda, aggiungiamo noi). In tutti questi movimenti la donna ha sempre ritrovato la sua dignità fino alla prevalenza di valori cosiddetti dolci, come amore, compassione e responsabilità, in genere associati alla femminilità (caratterizzanti per esempio la figura di Gesù), su quelli cosiddetti duri, come la forza e l'assenza di emozioni in genere associati alla mascolinità.

Molte volte nella storia queste spinte gilaniche sono state purtroppo totalmente o parzialmente riassorbite dal sistema androcratico ma l'attuale crescente numero di donne e uomini che si impegnano per la pace, l'ambiente, la giustizia e l'uguaglianza sociale fa sperare che, secondo le leggi del caos, avvenga la replicazione su vasta scala di queste idee.

Vista la crisi ambientale, sociale ed economica del pianeta, che specialmente nelle società di tipo occidentale è una profonda crisi psicologica e spirituale, possiamo credere di essere oggi in presenza di un nuovo punto di biforcazione e quindi nella possibilità dell'affermarsi di un nuovo sistema sociale egualitario e mutuale, una nuova scienza olistica, una nuova spiritualità. Dalla competizione si dovrà passare alla cooperazione, dalla conquista all'armonia con la natura, dal potere come gerarchia di dominio, al potere come unione e responsabilità, risvegliando in noi, anche tramite la creazione di nuovi miti e nuovi rituali sacri, quel sentimento di gratitudine e di esaltazione della vita così evidenti nelle vestigia artistiche del neolitico dell'Antica Europa.


Dea Divina Madre Natura,
che generi tutte le cose,
nutri la vita e riporti di nuovo il sole
[...]
Custode del cielo e del mare [...]

(antica preghiera alla Dea) torna al sommario ^



Antichi Popoli delle Foreste: Dalla Germania alla Bioregione della Bassa Valle del Tevere



Una volta terminata l'Età Neolitica e Eneolitica o Età del Rame (dal 7000 al 2000 a.C., -datazioni riferite anche in seguito all'area europea) e affermatosi il nuovo sistema, le antiche idee non scomparsero del tutto. Nell'Età del Bronzo (2000-700 a.C.) e nell'Età del Ferro (700 a.C.-fine I sec. d.C.), successive integrazioni tra invasori e sconfitti portarono sempre ad una parziale ma importante salvaguardia della saggezza neolitica. Abbiamo già accennato alla società cretese e agli influssi sul mondo greco e vediamo anche che ancora verso la metà del primo millennio a.C., la società etrusca era paritaria nei rapporti tra uomini e donne e possedeva un profondo rapporto sacro con la natura.

In Europa nei territori non raggiunti dalle legioni dell'Impero Romano come Scandinavia, Germania centrosettentrionale e parti della Britannia, l'Età del Ferro continuò per tutta l'epoca romana e oltre e con essa il modello di società tribale basato sull'idea di una interconnessione di tutti gli aspetti della realtà e sulla sacralità della natura, animali, acque, foreste, pozzi, pietre… (queste a mio avviso sono le radici profonde della moderna teoria sulle reti ecologiche).

Brian Bates, psicologo e antropologo inglese, autore del libro La sapienza di Avalon, racconta dei nostri antichi antenati tribali del Nord Europa, i popoli della foresta, e della loro profonda consapevolezza ecologica. Le sue ricerche si basano fortunatamente su testi scritti da osservatori romani come Tacito o da monaci cristiani che nell'Alto medioevo andarono a convertire i cosiddetti pagani. Verso l'anno 1000, l'opera di conversione era terminata, agli sciamani si sostituirono i sacerdoti cristiani, i boschi sacri furono tagliati e sopra di essi costruite chiese. I resoconti, i riti sacri in onore degli astri e della fertilità della terra, i miti e le leggende di questi popoli tribali, non così lontani da noi nel tempo, ci fanno comprendere quanto l'eredità della saggezza neolitica sia ancora alla nostra portata di mano.

Ovviamente nella stesura di questo testo mi sono spesso domandato cosa succedesse proprio nella regione dove io vivo, che chiamo la Bioregione della Bassa Valle del Tevere. Sono riuscito a trovare molte informazioni sul succedersi di popolazioni preistoriche che dal Paleolitico Superiore popolarono questo territorio, fino alle popolazioni e culture villanoviane e appenniniche dell'Età del Bronzo che diedero vita, tra l'altro, alle genti sabine, latine, falische e etrusche e infine al popolo romano. Ovviamente è stato molto difficile sapere di più che il solito elenco di ritrovamenti di resti archeologici, anche se qua e là affiorano notizie importanti come quella di santuari legati al culto delle acque nella zona delle cascate del fiume Aniene vicino alla città di Tivoli. Le notizie sicuramente ci sono ma sono anche frammentate e prive di una visione d'insieme che le ricolleghi alla civiltà dell'Antica Europa neolitica.

La brevità di questo testo non permette per il momento un maggiore approfondimento di un argomento così significativo, ma poco tempo fa un piccolo opuscolo dal titolo: La cultura appenninica a Mentana, a cura di un gruppo archeologico locale, ha molto colpito la mia attenzione. Ecco raccontato come vivevano, nelle foreste vicine a dove abito, che si estendevano nella pianura e nelle colline tra i fiumi Tevere e Aniene, intorno al 1500-1000 a.C., le popolazioni della media Età del Bronzo, antichi agricoltori. Aratri di pietra, allevamenti di pecore e capre, raccolta di frutti selvatici, ceramica2, capanne e anche cerbottane, archi, orsi, cervi, lupi, buoi selvatici insieme a resti di strumenti musicali e tanti altri particolari della vita quotidiana di queste tribù, mi hanno fatto sognare e ricollegare idealmente con i miei antenati.

Attualmente ciò che rimane delle grandi foreste locali di un tempo è stato comunque preservato per sempre grazie alla istituzione di due riserve naturali. Un riconoscimento dell'importanza naturalistica e della sacralità di questi luoghi, così significativi per la tutela dell'ambiente e per la memoria locale.

Preghiera per la grande famiglia
Gratitudine sia alla Madre Terra, che naviga attraverso
notte e giorno e al suo terreno: ricco, dolce, e raro
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine alle Piante, la foglia che guarda nel sole e trasforma
la luce e i peli esili delle radici; salde e ferme al vento e all'acqua;
la loro danza è dentro la spirale, nella grana che scorre
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine all'Aria, portatrice del volo del Rondone e del tacito
Gufo all'aurora. Respiro della nostra canzone
brezza di spirito chiaro
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine agli Esseri selvatici, nostri fratelli, maestri
che ci insegnano i segreti, le libertà, le vie; che fanno parte a noi
del loro latte; in sé compiuti, coraggiosi e vigili
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine all'Acqua, nuvole, laghi, fiumi e ghiacciai;
trattenuta o fluente; che in tutti i nostri corpi fa trascorrere
mari che sanno di sale
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine al Sole, che acceca, che palpita luce attraverso
i tronchi degli alberi, attraverso foschie, scaldando le caverne
dove dormono orsi e serpenti –colui che ci sveglia–
che nella nostra mente sia così.
Gratitudine sia all'Immenso Cielo
che contiene miliardi di stelle –e va ancora al di là–
di là da qualsiasi potere e pensiero
eppure è dentro di noi –
nostro Avo lo Spazio
La Mente è sua Moglie.
sia così.

(Gary Snyder, da una preghiera Mohawk) torna al sommario ^



Un antico futuro: il ritorno ad una società gilanica


Appare dunque chiaro che ritornare ad una società mutuale, gilanica non significa il ritorno all'età della pietra, nessuno vuole negare e rinunciare, per esempio alle conquiste tecnologiche della civiltà moderna, sempre che queste siano usate per la pace e il benessere comune e non per guerre, distruzione e dominio. Quindi dato che non è possibile tornare indietro come possiamo andare avanti?

Ancora Riane Eisler ci illumina con le sue parole:

«Il riallacciarsi alla precedente tradizione spirituale del culto della Dea, collegata al modello mutuale della società, è più che una riaffermazione della dignità e del valore di una metà dell'umanità. E non è soltanto un modo di raffigurare i poteri che regolano l'universo di gran lunga più sereno e rassicurante. Ci offre anche un sostituto positivo dei miti e delle immagini che per tanto tempo hanno manifestamente falsificato i più elementari rapporti umani, dando più valore all'assassinio e allo sfruttamento che alla nascita e allo sviluppo».
Abbiamo visto come circa 5.000 anni fa scomparve la civiltà dell'Antica Europa, pacifica, egualitaria e centrata sulla terra e come l'evoluzione sociale e spirituale delle sue genti fosse bruscamente interrotta. Ma ora sappiamo che il sogno ecologista di una società alternativa a quella attuale che vede nel bioregionalismo -vivere in un luogo in armonia con la natura- una delle sue migliori espressioni, affonda le sue radici nel neolitico europeo ed è già stata una realtà. Questa consapevolezza, una vera e propria impronta nella psiche umana lasciata dai nostri antenati nativi e tribali di quel lontano periodo, continua ancora ad affiorare nei nostri sogni, miti e archetipi e ci può dare la forza per cercare di riportare sul pianeta, quanto nel luogo in cui viviamo, spiritualità ecologica, amore, pace, giustizia sociale e equilibrio ambientale, in armonia con le energie creatrici della natura. torna al sommario ^



Appendice 1


Proclamazione delle quattro cose sacre


La Terra è un corpo vivo e cosciente. Come tante altre civiltà di tempi e di luoghi diversi dal nostro, proclamiamo Sacre queste quattro cose: Aria, Fuoco, Acqua e Terra.

Indipendentemente dal vederle come respiro, energia, sangue e corpo della Madre Terra, oppure come doni all'umanità fatti da un Creatore, o come simbolo dei sistemi interconnessi che reggono la vita sul pianeta, sappiamo che nulla può vivere senza di esse.

Chiamare Sacre queste Cose è come dire che hanno valore di per sé, al di là della loro importanza per l'uomo, e che esse stesse assurgono a valori su cui misurare le nostre azioni, la nostra economia, le nostre leggi e le finalità da noi perseguite. Nessuno ha il diritto d'impadronirsene o di sfruttarle egoisticamente. Qualsiasi governo che non sappia proteggerle diviene di per se stesso illegittimo.

Ogni persona, ogni essere vivente sono una parte della vita della Terra, e perciò sono sacri. Nessuno di noi è superiore o inferiore ad un altro. Solo la giustizia può assicurare l'equilibrio, solo l'equilibrio ecologico può mantenere la libertà. Solo nella libertà la Quinta Cosa Sacra che chiamiamo Spirito può fiorire fino a raggiungere la sua più ampia diversificazione.

Onorare ciò che è sacro consiste nel creare le condizioni in cui prosperino nutrimento, sostegno, habitat, conoscenza, libertà e bellezza. Onorare il sacro consiste nel rendere possibile l'amore.

A questo ci impegnamo a dedicare la nostra curiosità, la nostra volontà, il nostro coraggio, il nostro silenzio e la nostra voce. A questo dedichiamo la nostra vita.

(Starhawk, da: La Quinta Cosa Sacra). torna al sommario ^



Appendice 2


Ecologia profonda e bioregionalismo


«Tutti gli umani una volta erano poeti.
Sognatori insieme e nella Terra.
Dobbiamo ritrovare la consapevolezza antica,
dobbiamo tornare ad essere ciò che eravamo
».

(Barbara Mor)

Il filosofo cinese Lao-tsu (VI sec. a.C.) ha affermato che non abbiamo bisogno di una grande crescita bensì di una grande visione e di semplicità. Ebbene secondo noi, come ecologisti, la grande visione è rappresentata dall'ecologia profonda, la "deep ecology" del filosofo norvegese Arne Naess. L'ecologia profonda sostiene la centralità della natura, della Madre Terra e non più dell'uomo, ossia la pari dignità tra montagne, fiumi, mari, piante, animali e esseri umani. Questa consapevolezza deve portarci a riprendere coscienza di essere solo una parte del complesso mondo naturale e riscoprire il lato selvatico della nostra mente. L'ecologia profonda non afferma però nessuna novità ma parte dai saperi tradizionali popolari (per esempio l'antica saggezza dei nativi americani o degli aborigeni australiani) e dalle dimensioni spirituali dei popoli occidentali e orientali.

Se l'ecologia profonda è la grande visione, la semplicità di cui parla Lao-tsu può allora essere quella che è stata definita la sua applicazione pratica, il bioregionalismo.

Vivere in un luogo, chiederci chi siamo, dove siamo, praticare una vita ecologista nei suoi riflessi sociali, politici ed economici all'interno di una comunità locale ma anche a casa propria, con i propri cari, al lavoro, in ufficio, in ogni momento (the real work -il lavoro reale, come è stato definito dal poeta americano Gary Snyder).

Il nostro luogo è la nostra bioregione, intesa come un organismo vivente definito da un'area dove prevale un'omogeneità di clima, geologia, suolo, vegetazione, fauna e vita umana dovuta a secoli e secoli di evoluzione morfologica, biologica e culturale.

Una bioregione può essere un bacino fluviale o una catena montuosa e le sue dimensioni possono variare a seconda delle condizioni naturali e culturali locali. Ognuno di noi vive all'interno di una bioregione, in una situazione che può essere sia rurale che urbana, e lo sforzo da fare è quello di ri-conoscerla, ri-trovarsi in essa come nella propria casa e di questa conoscere tutte le potenzialità e le risorse naturali, sociali e culturali, alla ricerca di un modo di vivere sostenibile e locale in armonia con le leggi della natura e con tutti gli esseri viventi. Peter Berg, uno dei fondatori del bioregionalismo, ha definito la bioregione come «tanto il terreno geografico quanto il terreno della coscienza».

Una società basata sui principi dell'ecologia profonda e del bioregionalismo, una società ecocentrica, non più antropocentrica, dovrebbe necessariamente partire da una condivisione di questi stessi principi da parte della maggioranza dei suoi componenti, donne e uomini. Ovviamente allo stato attuale delle cose in Italia, come nel resto del mondo, ciò rimane una grande utopia. Questa utopia che potremmo definire ecospirituale, possiede però una grande forza che scaturisce dal riproporre una saggezza antica, uno stile di vita che ha funzionato sul pianeta per migliaia di anni, dalle società dei cacciatori-raccoglitori dell'età della pietra e del neolitico fino ai nostri giorni (infatti funziona ancora con mille difficoltà tra le popolazioni tribali). Bioregionalismo significa semplicemente vivere in un luogo in armonia con la natura, saper celebrare la propria bioregione e i cicli naturali, sentirsi parte della trama della vita come insegna anche l'ecologia profonda.

Noi vogliamo recuperare l'antica consapevolezza delle popolazioni native e tribali e la vera dimensione spirituale dei popoli occidentali e orientali, affiancandole ad un uso cosciente della tecnologia al servizio dell'umanità e della natura per aiutare la vita a riprodursi e non più per dominare il mondo. Imparare a ri-abitare la Terra, il luogo dove viviamo, può servire per salvare noi stessi e la biosfera.

(Tratto da Gaia newsletter - documenti, n.2, 1995)


La Terra esprime se stessa non in territori omogenei
ma in varie regioni differenti l'un l'altra.
Abbiamo solo bisogno di ascoltare
ciò che la Terra ci sta dicendo.

(Thomas Berry) torna al sommario ^



Appendice 3


Documento d'intesa della Rete Bioregionale Italiana


La bioregione è un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie vegetali ed animali, di clima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto questo.

Per bioregionalismo si intende la volontà di ri-diventare nativi del proprio luogo, della propria bioregione. Possiamo fare tutte le scoperte possibili, usare la tecnica, la scienza; possiamo andare sulla luna e comunicare via satellite, ma alla base della nostra sopravvivenza fisica, psichica e spirituale vi sono questi alberi, queste erbe, questi animali, queste acque, questo suolo del luogo dove viviamo. L'evoluzione sociale e tecnologica è ecologicamente compatibile solo in "piccola scala", localmente, e se rimane ancorata ad una visione olistica del sapere.

L'idea bioregionale consiste essenzialmente nel riprendere il proprio ruolo all'interno della più ampia comunità di viventi e nell'agire come parte e non a parte di essa, correggendo i comportamenti indotti dall'affermarsi di un sistema economico e politico globale, che si è posto al di fuori delle leggi della natura e sta devastando, ad un tempo, la natura stessa e l'essere umano.

Il bioregionalismo si rifà ai principi ecocentrici, riconoscendo che l'equilibrio ecologico esige una profonda trasformazione nella percezione che abbiamo come esseri umani riguardo al nostro ruolo nell'ecosistema planetario. Questa consapevolezza non è qualcosa di completamente nuovo, ma affonda le sue radici negli antichi saperi popolari (nativi americani, aborigeni australiani, ecc.) e nelle grandi tradizioni spirituali occidentali e orientali.

Il modo più appropriato per iniziare a ri-abitare non è attraverso leggi o regolamenti imposti, ma ponendosi in prima persona in relazione al luogo in cui si vive: scoprendone i significati, gli scambi, individuandone i contorni, dedicandosi ad attività sostenibili con la propria bioregione.

Queste sono alcune delle prime cose da attuare e, in tale campo, siamo tutti apprendisti.

L'idea bioregionale punta ad inserirsi nelle pieghe della società; per riuscirci, diverse possono essere le modalità, i linguaggi e le forme, ma, al di là delle differenze, ciò che accomuna i bioregionalisti è la consapevolezza di essere parte interdipendente di un insieme senziente.

L'idea bioregionale è ispirata dai sistemi naturali selvatici; per sua natura, pertanto, si esprime attraverso la forma decentrata.

Nell'introdurre questo concetto, si richiede la sensibilità di esporlo in modo che ogni persona, gruppo o realtà sociale lo senta proprio e nel proprio luogo si organizzi per radicarlo.

(Rete Bioregionale Italiana, c/o Giuseppe Moretti, Via Bosco, 106, 46020 Portiolo – MN, e-mail: morettig@iol.ittorna al sommario ^



Appendice 4


L'altare della natura – un rituale bioregionale


I nativi americani usano il cerchio di pietra per insegnare i cicli e i segreti della natura. Oltre alle quattro stagioni, la divisione del cerchio può indicare i quattro punti cardinali, Nord, Est, Sud, Ovest, e anche l'acqua, l'aria, il fuoco, la terra e, al centro, lo spirito.

Ciascuno, in un angolo della sua casa, può creare con dei sassolini un piccolo cerchio di pietra e orientarlo verso il nord. Per completare il proprio altare della natura in ogni stagione si possono deporre accanto al cerchio degli oggetti naturali tipici di ciascun periodo come foglie, semi, fiori, frutti selvatici, erbe, e quant'altro si ritiene rappresentativo del luogo dove si vive. torna al sommario ^



Bibliografia


  • AA.VV, La Cultura Appenninica a Mentana, GAR Mentana.
  • AA.VV., Rete Bioregionale Italiana, La Terra Racconta - Il bioregionalismo e l'arte di disegnare le mappe locali (a cura di S. Panzarasa), Ed. AAM Terra Nuova, Borgo S. Lorenzo (FI), 1998.
  • Bates Brian, La sapienza di Avalon - Alle fonti del pensiero celtico, Ed. Rizzoli, Milano, 1998.
  • Bates Brian, La via del Wird - alla scoperta degli antichi segreti della spiritualità celtica, ed. Mandala/Rizzoli, Milano 1998.
  • Berry Thomas, Nello spirito dell'ecologia, in AAM Terra Nuova, luglio-agosto, 1997.
  • Berry Thomas, The Dream of the Earth, Sierra Club, USA, 1990.
  • Eisler Riane, Il Calice e la Spada - La nascita del predominio maschile, Ed. Pratiche, Parma, 1996.
  • Gimbutas Marja, Il linguaggio della Dea – Mito e culto della Dea madre nell'Europa neolitica, Ed. Neri Pozza, Milano, 1989.
  • La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1974.
  • Lovelock J.E., Gaia: manuale di medicina planetaria, Ed. Zanichelli, Bologna.1992.
  • Panzarasa Stefano, Un antico futuro - Le radici del bioregionalismo nella civiltà dell'Antica Europa, Lato Selvatico newsletter, n.7/19993.
  • Snyder Gary, La grana delle cose, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1987.
  • Travers Julienne, La donna prima del patriarcato, in Donne e ragazzi casalinghi, Estate 1998.
  • Starhawk, La quinta cosa sacra, Ed. TEA, Milano, 1996.
  • Tacito, La vita di Agricola - La Germania, BUR/Rizzoli, Milano, 1998.

Gaia newsletter
Via Piedimonte s.n.c., 00018 Palombara Sabina (RM)
Tel. 0774/634303
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Bioregione Bassa Valle del Tevere
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Note









 

 



 

martedì 6 novembre 2012

LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE

LA STORIA DELL'UOMO ATTRAVERSO L'ALIMENTAZIONE

Il complesso di forze naturali, sociali e culturali che hanno plasmato l'alimentazione dell'uomo nel corso dei millenni e gli incessanti tentativi individuali e collettivi posti in essere per procurarsi una dieta più abbondante e migliore hanno contribuito a orientare, talvolta in modo decisivo, seppure più spesso appena avvertibile o addirittura inconsapevole, il movimento complessivo della storia dell'uomo, perché il cibo è, che lo si voglia o no, storia.
Basta riflettere sulla condizione individuale e sociale di tutti gli esseri viventi, sulle variabili geometeorologiche dell'ambiente circostante, sulla irregolarità della ciclicità stagionale vegetazionale, sulla imprevedibile occasionalità della disponibilità di risorse nutrizionali per concludere che l'uomo, il più intelligente fra tutti gli esseri viventi, fin dalla più remota antichità ha dovuto esercitare uno sforzo adattivo continuo per superare la durezza dell'esocondizionamento alimentare individuale e approdare a una situazione di endosufficienza nutritiva collettiva, programmata e controllata.
Il lunghissimo processo evolutivo è partito dal primo ominide non più scimmia, assillato dalla sua terragna condizione di fame di milioni di anni fa, per approdare all'uomo ormai astronauta della opulenta società occidentale odierna, libera dai rischi di indisponibilità alimentare, miseria e fame. L'uomo è cioè passato dall'individuale e ancora animalesca quotidiana necessità di caccia a fini di sopravvivenza alla attuale agiata e sovrabbondante disponibilità di cibo, dalla monoassillante attività del cacciatore-raccoglitore preistorico alla creativa poliedricità occupazionale dell'uomo moderno, ormai libero dal primario condizionamento nutrizionale.
Ma per farlo ha dovuto trasformarsi da occasionale profittatore delle risorse alimentari naturali in produttore-programmatore di risorse alimentari industriali. Il passaggio dalla "naturalità" alla "industrialità" alimentare è stata possibile solo dagli sforzi dell'intelligenza umana, che ha fatto acquisire all'uomo una "scienza" dell'alimentazione che gli ha consentito di sviluppare una "tecnologia" alimentare via via sempre più articolata: è l'uso regolare di cibo "conservato" dalla tecnologia scientifica elaborata dall'uomo che ha potuto innescare il processo di civilizzazione umana, perché ha consentito all'uomo di dedicarsi ad altre attività creative e produttive. Senza cibi "conservati" l'uomo sarebbe ancora all'età della pietra: ecco perché la storia del cibo è storia dell'uomo.
Stabilire correlazioni fra le tante informazioni fornite in anni recenti dalle nuove discipline scientifiche nei campi dell'archeologia e antropologia, della biologia, ecologia, economia, tecnologia e zoologia, disperse in molte fonti, getta oggi una luce preziosa sul ruolo svolto dal cibo nei millenni, anche a partire dai tabù alimentari di origine religiosa, dall'influenza unificatrice del pasto familiare e dalle sfumature politiche dell'ospitalità, così come studiare i primordi della coltivazione delle piante e della domesticazione degli animali, gli ingredienti speciali usati nelle cucine delle civiltà antiche, le diete delle popolazioni nomadi e gli effetti del commercio delle spezie è utile ad aprire nuovi orizzonti di conoscenza su ciò che ha indotto nell'antichità un nuovo e diverso dinamismo nei popoli, ha elaborato i più antichi metodi di conservazione dei cibi e delle nuove tecniche speciali di cottura che questi richiedevano (TANNAHILL, p. 7).
Questi argomenti aprono stimolanti quesiti sul cibo, sulla nutrizione, sull'antropologia, sulla storia, sull'ecologia e su tutta un'altra vasta gamma di argomenti che questo libro si propone di introdurre, se non di colmare, sviluppando l'idea che la "conservazione" del cibo è stato il più potente fattore di civiltà e che, fra gli alimenti "conservati" di origine vegetale e animale, i salumi, con tutto il peso delle loro calorie indispensabili all'alimentazione umana, sono quelli che più degli altri hanno assolto con efficacia alla loro insospettata funzione di sorprendenti agenti di progresso e benessere.
Benché esistano relativamente poche informazioni precise sul mondo prima del 100.000 a.C., gli archeologi hanno riportato alla luce, nei loro scavi, utensili e residui di cibi che permettono di delineare, sia pure a grandi linee, un quadro essenziale della dieta dell'uomo preistorico. Essenziale, perché ciò che l'uomo mangiò durante i lunghi millenni del periodo paleolitico ebbe un'influenza fondamentale sulla rivoluzione neolitica e sul corso di gran parte dello sviluppo successivo: il cibo contribuì a fare dell'uomo ciò che egli è. La trasmutazione della scimmia in uomo ebbe inizio circa quattro milioni di anni fa e fra gli studiosi c'è accordo sul fatto che il mutamento fu avviato da una scarsità di uova, di nidiaci e di frutta, che spinse la scimmia a scendere dal suo habitat familiare sugli alberi per andare a cercare cibo nelle praterie. Là trovò piccoli animali di cui si cibò con un entusiasmo tale da condannare quasi all'estinzione, nel corso dei millenni, un certo numero di specie più piccole.
Nei successivi tre milioni di anni l'uomo-scimmia imparò a uccidere animali di dimensioni maggiori, scagliando contro di loro grossi sassi, con una tecnica di caccia che gli richiese di muoversi su tre zampe e, infine, su due anziché quattro. La sua intelligenza si acuì ed egli entrò in concorrenza con il leone, con la iena e con la tigre dalle zanne a sciabola, che condividevano con lui gli stessi terreni di caccia. I suoi denti, che non gli servivano più per la lotta, mutarono forma e modificarono l'apparato orale: così cominciò a svilupparsi il linguaggio umano, mentre le sue zampe anteriori si trasformarono in mani, che si rivelarono capaci di produrre utensili.
Tuttavia fino al 100.000 a.C. circa l'uomo fu poco più che un predatore efficiente che viveva secondo la legge naturale e che riusciva a sopravvivere perché a essa si era adattato. Sapeva come combattere, come produrre utensili e indumenti, come dipingere immagini sulle pareti delle sue caverne e anche come cucinare, anche se non aveva ancora, sul mondo esterno, un'influenza maggiore di quella che poteva esercitarvi il leone, il lupo o lo sciacallo. Era stato l'istinto di autoconservazione e la necessità della ricerca di cibo che avevano trasformato, durante milioni di anni di evoluzione, un tipo particolare di scimmia in un superanimale bipede: l'uomo. Ma quando, all'inizio della rivoluzione neolitica, l'uomo scoprì come coltivare piante e come addomesticare gli animali, imboccò una via divergente che avrebbe infine mutato il volto della Terra e la vita di quasi tutti gli organismi che la abitavano. Fino a questo punto la ricerca di cibo aveva contribuito a trasformare la scimmia in un ominide: mezzo milione di anni fa l'uomo-scimmia, l'Australopithecus, più scimmia che uomo, era diventato l'Homo erectus, più uomo che scimmia.
L'uomo di Pechino, la prima vera personalità della storia, risale all'incirca a quest'epoca fra il 310.000 e il 290.000 a.C.. Il suo aspetto era ancora molto scimmiesco ma, pur essendo alto solo un metro e mezzo, era pronto ad affrontare avversari pericolosissimi come la tigre, il bufalo e il rinoceronte. Ossi di questi animali sono stati infatti ritrovati sparsi nelle sue caverne, così come ossi di lontra, di pecora selvatica e di cinghiale. L'uomo di Pechino deve comunque la sua fama principale al fatto che egli fu probabilmente il primo a fare uso del fuoco, anche se non necessariamente ad accenderlo. I sei metri di ceneri vegetali ritrovate nella caverna di Ciu-Ciu-Tien in Cina dimostrano infatti che era in grado di organizzarsi al fine di conservarlo. E' plausibile che lo facesse anche per impiegarlo nelle stagioni adatte per provocare artificialmente l'incendio dei boschi al fine di creare radure erbose, in previsione del notevole incremento del prodotto della caccia e della raccolta dei vegetali commestibili (FORNI, p. 96). Col passare del tempo, anche altri uomini in altre parti del mondo scoprirono l'uso del fuoco. Luce e calore all'interno delle caverne ebbero una grande influenza nel processo di umanizzazione, specialmente durante i millenni in cui i ghiacciai avanzarono durante la glaciazione fino a coprire vaste aree della Terra. Col fuoco come alleato, l'uomo non aveva la necessità di ritirarsi precipitosamente dinnanzi all'avanzata dei ghiacci, ma poteva restare in prossimità dei loro margini, adattando a questo nuovo clima le sue tecniche di caccia e la sua dieta, mangiando la carne di animali di grandi dimensioni e resistenti al freddo, come il mammuth lanoso.
All'inizio di uno dei periodi di freddo intenso, attorno al 75.000 a.C., sulla scena preistorica apparve una razza di Homo sapiens dal cervello più grande dell'Homo erectus, l'Homo neanderthalensis, che aveva sviluppato propri riti e rituali, aveva perfezionato una tecnica chirurgica primitiva e aveva cominciato a prendersi cura dei malati e degli anziani. Solo dopo la scomparsa dell'uomo di Neardenthal dalla storia, attorno al 30.000 a.C., diventa possibile trattare meno sommariamente lo sviluppo delle abitudini alimentari, poiché dopo i neardenthaliani emerse una razza di uomini più evoluti che, in un clima temporaneamente mite, riuscirono a produrre utensili più perfezionati e attorno all'11.000 a.C., quando il ghiaccio cominciò a ritirarsi per l'ultima volta e il clima si addolcì, gli uomini, gli animali e la vegetazione cominciarono ad adattarsi ancora una volta: ma ora la tecnologia dell'uomo era abbastanza evoluta perché il suo adattamento potesse assumere una forma più radicale. A questo punto il cibo aveva già svolto il suo ruolo nella genesi dell'uomo: ora esso avrebbe condizionato la storia e questo condizionamento non avrebbe mai avuto un carattere più decisivo di quello assunto tra il 10.000 e il 3.000 a.C., il periodo di gestazione della moderna civiltà.
Quando i ghiacci si ritirarono verso nord, la distribuzione della vegetazione cominciò a modificarsi. Le renne, e gli uomini che da esse dipendevano, seguirono i muschi e le felci che crescevano ai margini del ghiacciaio. Altri animali rimasero indietro e quelli più piccoli trovarono il loro habitat più congeniale ai bordi delle foreste che cominciarono a svilupparsi. Sotto l'influenza dei venti caldi, campi estesi di frumento selvatico apparvero in varie aree del Vicino Oriente. In precedenza l'uomo era stato un cacciatore, non un pastore, un raccoglitore di cibi vegetali, non un coltivatore. Ma a soli duemila anni dal ritiro dei ghiacci avevano avuto inizio la coltivazione deliberata delle piante e la domesticazione deliberata di animali, erano stati fondati i primi villaggi e lentamente la conoscenza dell'agricoltura si diffuse in molte parti d'Europa, dell'Africa e dell'Asia occidentale.
Quando i ghiacci avanzarono per la prima volta un milione di anni fa, si stima che sulla Terra esistesse circa mezzo milione di ominidi. Intorno al 10.000 a.C., alla vigilia della grande rivoluzione neolitica, l'Homo sapiens contava già circa tre milioni di individui. Nel 3.000 a.C., dopo settemila anni di agricoltura e di allevamento, la popolazione mondiale era esplosa sino a raggiungere il traguardo di ben cento milioni di individui. A tanto aveva contribuito il cibo della nuova alimentazione, poiché nella preistoria la vita umana era breve e durante il periodo dei neanderthaliani, ad esempio, meno della metà della popolazione sopravviveva oltre l'età di vent'anni e nove su dieci dei restanti adulti morivano prima dei quarant'anni. Carenze vitaminiche, malnutrizione stagionale, veleni vegetali e cibi contaminati si combinavano in modo tale che un quarantenne sembrasse centenario, con tutto quello che la precoce senescenza poteva comportare.
Ma se l'estrema giovinezza o l'età avanzata dei componenti di quelle comunità primitive non costituivano un ostacolo all'esercizio di attività di base necessarie alla sopravvivenza del gruppo, quali la pesca e la raccolta di cibi vegetali, soltanto i membri più attivi e più capaci di quelle comunità diventavano abili cacciatori e il cacciatore preistorico era indubbiamente abile. Tuttavia l'uccisione della preda, che pure rappresentava un'attività faticosa e spesso pericolosa, poteva rappresentare per lui un compito ben meno difficile di quello necessario a provvedere al suo trasporto e soprattutto a quello della sua conservazione nel tempo. Basti pensare a cosa potesse rappresentare per l'uomo di allora il trasporto a spalle della carcassa di un grosso ruminante ucciso e soprattutto l'assillo di doverne preservare a lungo le carni senza rischiare di innescare processi di putrefazione, in modo da poterle distribuire a scopo alimentare su un arco di tempo abbastanza lungo fra una non facile e occasionale predazione e l'altra.

lunedì 8 ottobre 2012

Maria Goretti vista da Guerri

Maria Teresa Goretti nacque a Corinaldo (Ancona) il 16 ottobre del 1890. Sua madre Assunta era stata abbandonata neonata nella “ruota” della Casa degli Esposti di Senigallia e affidata in seguito ad una coppia di Corinaldo, persone indigenti ma di “buona condotta”, erano “rigorosi in fatto di morale e la salvaguardavano dai divertimenti cattivi e dalla vita cattiva, abituandola ai dolori e alle privazioni della vita”. Assunta sposò Luigi, garzone di un podere lì vicino e ben presto arrivarono i figli, sei, uno dopo l’altro: Maria Teresa (da sempre chiamata Maria) fu la seconda. All’epoca la media di figli era di 4-5 per matrimonio, a fronte di una mortalità infantile elevatissima: un bambino su cinque moriva prima di compiere 5 anni. Nelle Marche la percentuale saliva ad uno su quattro, e ciò era dovuto più all’ignoranza dei genitori che all’arretratezza della medicina. Data la situazione, la Chiesa aveva stabilito che i neonati dovessero essere battezzati “entro le 24 ore”: che almeno l’anima si salvasse. Scriveva un medico lombardo alla fine dell’Ottocento: “Io veggo ne’ miei paesi essere immensa la mortalità de’ bambini nella stagione invernale e penso che l’egoistico pregiudizio comandato dai preti ai nostri villici, di farli trasferire al sacro fonte battesimale appena usciti alla luce e sotto qualsiasi rigore atmosferico, sia la principal sorgente della strage loro”. In quell’epoca un individuo su due era analfabeta (molti di più se si considerano solo le donne), la vita media era di 17 anni, comprese le morti infantili; arrivava a 60 anni se valutiamo la vita media di chi sopravviveva ai primi 5 anni. Il mondo dorato, tutto trine e galanterie della Belle Epoque, era un mondo riservato a pochissimi, isole circondate da un popolo lacero e aggressivo. Alcuni dati: nel decennio 1891-1900, con una popolazione che era metà di quella attuale, gli omicidi volontari furono quasi 4000 all’anno contro i 1400 dei nostri “feroci” anni Settanta; i “fatti di sangue” fra il 1890 e il 1911 raggiunsero i 2 milioni; alle voci “rapine, estorsioni e sequestri di persona” abbiamo il 25 per cento in più di oggi, e assai di più erano i galeotti. Era questa la bella epoca di Maria. I Goretti si trasferirono ben presto nel Lazio, a Paliano (Frosinone), nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, e qui conobbero un’altra famiglia marchigiana, i Serenelli, originari di Torrette, vicino ad Ancona, famiglia composta dal padre Giovanni e dai due figli Vincenzo e Alessandro. Ma la vita era durissima, si lavorava dall’alba al tramonto e a cena non si riusciva a mettere insieme una fetta di polenta. Dopo varie proteste con conseguente licenziamento da parte del padrone del terreno, i Goretti e i Serenelli si trasferirono nell’Agro Pontino (Roma). Le Paludi Pontine, un’estensione di circa 50 chilometri per 30 fra Anzio, Cisterna, Terracina e il Circeo, avevano resistito a numerosi tentativi di bonifica nel corso dei secoli. La zona, con l’acqua stagnante brulicante di miliardi di insetti, l’aria malarica, il caldo insopportabile in estate, la totale mancanza di igiene e la fame, era un autentico inferno: le statistiche parlano di circa 1500 morti all’anno su una popolazione di poche migliaia. Questo era il mondo di Maria, un mondo di silenzi e duro lavoro nei campi, di disperazione e abbrutimento, di miseria e ignoranza. In queste condizioni non si può parlare di “fede” ma di credenze popolari, di superstizioni, divieti e fobie: Assunta aveva trasmesso a Maria una profonda avversione per qualunque contatto fisico, considerato peccato: “Più volte io avevo raccomandato alla Maria di tenere bene coperta la Teresa [appena nata] specialmente quando c’erano i fratelli, e le avevo detto che stesse attenta, perché altrimenti si offendeva il Signore, come pure avevo detto che essa non guardasse i fratelli, perché era peccato”. D’altronde era questa la concezione del sesso e del corpo umano che si aveva all’epoca, di cui abbiamo testimonianza in un noto manuale per confessori nel quale si legge: “E’ peccato mortale il dilettarsi deliberatamente in qualsiasi emozione carnale, ancorché eccitata casualmente. Pericolosi sono anche i movimenti disordinati. E’ lussuria: i pensieri voluttuosi, i baci, i contatti e gli sguardi impudichi, gli abbigliamenti femminili, le pitture e le sculture che sono indecenti; le danze, i balli e gli spettacoli. Non v’ha dubbio che mortalmente peccherebbe quella donna che anche senza passione di libidine, permettesse che la si toccasse nelle parti genitali, o vicine ad esse, o nelle mammelle, imperocché evidentemente si esporrebbe a pericolo venereo e certo prenderebbe parte alla libidine altrui; è perciò tenuta a respingere subito chi la tocca, rimproverarlo, percuoterlo, allontanare con forza le di lui mani, fuggire, o gridare se potesse mai avere speranza di soccorso”. Il mezzo migliore per sfuggire ai pericoli della carne è pensare alla morte, al giudizio di Dio, all’inferno, all’eternità”. Nel 1901-1902 Alessandro Serenelli aveva 18-19 anni e non aveva mai toccato una donna. Sfogava la sua voglia di sesso masturbandosi di continuo ma era allo stesso tempo terrorizzato dagli ammonimenti dei confessori scatenati contro i giovani “che si toccano”: gli dicono che potrà più generare, che il suo midollo spinale diventerà acqua, che ingobbirà e che forse rimarrà anche paralizzato: “Non vi ha vizio più nocivo, sotto qualunque aspetto, ai giovani, e specialmente se maschi” dice il manuale per i confessori “perché presi da questa prava consuetudine, indurano lo spirito, inebetiscono, dispregiano la virtù, disdegnano la religione; la loro indole diventa malinconiosa, incapace di energia, inetta a qualsiasi proposito tenace; le forze del corpo mancano, gravi infermità sopravvengono, si appalesa una caducità prematura, e spesso si muore di morte vergognosa”. Alessandro era un ragazzo chiuso, silenzioso, con evidenti problemi di personalità; diverse volte aveva tentato di avvicinare Maria, senza riuscire nel proprio intento. Fino al fatale 5 luglio 1902, quando prende dalla cassetta degli attrezzi una specie di lungo chiodo quadrangolare lungo 23 centimetri e mezzo, con il manico d’osso, e va in cerca della ragazzina, la vede, l’afferra, la trascina in casa e la costringe a sdraiarsi su un basso panchetto di legno lungo un metro. E qui la vista, per la prima volta forse, della cucca (o pentecana) fa impazzire l’adrenalina del ragazzo: finalmente farà scarpetta, il suo sogno si avvera, deve solo mettere u' cellu lì dentro. Ma non ci riesce e non per la resistenza di Maria ma per una sua incapacità organica a farlo, e allora afferra il punteruolo e la colpisce quattordici volte di cui cinque proprio sotto l’ombelico. Per Alessandro fu, come sanno bene gli psichiatri che si occupano di questi delitti, un coito traslato, una scarpetta col punteruolo nell’impossibilità di usare lo strumento apposito. Il punteruolo che sfonda e riemerge, che sfonda e riemerge nelle carni gli dà un’estasiante sensazione di possesso, fino a portarlo all’orgasmo. Poi si placa, getta il punteruolo dietro il cassone e, convinto di averla uccisa, va in camera sua e si sdraia sul letto. I soccorsi per Maria arrivano dopo alcune ore, viene trasportata al più vicino ospedale ma le sue condizioni appaiono subito disperate: viene operata per due ore (senza anestesia e senza nessuna protezione antisettica) al polmone sinistro, al diaframma, all’intestino: morirà dopo altre lunghe ore di atroce agonia. La prima preoccupazione di Assunta è di sapere se “oltre l’averla ammazzata non l’avrà anche disonorata”. Il medico la rassicura: “Sta’ tranquilla, che essa è proprio come è nata”. Assunta ringrazia il Signore. Intanto l’Italia viveva anni di cambiamenti: le prime automobili, la luce elettrica, il cinema, la psicoanalisi… perfino riviste e romanzi avevano contenuti sempre più “turpi e immorali”, secondo la Chiesa. Inoltre il pericolo che le idee degli anticlericali toccassero e corrompessero perfino le masse popolari, la cui religiosità si basava proprio sul rispetto dell’autorità ecclesiastica e su forme di superstizione (culto dei santi patroni, processioni, miracoli), spinse gli esponenti della chiesa locale a promuovere la causa di Maria, scelta come rappresentante della “più sublime delle virtù” contro “le virtù di bagasce sacrificatesi turpemente sull’ara di Venere”. Il processo di beatificazione, molto lungo e travagliato, rallentato dalla mancanza di qualsiasi elemento che provasse la santità della ragazzina, subì una improvvisa accelerazione nel 1943, dopo lo sbarco degli americani a Roma: i liberatori portano nella capitale della cristianità i chiari segni del loro accompagnarsi col demonio, tra cui danze oscene e musiche scostumate, anticoncezionali, nuovi modelli di vita… e allora occorrono degli argini, la religione ha bisogno di esempi e una vergine e martire è quel che ci vuole per dare l’esempio contro la corruzione dei costumi. Tutto fu quindi fatto con velocità estrema: le testimonianze in favore della sua santità furono ampiamente “aggiustate” e molti fatti inventati di sana pianta, i ricordi di Alessandro e Assunta (interrogati più volte) modificati e manipolati al fine di dare di Maria l’immagine che si voleva. Si trovarono anche dei malati guariti per la sua intercessione. Maria fu proclamata beata il 27 aprile 1947 da Pio XII. La successiva canonizzazione avvenne il 24 giugno 1950. Alessandro, dopo il delitto, venne subito arrestato condannato a 30 anni di carcere con un processo velocissimo, scontò una parte della pena a Regina Coeli, poi a Noto, nel sud della Sicilia, in seguito in Sardegna. Passava il tempo a masturbarsi e non è difficile credere che, ancora illibato, in lui esplose di nuovo il bisogno della carne. Il carcere lo portò all’omosessualità e probabilmente, data la sua impotenza, il suo destino fu quello di diventare la donna dei suoi compagni di cella. Fu liberato con due anni di anticipo, per buona condotta, aveva 47 anni ma ne dimostrava 70. Quando ottenne il permesso di lavorare, cominciò a girare di fattoria in fattoria, ovunque ce ne fosse bisogno. Più tardi sacerdoti e passionisti gli trovarono lavoro come domestico in vari santuari e monasteri, per ultimo il convento dei cappuccini di Macerata. Morì senza conoscere donna, a 89 anni.

mercoledì 18 luglio 2012

A Re Conchobar


A Re Conchobar

Choncobuir, cid no taí,
do-rurmis dam brón fo chaí?
Is ed ám; cein no mair
do serc lim níba romáir.
Conchobar, che cosa vuoi?
Tu che mi gravasti di dolore e di pena?
Davvero: se anche a lungo vivessi
mai avrei vero amore per te.

In rop áilliu lim fo nim
ocus in rop inmainim;
ruccais úaim mór in bét,
connách aicciu co m'éc.
Colui che sotto il cielo era più bello,
e colui che più mi era caro,
tu mi strappasti (grave misfatto)
e non lo rivedrò fino alla
morte.
A ingnais is torsi lemm
tucht do-m-adbat mac Uislenn;
caurnán círdub tar corp n-gel
ba suachnid sech ilar †mban [fer?].
Davvero pesante è l'assenza di lui,
del viso che il figlio di Uisliu mostrava;
nerissime rocce sul candido corpo;
tra folle di donne [uomini?] egli eccelleva.

Dá gruad chorcra cainiu srath,
béoil deirg, abrait fo daildath;
déthgein némanda fo lí
amail sóerdaith snechtaidi.

Due guance arrossate più belle dei prati,
le labbra vermiglie, le ciglia corvine,
le file di denti che eran gioielli,
splendenti di puro biancore di neve.

giovedì 12 luglio 2012

I Santi taumaturghi e le malattie mentali

I Santi taumaturghi e le malattie mentali

Nel Medioevo la perdita delle antiche certezze e l’angosciosa ricerca di verità e conoscenza portarono l’arte medica a percorrere nuove strade per il raggiungimento del sapere; ma per quanto riguarda la cura delle malattie mentali si assiste ad una involuzione del pensiero medico: infatti i disturbi della sfera psichica sono relegati nell’area religiosa con la conseguenza che gli interventi terapeutici diventano oggetto di esame e cura esclusiva dei ministri della fede. La follia era ritenuta un vizio giustificato dall’intervento del demonio; così per cacciare il maligno dall’anima, gli amuleti e le terapie usati nell’antichità vengono sostituiti con altri riti religiosi come il segno della croce, l’aspersione dell’acqua benedetta, l’intercessione dei Santi Taumaturghi. I santuari in cui si conservano le reliquie dei Santi considerati protettori delle malattie nervose, diventano meta continua di pellegrinaggi per ottenere la guarigione. Nei trattati di medicina si tenta comunque di dare alcune spiegazioni dei diversi turbamenti cerebrali: a seconda della gravità del disturbo, i folli vengono sottoposti a percosse e ad esercizi coercitivi. Un esempio significativo dei medicamenti più comuni per la cura delle malattie mentali è il trattato di Pietro Ispano (1226-1277) conosciuto sotto il nome di THESAURUS PAUPERUM. In un’epoca in cui dilagava la terapia preziosa con l’utilizzo dell’oro e delle pietre preziose, Ispano cercò di fornire un manualetto di rimedi a poco prezzo, facili da trovare e alla portata di tutti. Si trattava di una medicina empirica ma non certo immune da credenze superstiziose. La carne del lupo, per es., era considerata un toccasana per guarire i “ fantastici “ ma nei casi di pazzia conclamata, l’unica cura possibile era l’esorcismo; convinzione ancora radicata nel Seicento in una parte dell’ambiente medico, sicuro che questo tipo di malattia fosse da imputarsi a possessioni demoniache.

Secondo la medicina popolare, la malattia proveniva da forze malvagie provocata dall’invidia e dal malocchio o conseguenza dell’ira divina per i peccati commessi. In questi casi si ricorreva all’opera del guaritore dotato di “fluido benefico” o al mago capace di interrogare le stelle e creare amuleti apotropaici. A tale riguardo segnaliamo che forse l’amuleto apotropaico più famoso è l’Occhio di Santa Lucia; indossato, portato al collo o inserito nei brevi scaccia il “mal occhio” ( è una conchiglia che sezionata assomiglia ad un occhio). Quando il medico, l’erborista, la medichessa, il guaritore o il mago avevano fallito, al poverino non rimaneva che affidarsi con fiducia all’intercessione di qualche Santo Taumaturgo specializzato nella guarigione del suo disturbo. La fede riposta nelle immaginette devozionali (santini), nelle medagliette sacre, negli scapolari o nei “ brevi” sono una antica usanza pagana, frutto di superstizione, che opera un potente effetto “placebo” portando al miglioramento dei disturbi nervosi e talvolta, producendo il “miracolo”. I brevi, o brevetti, sono dei sacchetti di stoffa contenenti frammenti di pane, canfora, cenere di olivo, immagini sacre ecc. Ma spesso la vera fede cede il passo a pratiche magico-religiose come per es., l’usanza legata ai talismani eduli (edulus, commestibile). Queste piccole immagini sacre raffigurate su sottilissimi foglietti di carta erano chiamati dal popolo “ bocconcini “ , perché venivano mangiati in caso di malattia.