martedì 10 maggio 2011


Quindici fichi secchi
Una delle più curiose (e divertenti) classificazioni degli anacoreti è quella che ci offre Teodoreto, vescovo di Cirro (vicino ad Aleppo) dal 423, nella sua Storia di monaci siri. È quasi inevitabile che a occhi moderni questi campioni di ascetismo del monachesimo primitivo sembrino delle macchiette, impegnati come sono in una specie di olimpiade della mortificazione. Tuttavia, è altrettanto inevitabile una strana fascinazione per questo rivolgere contro se stessi il disgusto del mondo (di un mondo concreto, di una società), e provare un brivido di fronte a questa feroce disciplina, a questo spietato masochismo ante litteram, per quanto probabilmente amplificati dall’apologetica. E colpisce come il «bersaglio», l’ossessione radicale, di questi individui, siano proprio quegli impulsi e bisogni che caratterizzano l’(animale) uomo.

Come nella coppia di opposti rappresentata dagli «ipetri» e dai «reclusi», che estremizzano il tema del riparo, della casa. I primi infatti scelgono di vivere all’aperto, sempre, con qualsiasi condizione climatica – come il «grande Giacomo» che, incurante di una forte nevicata durata tre giorni, «ne fu sepolto a tal punto che non si vedeva neppure un piccolo brandello dei cenci che lo ricoprivano» (e fu salvato soltanto da un gruppetto di spalatori); o come il «grande Eusebio» che, «giunto a vecchiaia così avanzata da aver perduto la maggior parte dei denti, non mutò né il nutrimento né la dimora; ma, gelato d’inverno e bruciato d’estate, sopportò con fermezza le avverse condizioni dell’aria e […] logorò il suo corpo con molte fatiche, tanto che la cintura non gli restava ai fianchi, ma gli cadeva a terra». I reclusi, da parte loro, se la prendono con la più normale delle «boccate d’aria» e, visto che tanto lì dobbiamo finire, si portano avanti e si seppelliscono vivi, come il «meraviglioso Zenone» che, da corriere imperiale qual era, si precipitò «in una tomba (la regione di Antiochia ne ha molte) e visse da solo per purificare la sua anima e tenerne costantemente terso lo sguardo. […] Perciò non ebbe un letto, né una lucerna, né un focolare, né una pentola, né un’ampolla, né una cassetta, né un libro, né alcuna altra cosa».

Oppure come nella coppia di simili rappresentata dagli «stiliti» e dagli «stazionari», che sopprimono il bisogno di muoversi. E se i famosi stiliti si piazzano su una colonna, per essere più vicini al Signore, gli stazionari scelgono la costante immobilità (magari con l’aggravio di qualche catena di ferro) – come il «meraviglioso Abramo, che domò il suo corpo con veglie, con lo stare in piedi e con digiuni tali che per moltissimo tempo rimase come immobile, non potendo affatto camminare».

Come si vede, la lotta contro il sonno e il cibo è data quasi per scontata. E a proposito di quest’ultimo si può trovare anche qualche indicazione concreta su cosa effettivamente mangiassero questi anacoreti per non morire di fame: «lattughe, cicorie, prezzemolo e altre erbe siffatte», «quindici fichi secchi» per sette settimane, «ceci e fave bagnate con acqua», «una libbra di pane [300 g ca.] divisa in quattro parti e distribuita in quattro giorni», ecc. Una dieta, tra l’altro, che procurava un sacco di problemi intestinali, anche gravi, il cui «sollievo» cozzava ad esempio con l’imperativo di non muoversi mai…

Questi uomini e queste donne («ritengo utile ricordare che anche le donne hanno lottato non meno, anzi di più»), ci ricorda Teodoreto, «indussero il corpo a far pace con l’anima», furono campioni nella lotta contro il demonio, chiudendo gli occhi, le orecchie e la bocca, negando la fame e la «dolce tirannide del sonno (e in quel dolce Teodoreto si tradisce…), abolendo il riso e scegliendo «la durezza del suolo».

Cioè non essendo uomini e donne.

Teodoreto di Cirro, Storia di monaci siri, Città Nuova 1995.

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