venerdì 23 luglio 2010



 

EDGAR ALLAN POE

LA VITA

E.A. Poe nasce a Boston nel 1809. da due attori girovaghi, entrambi morti di tisi, quando ancora egli era piccolissimo.

Di lui si prende immediatamente cura un commerciante scozzese di Richmond, John Allan, assieme alla moglie Frances Keeling Valentine, cui lo scrittore rimarrà per sempre legato affettivamente.

Nel 1815 gli Allan si trasferiscono in Inghilterra, dove il piccolo Poe comincia gli studi, che poi proseguirà anche al rientro negli Stati Uniti, iscrivendosi alla Virginia University di Charlottesville, dove studia lingue antiche e moderne. Ben presto, però, nonostante i suoi ottimi voti, viene espulso dall'Università per i suoi eccessi alcolici e per i suoi debiti di gioco. Questo ed altri fattori lo fanno entrare in duro contrasto con il patrigno, tanto che nel 1827, a soli 18 anni, decide di abbandonare la famiglia e di trasferirsi a Boston, dove pubblica a sue spese ed anonimo un libretto di poesie Tamerlane and other poems by a Bostonian
(Tamerlano ed altre poesie). Il libro viene accolto dall'indifferenza generale e, per la delusione Poe decide di arruolarsi come soldato semplice nell'artiglieria federale con il nome di Edgar A. Perry. Nel 1829, però, interrompe il suo servizio per recarsi a Richmond per la morte della signora Allan. Questo evento luttuoso porta un riavvicinamento con il patrigno, anche se la rottura sarà ormai insanabile, tant'è vero che, quando nel 1834 Allan morirà, non lascerà nulla in eredità allo scrittore.

Grazie all'aiuto di John Allan, Poe riesce a sottrarsi al suo dovere nell'esercito, dove avrebbe dovuto restare ancora un paio d'anni.

Alla fine del 1829 si trasferisce a Baltimora da una zia, che lo manterrà per tutta la vita, ed ha modo di pubblicare una seconda raccolta di versi. Nel 1830 decide di nuovo di intraprendere la vita militare e si iscrive all'Accademia di West Point, da dove però sarà ben presto espulso per il suo rifiuto di sottomettersi alla rigida disciplina che vi impera.

Nel 1831 è a New York, dove, grazie all'aiuto di alcuni suoi amici di West Point, pubblica la terza raccolta di poesia, Poems.

Ritorna a Baltimora. Sul giornale locale The Courier pubblica i suoi primi cinque racconti: Metzengerstein, The Duc of l'Omelette (Il Duca dell'Omelette), A Tale of Jerusalem (Racconto di Gerusalemme), A decided Loss (Una perdita decisa), The Bargain Lost (L'affare perso). Per il racconto M.S. Found in a Bottle (Manoscritto trovato in una bottiglia), pubblicato sul Baltimora Saturday Visiter, nel 1835, vince un premio di cento dollari. Nel frattempo lavora nella redazione del Southern Literary Messenger, dove ben presto per le sue eccezionali doti di giornalista, viene promosso vicedirettore.

Il 22 settembre dello stesso anno sposa a Richmond la cugina Virginia Clemm, appena quattordicenne.

Nel 1838 pubblica il suo primo ed unico romanzo The Narrative of Arthur Gordon Pym (La storia di Arthur Gordon Pym), che però non ha successo. L'anno successivo a Filadelfia pubblica, invece, una raccolta di tutti i racconti che aveva sino ad allora scritto, intitolata Tales of Grotesque and Arabesque (Racconti del grottesco e dell'arabesco). Lavora poi nella redazione del Gentleman's Magazine, ed ancora una volta le sue straordinarie capacità di giornalista portano il giornale ad aumentare vertiginosamente la tiratura (addirittura dalle iniziale 500 copie a ben 40000!!). Si fa apprezzare sia come scrittore di racconti che come critico letterario, purtroppo i rapporti con il direttore del quotidiano diventano sempre più critici, tanto che Poe decide di abbandonare il giornale e fondarne uno tutto suo, attraverso una raccolta di fondi. L'esperienza di The Stylus, come Poe aveva chiamato il suo giornale, dura un paio di anni e non è delle più felici.

Inizia adesso il periodo più terribile di tutta la sua vita. La moglie si ammala gravemente e lo scrittore non avendo i mezzi per farla curare, si dà all'alcol e al laudano.

Nel 1844 è di nuovo a New York, pubblica sulla rivista The Evening Mirror la sua poesia più famosa The Raven (Il corvo), con la quale ottiene finalmente il successo che inseguiva da anni. Purtroppo per una serie di vicende il suo successo non dura a lungo. Infatti si riempie di nuovo di debiti di gioco e ricomincia a bere senza misura. Nel 1847 inoltre la moglie, a cui Poe era molto legato, muore di tubercolosi, da questo momento in poi lo scrittore cade in uno stato di prostrazione e di disperazione da cui non uscirà più. In questo periodo pubblica solo il poemetto in prosa Eureka. Il 3 ottobre 1849 viene trovato in stato di incoscienza in una locanda di Baltimora, ricoverato al Washington Hospital, muore di delirium tremens il 7 ottobre alle cinque del mattino.

  

giovedì 22 luglio 2010



Fu proprio l'emofilia a decimare alcune case reali



Vittoria del Regno Unito

I discendenti maschi della regina Vittoria non ebbero vita facile a causa di una salute molto cagionevole. Leopoldo, uno dei figli della monarca britannica, morì a causa di una emorragia dopo esser scivolato e caduto a terra. Il nipote di Vittoria, Friedrich, morì dissanguato all'età di due anni, mentre gli altri due nipoti Leopold e Maurice morirono prematuramente a 32 e 23 anni. Il "male regale" si diffuse poi tra le famiglie regnanti europee in seguito ai matrimoni dei discendenti della regina Vittoria portando gravi conseguenze per i monarchi di Germania, Russia e Spagna. Ma quale male affliggeva la stirpe della regina britannica?

Sulla base dei sintomi, intorno agli anni Settanta alcuni studiosi ricondussero il "male regale" all'emofilia, una malattia ereditaria che impedisce al sangue di coagularsi, anche se non vi erano prove schiaccianti in merito. Ora una nuova ricerca basata su alcune analisi del DNA effettuate sulle ossa dei Romanov (l'ultima famiglia reale russa) sembra confermare l'ipotesi della emofilia.

Secondo gli autori della ricerca, il "male regale" non fu altro che una forma molto rara di emofilia appartenente al sottitipo B. Tale patologia impedisce al sangue di coagulare e dunque espone i soggetti che ne sono affetti a numerosi pericoli legati al dissanguamento per una ferita esterna o alla possibilità di perire a causa di una grave emorragia interna. L'emofilia è ereditaria e recessiva ed è presente sul cromosoma X, condizione che aumenta considerevolmente le probabilità per i maschi di esserne affetti, poiché le donne possono contrastare il gene con il loro secondo cromosoma X e diventare dunque portatrici sane della malattia.

Il principe Alessio Romanov, figlio dello Zar Nicola II, e pronipote della regina Vittoria, era affetto da emofilia. Nell'infanzia, l'erede al trono fu spesso vittima di gravi e prolungate emorragie, ma riuscì a superare tale fase per essere poi ucciso a 13 anni durante la Rivoluzione del 1918. I resti del corpo di Alessio e di quello della sorella Maria sono stati identificati solamente lo scorso gennaio, grazie a una ricerca condotta da Evgeny Rogaev, genetista alla University of Massachusetts Medical School di Worcester (USA), sui resti dei corpi trovati nei pressi dell'area dove venne giustiziata la famiglia reale.


Aleksej Nikolaevič Romanov

Una volta stabilita l'identità dei resti rinvenuti dei Romanov, Rogaev ha analizzato il DNA di alcuni frammenti ossei alla ricerca di alcuni indizi sull'emofilia A, il sottotipo più diffuso della patologia, senza giungere ad alcun risultato. I genetisti hanno allora provato con l'emofilia di tipo B, che coinvolge il gene F9. La ricerca si è rivelata fruttuosa: i resti di Alessio, della sorella  Anastasia e della madre Alessandra hanno indicato chiaramente la presenza della malattia.

L'importante ricerca realizzata da Rogaev e colleghi è stata da poco pubblicata sulla rivista scientifica Science e potrà fornire nuovi importanti riscontri per gli storici impegnati nella mappatura del "male regale". Alessio era affetto da emofilia B, mentre la madre e la sorella Anastasia erano portatrici sane della malattia. Una conferma importante sulla progressiva diffusione della patologia tra alcune delle più importanti famiglie regnanti d'Europa.

Secondo Rogaev, la malattia avrebbe di fatto condizionato non solo la famiglia Romanov, ma gli stessi destini della Russia. La condizioni di salute instabili di Alessio indussero Alessandra, la madre, a saldare i legami con l'ambigua figura del mistico Grigori Rasputin, che dichiarava di essere anche un guaritore. «All'epoca non vi era una cura. Alessandra cercò di fare tutto il possibile» ricorda Roagev sul sito web della rivista scientifica. I forti legami con i Romanov consentirono, secondo alcuni storici, a Rasputin di aumentare il proprio potere accrescendo la diffidenza del popolo che alcuni anni dopo avrebbe dato vita alla Rivoluzione. Ma qui la scienza deve lasciare il posto alla storia…

domenica 18 luglio 2010


Mary Shelley

"FRANKENSTEIN"


 


 


 

1•    L'edizione definitiva dell'opera più nota di Mary Shelley, pur essendo stata pubblicata per la prima volta nel marzo del 1818, uscirà solo nel 1831. Il testo è scritto in lingua inglese ed e stato pubblicato a . Il titolo originale è "Frankenstein, or the modern Prometheus"


 

2•    Mary Wollstonecraft Godwin nasce il 30 agosto del 1797 a Londra, figlia unica del filosofo William Godwin e della femminista Mary Wollstonecraft. Il padre è noto soprattutto per il trattato "An enquiry concerning political justice". La madre, la cui opera principale è "A vindication of the rights of women" muore dieci giorni dopo il parto. Godwin si risposa con la vedova Mary Jane Clairmont. L'infanzia di Mary si incupisce in seguito alla palese preferenza della matrigna per i propri due figli e sebbene sia la pupilla prediletta del padre, Mary cresce molto sola: legge di tutto, il luogo preferito è la tomba della madre. Nel 1812 il poeta Shelley scrive a Godwin proponendosi come discepolo e in seguito inizia a frequentare casa Godwin dove conosce Mary. Fra i due sboccia l'amore che culminerà con la celebrazione del matrimonio nel 1816. Nel frattempo Mary, Shelley e alcuni amici si stabiliscono per un breve periodo nella tenuta di Lord Byron, il quale, a causa del brutto tempo, che costringeva il gruppo all'interno delle loro case, propone l'idea di gareggiare, ciascuno con un racconto che fosse il più terrificante possibile. E' qui che hanno luogo le letture di racconti di fantasmi, e le discussioni sugli esperimenti di Erasmus Darwin per animare la materia inorganica e sulla possibilità di ridare vita ad un corpo già cadavere. Queste riflessioni si imprimono nella mente di Mary come uno spaventoso incubo dal quale ella trae l'ispirazione per la composizione del suo romanzo: Frankestein. Mary Shelley muore a Londra l'1 febbraio del 1851.

Mary durante la sua vita è quindi influenzata da alcuni fattori che possiamo collegare alla vicenda narrata nel suo romanzo: prima di tutto i suoi genitori sono stati per lei un esempio, hanno mostrato alla figlia, tramite le loro opere, i loro valori di giustizia, educazione e uguaglianza (il romanzo è oltretutto dedicato al padre). Anche suo marito, giovane poeta romantico, è stato per lei molto importante. Inoltre durante il soggiorno a Villa Diodati, quando scrive appunto il racconto, Mary si sentiva abbandonata dal padre ed aveva un forte desiderio di amore (proprio come il mostro).

Come detto anche le teorie di Darwin e di Galvani hanno influenzato l'opera del Frankenstein.


 

3•    Frankenstein è la storia di uno scienziato ginevrino, Victor Frankestein appunto, che affascinato dalle nuove possibilità della scienza, riesce a dar vita ad una nuova creatura gigantesca fatta con pezzi di cadaveri.

Inorridito di fronte alla mostruosità di ciò che ha creato, Frankenstein fugge.

Il mostro, rimasto solo, si allontana alla scoperta del mondo, pieno di speranze e di buoni sentimenti fino a quando, resosi conto dell'orrore che il suo aspetto suscita negli altri, trasforma l'amore per l'umanità in odio. Se pur frustrato nei suoi sentimenti dall'ostilità degli uomini, chiede a Frankenstein di creargli una compagna. Il dottore accetta, ma poi, in un impeto di orrore, uccide la sua nuova creazione. A quel punto l'odio che provava il mostro verso l'umanità si trasforma in desiderio di vendetta nei confronti del suo creatore che egli perseguita colpendolo negli affetti più intimi uccidendogli dapprima il fratello più piccolo, poi l'amico più caro e infine la donna che ama e che ha appena sposato.

Tra i due si viene a creare un ambiguo rapporto di amore e odio, di pietà e vendetta che li porta a inseguirsi a vicenda lungo le Alpi e il nord dell'Europa, fino al Polo Nord dove entrambi trovano la morte.


 

4•    La paura è l'elemento caratterizzante del romanzo che si manifesta in diversi modi: primo fra tutti il fatto che la narrazione non segue l'ordine cronologico dei fatti, e ciò contribuisce ad accrescere la suspance: chiunque legga l'inizio del romanzo, quando Frankenstein viene raccolto dalla nave, non può fare a meno di chiedersi il motivo delle pietose condizioni fisiche e morali dell'uomo, così come crea suspance il dialogo tra lo scienziato e il Mostro: sapere fin dall'inizio cosa fosse successo a Frankenstein o dove fosse stato il mostro non avrebbe certo creato lo stesso effetto.
Un altro punto fisso della paura sono gli elementi macabri presenti nel testo: l'idea di dare vita ad una creatura nasce, infatti, in un cimitero e da quel momento Frankenstein lavorerà soprattutto di notte, da sempre metafora di morte e di paura, mangiando e dormendo pochissimo: il lavoro verrà inoltre terminato nella classica "notte buia e tempestosa" e il risultato di tante fatiche sarà un essere orribile, tanto da essere immediatamente odiato dal suo stesso creatore e da incutere paura a chiunque lo veda.

Inoltre il lettore è angosciato dai rimorsi, dai sensi di colpa e dalle ossessioni di Frankenstein ed anche se egli sa di essere soltanto un testimone che non può essere direttamente minacciato da ciò a cui assiste è coinvolto attivamente dalle vicende della vittima


 

5•    Nel romanzo si alternano diversi punti di vista: il racconto infatti non si basa su un unico livello narrativo, ma si snoda attraverso tre piani differenti: quello più esterno del diario di Robert Walton, quello di Frankestein che racconta in flash-back ed infine quello del mostro che parla al lettore in modo diretto. L'autobiografia del mostro, raccontata a Victor Frankestein, suo creatore, è contenuta all'interno della confessione fatta da Frankestein al giovane esploratore inglese, il quale a sua volta la trascrive nelle lettere indirizzate alla lontana sorella Margaret.


 

6•    I personaggi principali dell'opera di Mary Shelley sono tre: lo scienziato Victor Frankestein, la creatura mostruosa da lui creata e Robert Walton.

Essi, come detto, sono accomunati da un ansia di ricerca: Frankenstein che è determinato a sostituirsi al "creatore" cercando di dare vita ad una sua creatura, il mostro che cerca invano di trovare qualcuno che lo possa capire e che lo possa amare ed infine il marinaio Walton che intende, volendo dare un contributo al progresso scientifico e geografico, raggiungere più velocemente il Polo Nord, individuando un percorso attraverso l'Ovest.

La vicenda termina al Polo Nord dove sia Victor che il mostro perdono la vita: il
Polo Nord è considerato come uno dei luoghi più inospitali ed ostili all'uomo ed è quindi lo scenario perfetto per rappresentare le innumerevoli difficoltà che l'uomo deve talvolta fronteggiare quando si trova a competere con qualcosa che gli è superiore. Il viaggio al Polo Nord rappresenta per l'uomo il desiderio di oltrepassare i limiti conosciuti e in questo senso corrisponde a quello che Frankenstein compie nel suo laboratorio. Inoltre è il simbolo della potenza della natura contro cui l'uomo si sente impotente e non può nulla. Infine è sicuramente il teatro perfetto per la "sfida finale" tra il protagonista e il mostro.


 

7•    Mary Shelley sottotitola l'opera "il moderno Prometeo": Prometeo, secondo una leggenda greca, era un titano, considerato l'amico degli uomini, che ingannò gli dei, donando loro la parte più grande dell'animale sacrificato nella quale erano state nascoste tutte le ossa: la carne rimaneva in questo modo agli uomini. Adirato per questo affronto, Zeus decise di togliere il fuoco agli uomini, ma fu lo stesso Prometeo a rubare una scintilla ad Apollo, scatenando così nuovamente l'ira di Zeus. Prometeo fu condannato a farsi rodere il fegato da un'aquila e perché egli soffrisse ulteriormente, ogni giorno il fegato gli ricresceva.

Come Prometeo ha voluto sfidare gli dei, anche Frankenstein, credendosi appunto in grado di eguagliare la forza della natura, è condannato da quel momento a condurre una vita di continue sofferenze e dolori, dovendo subire la crudele vendetta della sua creature che gli porterà via molti suoi cari tra cui sua moglie e il suo fedele amico Clerval.

Nel libro inoltre, il mostro, intelligente e sensibile, legge il romanzo scritto in poesia "Paradise Lost" (Paradiso Perduto) di John Milton. L'orribile creatura si riconosce nelle forti emozioni descritte dal libro: paragona infatti la sua situazione a quella di Adamo. Bisogna considerare però che il mostro non "è nato dalle mani di Dio come una creatura perfetta" ma l'essere di Victor è stato creato orrendamente.

Per quanto riguarda il personaggio dantesco, dalla lettura del romanzo emerge un rapporto tra Frankestein e l'Ulisse dantesco. Così come Ulisse, spinto dalla sete di conoscenza, arriva ad oltrepassare le colonne d'Ercole, limite del mondo conosciuto, Frankestein spinto dalla curiosità e dal desiderio di gloria, arriva ad infondere la scintilla vitale a un corpo inanimato, cosa che va contro il corso naturale della vita.

Entrambi poi cercano di persuadere i loro compagni di viaggio puntando sulla sfera sentimentale ed emotiva facendoli riflettere sulla loro condizione umana. I due discorsi portano però a risultati differenti: Ulisse riesce nel suo intento mentre Frankestein riesce a persuaderli solo momentaneamente.


 


 

9•    Il mostro, dopo aver capito di essere diverso e di apparire agli "uomini normali" una creatura orribile, ha un forte desiderio di un affetto sincere e chiede così al suo creatore di creargli una nuova creatura, simile a lui, che avrebbe potuto amare. Frankenstein, sentendosi già colpevole per la sua prima creazione, si rifiuta e fa esplodere la rabbia del mostro.


 

"…un'ira infernale prese il posto della bontà e dell'altruismo…ogni giorno sognavo una vendetta profonda e mortale".


 

La malvagità nasce in lui quando si rende conto che il suo aspetto era deforme e che per questa sua caratteristica estetica non sarebbe mai stato accettato.


 

*La mia persona era orrenda, la mia statura era gigantesca: che cosa significava tutto ciò? Chi ero? Da dove venivo? Qual'era la mia meta?"


 


 

*"Maledetto creatore! Perchè hai dato forma ad un mostro così orrendo da suscitare persino il tuo disgusto? Dio nella sua pietà ha fatto l'uomo bello e attraente, a propria immagine; il mio aspetto, invece, è una grottesca imitazione del tuo, resa ancora più orribile dalla stessa somiglianza. Satana aveva i demoni suoi compagni ad ammirarlo ed incoraggiarlo; io invece sono solo e detestato".


 


 

Il mostro quindi è si una figura negativa per i crimini che commette, ma può essere considerata anche un vittima. Prima di tutto perché la sua vita è stata manipolata solo per un esperimento scientifico, in seguito a causa del forte pregiudizio degli uomini nei suoi confronti ed infine perché è stato completamente abbandonato del suo creatore. Il vero mostro è certamente Frankenstein in quanto è lui l'artefice dell'orrenda creatura ed è in seguito alla sua fuga che essa rimarrà sola ed incompresa. Egli avrebbe prevenire tutto ciò che stava accadendo e rimediare in qualche modo a ciò che aveva fatto.


 


 

10•    Sicuramente due luoghi molto importanti del racconto sono il laboratorio di Frankenstein e la valle di Chamonix. Questi due luoghi posso sicuramente essere messi a confronto per analizzare gli opposti stati d'animo del protagonista: il laboratorio è una stanza solitaria, posta all'ultimo piano della casa. E' un luogo cupo e squallido pieno di resti imputriditi di corpi sventrati che servono per la creazione del mostro. In questo luogo macabro Frankenstein perde la cognizione del tempo, e non si fa più vedere da nessuno.

A un luogo di tale desolazione, si oppone un posto dove la natura è incontaminata, la valle di Chamonix. Chamonix è una valle imponente, circondata da alte montagne innevate. Il paesaggio del Monte Bianco e del fiume Arve sono l'ideale per rilassarsi e trovare la tranquillità. Qui Frankenstein, rivedendo il meraviglioso paesaggio dove era già stato da adolescente, ritorna con la mente ai giorni felici di quando era ragazzo, dimenticando tutte le sue sventure e ritrovando la pace e la tranquillità.
Solo con l'arrivo del mostro torneranno in lui l'angoscia e la tensione

venerdì 16 luglio 2010

Il romanzo gotico



L'origine di quella che, comunemente, viene chiamata Letteratura Gotica viene individuata nel 1784, ovvero l'anno in cui viene pubblicato il romanzo Il Castello di Otranto di
Horace Walpole. A questo seguiranno poi altre importanti opere come I misteri di Udolfo di
Ann Radcliffe, Il monaco di Matthew G. Lewis e Vathek di William Beckford. La fine del periodo "storico" della letteratura gotica viene posta in genere attorno al 1820, ma scrittori come Edgar Allan Poe e Howard Philip Lovecraft, anche se posteriori, sono di norma classificati come "gotici", e anche ai giorni nostri quello che è comunemente definito "gotico" occupa una buona parte della letteratura horror.
Tutti questi racconti hanno in comune dei tratti ben precisi: il costante uso di ambientazioni arcaiche, come castelli diroccati o case isolate, ove avvengono spaventosi fatti di sangue, intricate cospirazioni e misteriosi delitti. Anche il paesaggio naturale ha un grosso peso nel creare la giusta atmosfera in quanto contribuisce a rappresentare in chiave metaforica i sentimenti dei personaggi; si ritroveranno spesso, così, delle spoglie brughiere, minacciose foreste e lande desolate. Il tutto accompagnato dalla costante presenza del soprannaturale, in tutte le sue forme: riti demoniaci, diavoli tentatori o creature fantastiche e spaventose, e sarà  proprio qui che prenderanno vita le figure caratteristiche del mostro di Frankestein, del Golem e del primo Nosferatu. Ognuna di queste creature è un essere fuori dal comune, stupefacente e affascinante.
Ed è qui che si può ritrovare il motivo di maggior successo del romanzo gotico: il fascino del mostruoso, che cattura l'attenzione del lettore verso ciò che è esterno, alieno e sconosciuto; in particolare si fa leva sulla parte latente dell'animo umano, la parte non si conosce mai perfettamente, ma che rimane ignota e latente, sospesa nel nulla del vivere quotidiano. In questo luogo galleggiano le paure dell'uomo, i terrori che ci accompagnano fin dall'infanzia, i desideri più inconfessabili ed è questo il materiale che gli scrittori gotici hanno utilizzato per le loro opere.
Gli elementi soprannaturali presenti non sono altro che l'espressione codificata dei timori comuni: la paura costituisce la più straordinaria molla dell'immaginario sociale. In questo modo la parte oscura dell'anima viene fuori, si diffonde in ogni pagina e avvolge ogni parola. La paura, con la sua funzione catartica e tentatrice, spinge chi legge verso la tana del lupo e lo fa avvicinare alla soglia. Paradossalmente dà  coraggio perchè innesca nel profondo la perversità  umana che, in una continua e interminabile sete di conoscenza, sfida la natura rischiando la vita, cioè varcando quella soglia. La sfida con il soprannaturale è una sfida col limite che risveglia in noi la cosiddetta "fear of the unknown" ossia la paura di ciò che è sconosciuto.
Facendo leva su un sentimento così vitale, il romanzo gotico ha attirato un pubblico vasto ed eterogeneo, rispondendo al suo bisogno di fantasia e di attesa del diverso. Un'analisi approfondita sul successo della corrente gotica interessò anche Sigmund Freud, il quale giunse alla conclusione che l'effetto della letteratura gotica era da cercare soprattutto nel riemergere delle esperienze personali rimosse, nell'universo negativo di ciascuno che essa era appunto in grado di richiamare alla memoria attraverso i personaggi fantastici che incarnano desideri, paure e ansie diversamente censurate in nome di un'esistenza equilibrata.
Il gotico insinua un dubbio essenziale nella mente di ciascuno, ci avverte che il bene può essere male e viceversa, che l'identità  di un individuo può perdersi nel suo stesso contrario, che esistono effetti senza cause e che il normale non conosce il confine che lo separa dall'anomalo, che ciò che è giusto non può sempre essere distinto da ciò che non lo è, anzi, che il desiderio e l'avversione si attraggono respingendosi in un macabro valzer, che il colpevole spesso è vittima.

giovedì 15 luglio 2010



 
 


 

ABBAZIA  BENEDETTINA DELLA SS. TRINITA'

Cava de' Tirreni  (SA)

 
 

 
 

 
 

 
 

Introduzione

 
 

L'Abbazia Benedettina della Santissima Trinità di Cava fu nel Medioevo uno dei centri religiosi e culturali più vivi e potenti dell'Italia Meridionale. Fondata da un nobile Longobardo, S. Alferio Pappacarbone che ebbe la visione della Santissima Trinità sotto forma di Tre Raggi Luminosi sorgenti dalla Roccia, ritiratosi in quei luoghi per vivere in preghiera e contemplazione, vedrà in poco tempo sorgere una comunità numerosa di monaci. L'Abbazia di Cava formò nell'Ordine di San Benedetto una congregazione autonoma: la Congregazione della Santissima Trinità di Cava, che ebbe in pochi decenni un notevole sviluppo divenendo una delle congregazioni benedettine più fiorenti. L'Abate della SS. Trinità di Cava nel XII e XIII secolo governava oltre 340 chiese, più di 90 priorati, almeno 29 abbazie. Egli era anche onorato del titolo di Grande Abate di Cava: "Magnus Abbas Cavensis". L'Abbazia della SS. Trinità di Cava divenne la Chiesa madre dell'Ordine Cavese : " Mater vel matrix ecclesia Ordinis Cavensis ".

 
 

 
 

La storia

 
 

Il fondatore della Badia della Santissima Trinità fu S. Alferio Pappacarbone che nel 1011 si ritirò sotto la grande grotta Arsiccia (significa asciutta) per trascorrervi vita eremitica. L'accorrere dei discepoli, attratti dalla sua santità, lo indusse a costruire un monastero di modeste dimensioni. Morì in età molto avanzata il 12 aprile 1050. Fin quasi alla fine del sec. XIII Alferio ebbe una serie di successori eccezionali, di cui undici, oltre il fondatore, sono stati riconosciuti dalla Chiesa come santi o beati. Tra di essi si distinse S. Pietro I, nipote di Alferio, che ampliò notevolmente il monastero e lo fece centro di una potente congregazione monastica l' Ordo Cavensis (Ordine Cavense) con centinaia di chiese e monasteri dipendenti, sparsi in tutta l'Italia meridionale. Furono più di 3.000 i monaci a cui S. Pietro diede l'abito.

 
 

Il Papa Urbano II, che lo aveva conosciuto a Cluny, nel 1092 visitò l'Abbazia e ne consacrò la basilica. Importante fu anche il governo del B. Benincasa, che nel 1176 inviò in Sicilia un centinaio di monaci per popolare la celebre abbazia di Monreale, eletta dalla munificenza del re Guglielmo II. Papi e vescovi, principi e signori feudali favorirono lo sviluppo della Congregazione Cavense, che giovò moltissimo alla riforma della Chiesa, promossa dai grandi papi del sec. XI, e al benessere della società civile. I principi e signori, oltre ad offrire feudi, beni e privilegi, donarono all'abbazia o la proprietà o il diritto di patronato su chiese e monasteri. I vescovi ambivano di avere nelle loro diocesi i Cavensi per il bene che vi operavano. I Papi, oltre la conferma delle donazioni, concessero il privilegio dell'esenzione, per cui l'abate di Cava finì per avere una giurisdizione spirituale, dipendente solo dal Papa, sulle terre e sulle chiese di cui la Badia aveva la proprietà. Da parte sua Cava costituiva per i Papi un caposaldo di cui potevano fidarsi pienamente, tanto da affidarle in custodia alcuni antipapi. Amorosa fu la cura che gli abati avevano delle popolazioni. Ad esse assegnavano le terre delle vaste possessioni dell'abbazia con l'obbligo di metterle a coltura e di prestare, dopo un certo numero di anni, o mano d'opera o un censo proporzionato alla fertilità del suolo. Per la difesa delle popolazioni del Cilento dalle incursioni saracene S. Costabile e B. Simeone costruirono il castello dell'Angelo, detto poi Castellabate. I monaci inoltre gestivano ospizi e ospedali, che venivano generosamente destinati alle necessità dei bisognosi ed esercitavano il ministero pastorale nei monasteri dipendenti. Le chiese invece venivano affidate dagli abati a sacerdoti secolari di loro fiducia. Il sec. XIV rappresenta per Cava un periodo di ripiegamento su se stessa. E' particolarmente curata la difesa e l'amministrazione dei beni temporali, sono prodotte splendide opere d'arte, ma l'incidenza dell'azione spirituale e sociale della badia, anche a causa dei rivolgimenti politici, diminuisce sensibilmente. Nel 1394 il papa Bonificacio IX conferì il titolo di città alla terra di Cava, elevandola in pari tempo a diocesi autonoma, con un proprio vescovo, che doveva però risiedere alla Badia, la cui chiesa venne dichiarata cattedrale della diocesi di Cava. Il monastero non sarà governato da un abate, ma da un priore e la comunità dei monaci formerà il capitolo della cattedrale. L'abate Mons. Angelotto Fusco nel 1431 fu elevato alla dignità cardinalizia e, malauguratamente, volle ritenere in commenda, percependone le rendite, l'abbazia e la diocesi cavense. Fu il periodo degli abati commendatari, i quali portarono l'abbazia ad una grande decadenza. Lontani da essa, la governarono mediante fiduciari, ai quali interessava soltanto la diocesi e l'amministrazione dei beni temporali. L'ultimo commendatario unì la badia di Cava alla congregazione di S. Giustina da Padova. La riforma poneva a capo della badia non più un vescovo o un cardinale ma un abate temporaneo: così rifiorì la disciplina monastica e il culto delle scienze e delle arti. Nel corso dei secoli XVI-XVIII l'abbazia fu rinnovata anche architettonicamente. L'abate D. Giulio De Palma ricostruì la chiesa, il seminario, il noviziato, e varie altre parti del monastero. La soppressione napoleonica, per merito dell'abate D. Carlo Mazzacane, passò senza arrecare gravi danni alla badia: 25 monaci rimasero a guardia dello Stabilimento (tale fu il titolo dell'abbazia) e il Mazzacane ne fu il Direttore. La restaurazione, dopo la caduta di Napoleone, portò a un rinnovamento dello spirito religioso. Nel 1866, in considerazione dei valori artistici e scientifici accumulati nelle sue mura e del fatto che era centro di una diocesi, il monastero fu dichiarato Monumento Nazionale e, come tale, si salvò dalla rovina a cui andarono incontro tante altre illustri abbazie italiane. Eroica si dimostrò allora la virtù dei pochi monaci rimasti. Aprirono un nuovo campo di apostolato monastico istituendo un collegio laicale, che è tuttora fiorente, e redassero il Codex Diplomaticus Cavensis, in cui pubblicarono il testo integrale delle più antiche pergamene dell'archivio Cavense. Si tratta di un'opera monumentale, che ha resa famosa la Badia in tutto il mondo scientifico. I più moderni abati hanno continuato degnamente l'opera dei SS. Padri Cavensi. Essi hanno restaurato ed ampliato gli edifici del monastero e dato nuovo impulso alla sua vita millenaria, che dura ininterrotta ancora oggi.

 
 

 
 

 
 


 

La basilica

 
 

Nel 1025 S. Alferio aveva già costruito la sua chiesa, che aveva una sola navata. Questa nel 1092 fu ampliata e trasformata in basilica a più navate da S.Pietro I abate. L'attuale basilica sorse invece nel 1761 per iniziativa dell'abate D. Giulio De Palma e su disegno dell'architetto Giovanni del Gaizo, il quale, qualche anno dopo, progettò anche la facciata. Vi fu un tentativo di bloccare i lavori, ma i monaci seppero blandire Carlo di Borbone sostenendo che "... le povere parrocchie di Cava avevano chiese migliori che non ha il monastero tanto ricco di rendite". Nel 1778, la nuova chiesa era pronta. Seguendo i criteri dell'epoca, la vecchia basilica venne abbattuta, ad eccezione della cappella dei SS. Padri e delle fondamenta, che furono rinforzate. L'interno della basilica, specialmente dopo il moderno rivestimento delle pareti e la pavimentazione con marmi policromi, è luminoso ed armonico. La prima cosa che attira l'attenzione del visitatore della basilica è l'ambone con mosaico del secolo XII, recentemente ricostruito. E' molto probabile che sia un dono del re di Sicilia Ruggiero II, il quale volle che la regina Sibilla, sua seconda moglie morta a Salerno nel 1150, fosse seppellita nella chiesa della badia e le fosse edificata una magnifica tomba ornata di mosaici, di cui si conserva solo il sarcofago. Il seppellimento nella chiesa o nel cimitero della badia era ordinariamente accompagnato ad una donazione. Dell'antica basilica, oltre all'ambone, resta ancora, in fondo alla navata destra, la "Cappella dei SS. Padri", ristrutturata e rivestita di marmi policromi (mosaici fiorentini) nel 1641. Subito dopo la balaustra, prima della cappella seicentesca, si notano sulle pareti quattro statue marmoree, notevoli quelle cinquecentesche di S. Felicita e di S. Matteo. Procedendo, a destra è la cella grotta di S. Alferio con l'urna che ne custodisce le reliquie e resti di affreschi parietali del XIV secolo; a sinistra è l'altare di S. Leone con la sua urna e, sulla parete, altre reliquie di santi; di fronte l'altare del SS. Sacramento con l'urna contenente le reliquie di S. Costabile. Gli affreschi della basilica sono opera del pittore calabrese Vincenzo Morani, che nel 1857 vi rappresentò: sulla volta del coro "S. Alferio in contemplazione della SS. Trinità"; nella cupola una visione dell'Apocalisse, cioè l'"Adorazione del Redentore"; nel transetto a destra la "Morte di S. Benedetto" con altre scene della sua vita e santi e sante benedettini; a sinistra la "Resurrezione" con profeti ed apostoli. Il suo capolavoro però è la tela della "Deposizione dalla croce", che si trova sull'altare del transetto a sinistra. Sono da notare inoltre il quadro del primo altare a destra dell'ingresso rappresentante "S. Mauro" di Achille Guerra, il trecentesco altorilievo della Madonna con Bambino tra San Benedetto e Sant'Alferio, opera di Tino da Camaino, la porta del battistero (sec. XVI) a sinistra e il portale marmoreo con la bellissima porta cinquecentesca della sagrestia. Sotto i 12 altari della basilica sono deposte le reliquie dei 12 abati santi o beati della badia. Nel paliotto è inserita una lastra di marmo dell'XI secolo. Accanto alla chiesa è da segnalare la fontana realizzata nel 1772 da Tommaso Liguoro.

 
 

Il chiostro

 
 

Nel poco spazio esistente fra la grotta Arsiccia e il ruscello Selano non si è potuto creare un chiostro proporzionato alla grandiosità del monastero. In compenso il piccolo chiostro dei secoli XI-XIII è la parte più suggestiva e caratteristica della badia. Un muro romano, ancora in piedi in questa parte più profonda della grotta, dimostra l'esistenza di costruzioni anteriori alla venuta di Alferio. La piccola scultura del fauno, rinvenuta qui, in un muro che delimitava una porzione della grotta, è forse segno di un culto pagano esercitato nella grande spelonca. Il piccolo chiostro ha subìto diverse manomissioni, ma nella sua struttura fondamentale è stato messo in relazione con i coevi chiostri amalfitani e con quelli del San Domenico di Salerno e di Santa Sofia a Benevento, spartiti in quadrifore con archi a ferro di cavallo che testimoniano influenze musulmane. Adiacente al chiostrino è la grande sala del Capitolo del secolo XIII. In essa sono sistemati alcuni pregevoli sarcofagi romani, attribuiti per lo più al III secolo d.C. Essi furono inviati qui da illustri personaggi per esservi seppelliti.

 
 

 
 

Il Museo

 
 

 
 

La splendida sala del sec. XIII adibita a museo è stata una scoperta avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, grazie ad un saggio fortuito che rilevò l'esistenza di un capitello sulle pareti e, successivamente, delle colonne e di tutta la struttura della sala. La volta è stata rifatta perché irreparabilmente lesionata; le finestre originali non si sono potute ricostruire perché mancavano gli elementi, ma tutto il resto conserva la sua originalità. Era parte di un palazzo, distinto dal monastero e adibito a foresteria. Un'altra sala dello stesso palazzo di dimensioni quasi uguali e adiacente alla prima dalla parte occidentale, crollò all'inizio di questo secolo, ma al piano terra resta ancora l'immenso salone su cui le due sale erano edificate. Tra le opere custoditevi: una Madonna con Santi, tavola senese del XV secolo; un Cofanetto d'avorio dell'XI secolo; un Polittico di scuola raffaellesca, attribuito ad Andrea Sabatini; tele di numerosi pittori caravaggeschi; numerosi reperti archeologici; una Collezione di monete, completa ed ordinata delle Zecche longobarde e normanne di Salerno; maioliche abruzzesi e vietresi; codici miniati.

 
 

L'archivio

 
 

 
 

L'archivio della Badia è molto importante. Nelle due elegantissime sale della fine del secolo diciottesimo sono contenuti preziosi manoscritti pergamenacei e cartacei, più di quindicimila pergamene, di cui la più antica è del 792 d. c., e un considerevole numero di documenti cartacei. Ciò ha richiamato l'attenzione di numerosi studiosi provenienti da ogni parte. Dei codici (manoscritti in pergamena) esiste un catalogo completo a stampa ancora disponibile; presto sarà approntato anche il catalogo dei manoscritti cartacei. Tra i codici più famosi ricordiamo la Bibblia visigotica del secolo IX, il Codex Legum Longobardorum (Codice di leggi longobarde) del secolo XI, le Etymologiae di Isidoro del secolo VIII e il De Temporibus del Ven. Beda del secolo XI, ai cui margini i monaci annotarono gli avvenimenti più importanti della badia e del mondo contemporaneo. Tali note marginali costituiscono gli Annales Cavenses più volte pubblicati. Quanto alle pergamene, i documenti privati sono ordinati in ordine cronologico e sistemati nella sala diplomatica in arche di cui ciascuna contiene 120 pergamene. I documenti pubblici (bolle papali o vescovili, diplomi di imperatori, re e signori feudali) si trovano invece nell'arca magna in numero di oltre settecento, ordinati anche essi cronologicamente. La consultazione è resa facile agli studiosi da un Regestum Pergamenarum, manoscritto di otto volumi in folio compilato da monaci nel secolo scorso. Vi si trova il riassunto di tutte le pergamene con l'indicazione dell'arca in cui sono contenute. I documenti già pubblicati nel Codex Diplomaticus Cavensis appartengono agli anni 792-1080 e sono esattamente 1669.
La Biblioteca della Badia possiede oltre 40.000 volumi con numerosi incunaboli e importanti cinquecentine. I volumi sono catalogati e sistemati in tre sale. Le scienze più rappresentate sono la Patristica, la Teologia, il Diritto e, soprattutto, la storia. Un catalogo per autori ne facilita la consultazione.

 
 

 
 

Il Collegio

 
 

 
 

Il Collegio "San Benedetto" fu istituito nel 1867 ed è situato nella parte più alta del monastero in locali ampi ed ariosi.
I collegiali frequentano le scuole della Badia (aperte ad esterni e semiconvittori, anche ragazze), che comprendono la scuola media, il ginnasio e il liceo classico, pareggiate alle statali nel 1894, e il liceo scientifico che è stato istituito di recente ed è legalmente riconosciuto.
I numerosi ex - alunni che occupano con onore posti elevati nella vita politica, amministrativa e professionale, attestano i lusinghieri risultati raggiunti dal collegio in oltre un secolo di attività.

 
 

 
 

 
 


 

 
 

FONTI : 

 
 

  
 

 
 

 
 

 
 

  

mercoledì 14 luglio 2010

La Cappella di Rosslyn

La misteriosa Cappella di Rosslyn


 


Rosslyn è una piccola e tranquilla località situata a sud di Edimburgo, famosa per una cappella gotica medievale e un castello il cui nome richiama quello della località. La Cappella di Rosslyn sembra una cattedrale ed è l'edificio sacro medievale
più enigmatico d'Europa, ricca com'è di misteri e simboli esoterici. Per la sua costruzione furono chiamati in Scozia i migliori scalpellini e architetti. Ogni scultura di angelo, santo o cavaliere, doccione o colonna ha un significato preciso.

 
 

Nell'XI secolo la famiglia St. Claire fece costruire la propria roccaforte su una collina chiamata College Hill; i lavori durarono più di quarant'anni e terminarono con la costruzione della Cappella nel 1445 voluta da William St. Claire che fece inoltre ricostruire il castello su un promontorio a valle della roccaforte principale.

 
 

Alla Cappella di Rosslyn si accede dalla porta nord e il visitatore è accolto dallo sguardo terribile di due grandi demoni che sputano acqua ai lati del portale; sulla finestra a destra del portale ci sono un cavaliere a cavallo e due arieti che si affrontano; sulla finestra sinistra si vedono una volpe che insegue una gallina, un angelo che suona uno strumento e un uomo o una donna in atteggiamento premuroso.

Lo sguardo è poi attratto dal soffitto a volta nel quale sono scolpite innumerevoli rose, lilium, fiorellini e pentagrammi (il pentagramma e le rose erano decorazioni usate tradizionalmente nei templi babilonesi in onore della dea Ishtar e di suo figlio risorto Tammuz). Da un lato della volta si vedono due mani scolpite nella pietra che reggono lo stemma della famiglia St. Claire.

 
 

Cultura celtica e simboli gnostici nella cappella di Rosslyn

Oltre le rappresentazioni di santi e martiri, nella Cappella di Rosslyn ci sono molti simboli gnostici come il Sole e la Luna del dualismo del Graal, figure di animali, draghi e un gran numero di giovani Celti (più di cento), un fatto strano per una costuzione cristiana.

L'influsso della cultura celtica su quella cristiana è sicuramente stata notevole ma la presenza nella Cappella del dio celtico Cernunnos con le corna, simbolo di fertilità, è a dir poco curiosa.

Tra le sculture vi è anche la testa del grande mago Hermes Trismegistus, fondatore dei testi ermetici che sono alla base delle scuole iniziatiche greche. Il mago viene spesso paragonato al dio egizio Toth che rappresenta la conoscenza; non è un caso che il nome della località Rosslyn in lingua gaelica significhi "antica conoscenza", vale a dire il sapere tramandato di generazione in generazione.

 
 

La colonna dell'apprendista nella cappella di Rosslyn


Nella Cappella di Rosslyn vi sono tredici colonne che formano un'arcata a dodici punte rappresentante lo Zodiaco. La colonna dell'apprendista rappresenta una trasformazione tra la mitologia nordica precristiana dello Yggdrasil: il grande albero celtico che sostiene l'universo si trasforma nell'albero della vita di tradizione cristiana; la chioma dell'albero formata dalle colonne è un richiamo ai dodici segni dello Zodiaco; le radici simboleggiano le forze terrene, rosicchiate dai draghi di Nifelheim per prenderne la fertilità. Nifelheim era il mondo sotterraneo dei Vichinghi; un probabile richiamo alle origini nordiche della famiglia St. Claire.


 


 


Nella Cappella di Rosslyn c'è quindi una curiosa miscela del patrimonio nordico, celtico, egizio, greco e cristiano.

Vi sono dei cicli scultorei che rappresentano la scena di una danza di morti, una crocefissione, le sette virtù e i sette peccati capitali.

Una scultura incatenata rappresenta l'angelo caduto della luce, Lucifero, ed è interessante notare come i cordoni a destra e a sinistra della scultura formino una S rovesciata: si ipotizza che vi sia una relazione tra l'angelo della luce chiamato Lucifero e il Sole.

 
 

Altri misteri della cappella di Rosslyn

Una delle cose più sorprendenti della Cappella di Rosslyn sono alcune sculture che rappresentano l'aloe americana, il cactus e le piante di mais, nonostante l'America non fosse stata ancora scoperta da Colombo.

Tuttavia per un circolo di iniziati scozzesi questo non è un mistero: pare infatti che il nonno di William St. Claire fosse giunto sul continente americano molto tempo prima di Colombo, sulla base dell'esperienza dei suoi antenati Vichinghi che certamente già navigavano verso il Nordamerica prima del X secolo.

Nella Cappella, sotto le sculture, ci sono i resti di Robert Bruce, che combattè per l'indipendenza della Scozia, di William St. Claire e di alcuni costruttori della Cattedrale.

Di fronte alla Lady Chapel c'è una colonna chiamata colonna del maestro, costruita appunto dal maestro del cantiere.

Tra le tante sculture troviamo un angelo che tiene tra le mani il cuore di Robert Bruce e un'altra figura che mostra una croce templare; altre raffigurano i simboli della massoneria che si sarebbe costituita ufficialmente cento anni più tardi.

Tra questi simboli ce ne sono alcuni significativi per i massoni, come la figura del fabbro Adonhiram: secondo la leggenda costui era il fabbro maestro, ucciso da tre dei suoi assistenti subito dopo aver completato il tempio di Salomone.

 
 

Le leggende di Salomone e la mistica ebraica nella cappella di Rosslyn

Per molte cattedrali gotiche le leggende su re Salomone ebbero un ruolo importante:

si narra che nel Tempio furono erette due colonne dal maestro Adonhiram, chiamate rispettivamente colonna di Jachin e colonna di Boaz; nella Cappella di Rosslyn queste colonne possono essere ritrovate nelle colonne cosiddette dell'apprendista e del maestro, poste a guardia dell'entrata del Paradiso.

C'è nella Cappella di Rosslyn un chiaro richiamo alla mistica ebraica: nei Libri di Hechaloth del IV secolo circa si ritrova l'antica idea dell'anima che si eleva e torna alla divinità celeste; nella descrizione di un peregrinaggio nella grande Hechaloth attraverso i sette palazzi che si trovano nel cielo superiore, il viandante deve giungere di fronte ai guardiani della porta celeste.

Nel regno dei cieli può entrare solo colui che conosce una parola magica segreta.

E con i guardiani scolpiti nella pietra, il cui significato orgininale è da ricercarsi sul piano magico-astrale, le colonne della Cappella di Rosslyn potrebbero essere identiche a quelle del tempio di Salomone (oggi del Tempio non rimane più nulla se non un muro chiamato "del pianto").


 

Per capire perchè i costruttori della Cappella di Rosslyn attribuivano un simile importante significato ad Adonhiram e al simbolismo salomonico è necessario approfondire la leggenda sul fabbro maestro:

si narra che la Regina di Saba avendo sentito decantare la saggezza del re Salomone e delle sue costruzioni, volle fargli visita a Gerusalemme per conoscerlo di persona.

Quando Salomone vide la regina, se ne innamorò e volle incoronarla regina d'Israele; la condusse attraverso il tempio, mostrandole i nuovi lavori che egli aveva commissionato a Adonhiram. Costui era un uomo speciale, temibile e misterioso; si diceva che evitasse gli uomini perché le sue origini non erano umane.

 
 

I simboli templari nella cappella di Rosslyn

I simboli esoterici e altri simboli scolpiti nella pietra, presenti nella Cappella di Rosslyn, ci rimandono all'influenza dei Cavalieri Templari.

In alto, sull'arco di trionfo della Cappella si trova l'Agnus Dei, un simbolo strettamente connesso all'ordine dei Templari tanto da essere considerato un loro Sigillo.

L'Agnus Dei rappresenta un agnello che tiene una bandiera sulla cui punta è impressa una croce a bracci equidistanti, e talvolta anche una croce templare.

Tra gli altri simboli templari troviamo un pentagramma, due cavalieri su un cavallo, una rappresentazione stilizzata del viso di Gesù come quella della Sindone e una colomba con un rametto di ulivo. Molti di questi simboli sono semplicemente cristiani e la loro attribuizione ai templari non è quindi facile.


 

Le origini della cappella di Rosslyn


Per capire l'influsso esercitato dai Templari sulla cappella di Rosslyn, bisognerebbe capire a quale scopo i St. Claire la fecero costruire.

Prima dell'anno Mille, il continente europeo veniva saccheggiato dalle bande di Vichinghi provenienti dalla Norvegia. Alcune tribù divennero sedentarie e si stabilirono in Irlanda, Gran Bretagna e Normandia. Il capo di queste orde, un certo Hrlof o Rollone saccheggiò la valle del Tal; si giunse alla pace solo quando il re dei Franchi, Carlo il Semplice, cedette a Rollone il territorio del corso inferiore della Senna e la città di Rouen, il tutto con il leggendario trattato di St. Clair-sur-Epte. La presenza del nome St. Clair nel trattato, non è certo un caso. I St. Claire sarebbero i discendenti di Rollone che attraverso un attenta politica di successione estese la propria influenza fino a Chaumont, Gisors, d'Evraux, Blois e ai conti di Champagne.


 

Guglielmo il Conquistatore, re d'Inghilterra, era egli stesso un successore di Rollone; da questa linea deriva anche il primo St. Claire che partecipò alla prima crociata in Terrasanta guidata da Goffredo di Buglione nel 1096. In seguito a questa crociata, Goffredo fece erigere un'abbazia sul monte Sion, Notre Dame du Mont de Sion. Pare che per ben due volte, nel XIII e nel XIV secolo, il priore di questa Abbazia appartenesse alla famiglia St. Claire. Caterina di St. Claire sposò addirittura uno dei nove Templari di questa Abbazia, proprio Hugo di Payens. Risale a questo periodo, una stretta relazione tra l'ordine dei Templari e gli appartenenti alla famiglia St. Claire di Rosslyn in Scozia.

 
 

I simboli templari nella tomba di St. Claire

Nella Cripta della Cappella è sepolto William St. Claire, morto nel 1330 in Spagna, mentre con alcuni suoi compagni portava in Terrasanta il cuore di Robert Bruce.

Nella sua tomba si trovano simboli templari: una spada, la croce e l'albero della vita. Appare chiaro che William St. Claire fece costruire la Cappella per incidere sulla pietra gli insegnamenti gnostici: all'epoca l'inquisizione mandava al rogo non solo i libri ma anche gli autori ed egli pensò bene di scriverne uno sulla pietra della Cappella di Rosslyn. Forse è la prova che alcuni Templari abiurarono la fede cattolica-romana per seguire la dottrina gnostica.

 
 

 

martedì 13 luglio 2010



  •  

Cosa significa vedere i numeri maestri o doppi?


Quanto spesso avete notato i numeri 11:11, 12:12, 10:10, 22:22, 12:34, 2:22, 3:33, 4:44 or 5:55 guardando l'orologio o apparirvi nei posti più impensati? Sono sicura molte volte.

C'è una ragione per tutto questo? Sembra proprio di si.

Sempre più persone al mondo concordano sul fatto di vedere sempre più i numeri maestri, ovvero una serie di numeri doppi o tripli. La frequenza con cui questo accade sta accelerando che ormai non si può più parlare di semplice coincidenza.

Il fenomeno sta avendo proporzioni gigantesche e tutti concordano sul fatto che ci sia un più profondo significato, un messaggio in codice per noi dal mondo spirituale.

Questi numeri hanno un grande fascino e molte tradizioni sia antiche che più recenti, dichiarano e assicurano sul loro potere; il potere di attivare in noi codici, memorie e capacità nuove. Questi numeri rappresentano un canale di comunicazione aperto con l'universo.

Tra i numeri maestri il più frequentemente avvistato e' 11 e in particolar modo nella sua forma di 11:11. Ma cosa significa?

Significa che una Realtà Superiore si è inserita nella nostra vita quotidiana.  Si sta verificando una fusione fra il nostro vasto cosmo e i nostri corpi fisici. Questo trasforma il nostro DNA e ci permette finalmente di diventare vivi e vibranti e totalmente reali.

La prossima volta che vedete l'11:11, fermatevi e sentite le impercettibili energie attorno a voi. L'11:11 è una chiamata al risveglio inviata a voi stessi. Un ricordo del vostro vero scopo qui sulla Terra.

Di solito, durante questi momenti di intensificata energia o cambiamenti personali accelerati, noterete molto più frequentemente l'11:11.

Vedere i Numeri Maestri dell11:11 è SEMPRE una conferma che siete sul giusto percorso.

E che dire degli altri numeri? Ecco a voi il significato degli altri numeri maestri o doppi:

11 = Nascita e ancoraggio del Nuovo.

22 = Costruire sul Nuovo. Costruire Nuove vite e un Nuovo Mondo.

33 = Servizio Universale attraverso l'accelerazione del nostro Essere Unico.

44 = Equilibrio fra spirituale e fisico, la riconfigurazione del nostro labirinto evolutivo. Come Sopra, così Sotto. La creazione delle fondamenta delle nostre Nuove Vite.

55 = Raggiungere la libertà personale liberandosi dal passato ed essere totalmente reali.

66 = Adempiere alle nostre responsabilità in maniera creative e gioiosa.

77 = Profonda introspezione e rivelazione. Affilarci alla nostra più intima essenza.

88 = Conoscenza a fondo dell'abbondanza e dell'integrità in tutti i reami.

99 = Il completamento di un ciclo evolutivo maggiore. Tempo per un altro salto quantico.

I numeri come 111, 222, 333, 444, 555, etc. sono considerati come Numeri Maestri Superiori. Ognuno di questi ha un'unica risonanza che influisce su di noi e ci attiva a livello cellulare profondo.

Fine modulo


La leggenda del castello di Cotone



Le vicende che portarono all'abbandono dell'antica cittadella del Cotone sono sconosciute ai più. Indicato come borgo, città, corte o castello, era situato all'estremità settentrionale del territorio Comunale di Scansano, sullo spartiacque fra l'Ombrone e l'Albegna, sulla riva del torrente Senna, che getta le sue acque nel Trasubbie. L'ipotesi che l'insediamento fosse di origine romana, supportata dal ritrovamento, in una località vicina, Pian d'Orneta, di monete romane, è una ipotesi di cui, fin'ora, non si hanno fonti documentarie certe. Nella zona del castello sono state trovate, occasionalmente, anche monete fiorentine risalenti alla fine del decimo secolo e dello Stato Senese. Fonti storiche attestano che nei primi decenni del Duecento, la comunità del Cotone riconoscesse al Vescovo di Sovana un tributo annuo. Poco più di un secolo dopo, la famiglia dei Maggi, che in seguito assumerà l'appellativo di Cotoni, e che dominava su queste terre, pose il castello del Cotone e quello di Montorgiali sotto la protezione dello Stato Senese. Sul finire del Trecento un congiurato contro Siena, che compiva scorrerie per le terre di Maremma, si istallò al castello del Cotone. Ma in seguito, assediato dalle truppe senesi, prima di abbandonare il castello, lo incendiò. La vita alla cittadella fortificata dovette riprendere attivamente, tant'è che due secoli dopo furono redatti gli statuti della comunità.
È dopo la fine del Cinquecento che il Cotone iniziò un periodo di declino, fino al completo abbandono, con la fondazione, da parte delle famiglie cotonesi, del borgo rurale di Polveraia.
Fin qui ha parlato la storia. La leggenda invece ci narra dell'abbandono degli abitanti del Cotone del XVI secolo, di comportamenti che stanno al di fuori della morale cristiana: si diceva che praticassero il "ballo angelico". L'emissario del vescovo, inviato ad indagare sulla fondatezza dei sospetti, fu cacciato. Il vescovo stesso, allora, decise di intraprendere di persona l'impresa di riportare alla rettitudine quelle genti. Narra la leggenda che rinchiusero il vescovo in una botte, e la gettarono nella Senna. Il vescovo, dentro la botte inchiodata trasportata dalle acque del torrente, passò nelle Trasubbie, e da queste nel meno impetuoso, ma torbido Ombrone. Raggiunto il ponte di Istia, la botte s'incagliò contro l'arcata e come per incanto le campane cominciarono a suonare. Agli abitanti del borgo parve di sentire "sotto il ponte / c'è il vescovo conte / don don don / don dòlon dolòn / sotto il ponte / c'è il vescovo conte / …". Corsero a recuperare il prelato, che in seguito inviò gli armigeri a distruggere il castello del Cotone.
C'è un'altra leggenda legata alla distruzione del fortilizio: narravano i vecchi di Polveraia che le anime dei soldati della cavalleria del Cotone non trovassero pace, e che ogni cento anni si sentissero arrivare tanti soldati a cavallo. A questa scadenza, nella notte, sembrava che nella strada selciata passasse uno squadrone di cavalleria: si sentivano i rumori degli zoccoli, perfino il fiato dei cavalli stanchi del lungo cavalcare; i vetri delle finestre tremavano, l'acqua nella brocca sussultava. E quando pareva che la cavalleria fosse proprio sotto casa, improvvisamente calava un silenzio di tomba: cavalli e soldati scomparivano, non s'udiva più alcun rumore. Dicevano i vecchi che si trattava delle anime dei cotonesi licenziosi, condannate, per punizione, a tornare a cavalcare su quelle terre, per sparire improvvisamente, nella campagna illuminata dalla luna.


 

lunedì 12 luglio 2010




Strana storia quella di San Galgano, ma molto simile a quella del più noto San Francesco.
San Galgano: La Leggenda della Spada nella Roccia


Galgano Guidotti nacque nel 1148 da nobili genitori d'origine salica nel borgo di Chiusdino (SI), piccolo centro che sorge compatto ad ovest del complesso abbaziale.
Le vicende della sua vita sono state in parte trasfigurate da leggende che nascondono poeticamente una base storica. Una leggenda racconta che la sua vita ebbe del miracoloso sin dal giorno della sua nascita; infatti si narra che i genitori Guidotto e Dionigia lo concepirono dopo molti anni di sterilità per intercessione di San Michele Arcangelo.
Le documentazioni storiche ci riportano che Galgano ebbe una vita normale, felice e spensierata. Bello e prepotente, passò gli anni della gioventù quasi come tutti i nobili suoi coetanei, tra bagordi, avventure, belle donne e violenza. Finalmente ottenne ciò che da sempre ambiva: divenne cavaliere e con questo titolo conobbe la guerra, il dolore e la ferocia degli uomini. Dopo aver trascorso gli anni migliori con la morte accanto, decise di abbandonare una vita ormai consumata tra il ferro e il sangue. Il 21 dicembre del 1180, lasciò per sempre la famiglia, la promessa sposa Polissena di Civitella Marittima e, tra lo scherno dei cavalieri suoi pari, si spogliò delle armi ritirandosi in solitudine in cima ad una collinetta, dove si costruì come dimora una capanna di forma circolare fatta di rami e frasche. All'interno della povera casa conficcò la sua spada nella fessura di una roccia in segno di rinuncia alla violenza, trasformandola così in un crocifisso davanti al quale pregare. La spada ritta nel suolo aveva per i cavalieri del Medioevo un profondo significato spirituale: essa rappresentava e simboleggiava la Croce, segno di fede e di aspirazione alla Crociata. Secondo alcuni, probabilmente, la roccia in questione doveva essere il centro di un più antico luogo sacro, dove spesso ci si radunava per solenni giuramenti. Passarono 12 mesi tra privazioni, preghiere e miracoli, quando, all'età di trentatre anni, il 3 novembre del 1181 Galgano morì.


Quattro anni dopo fu proclamato Santo da Lucio III. La cosa sorprendente è come la leggenda di Excalibur si intrecci con la spada di San Galgano, anch'essa infissa nella roccia, sebbene con qualche variante. Galgano visse nel periodo in cui il mito di Excalibur era già sicuramente conosciuto di Europa, ma è anche legittimo pensare che con ogni probabilità San Galgano non abbia mai sentito parlare della leggenda di Re Artù (che raggiunse un'effettiva popolarità solo agli inizi del XIII° secolo) e realmente abbia conficcato la sua arma nel masso in cui si trova ancora oggi. Non possiamo sapere se qualcuno lo fece dopo la sua morte, ma comunque le ultimissime analisi stabiliscono che la spada è autentica e antica. Dobbiamo anche considerare che a quel tempo era consuetudine per i crociati, quando non avevano a disposizione un vero e proprio crocifisso, pregare davanti alla propria spada, per l'appunto infissa nel terreno. Ricordiamo che ai tempi la spada di un cavaliere era benedetta da un Vescovo, assumendo così un significato spirituale legato alla croce del Cristo. A sbiadire l'analogia storica delle due spade resta anche il fatto che San Galgano la sua la conficcò nel terreno come rifiuto alla violenza, mentre Artù la estrasse per conquistare il trono, facendo scorrere fiumi di sangue.


I misteri però iniziano dopo la sua morte: nessuno sa dove siano inumate le sue spoglie. Frammenti storici raccontano che la spada fu seppellita accanto a lui, e probabilmente così fu, lasciando la spada come croce sulla tomba. Oggi la spada è protetta da una cupola di plexiglas, dopo che in tempi recenti uno squilibrato, dopo ben 4 vani tentativi di rubarla, la spezzò a martellate.


Ricordiamo che l'arma di San Galgano sino alla fine del secolo scorso si poteva estrarre liberamente dalla pietra, ma per paura che già allora qualche malintenzionato la rubasse, nella fessura tra la ma e roccia venne colato del piombo fuso. Da circa un anno, allo scopo di far luce sulla misteriosa spada, è stato dato il via ad una serie di ricerche e da una recente ispezione, effettuata con un "georadar", ha individuato sotto il pavimento della cappella una cavità rettangolare. Che sia la tomba del santo?

susanna franceschi

domenica 11 luglio 2010


leggere e scrivere nell'antico egitto


 

storia e sviluppo dell'antico egiziano

L'egiziano occupa una posizione particolare tra le varie lingue dell'umanità: oltre ad essere una delle più antiche di cui sia rimasta traccia, è quella con la durata più lunga, circa 4000 anni, se non si tiene conto del fatto che la sua forma più recente, il copto, è ancora utilizzata come lingua liturgica della Chiesa cristiana d'Egitto.

L'egiziano rientra nel gruppo delle lingue camito-semitiche, di cui costituisce un ramo autonomo. Il momento della separazione da questo ceppo comune è motivo di discussione. Le due caratteristiche principali che condivide con le lingue di questo ceppo sono il fatto di annotare graficamente solo le consonanti e di presentare un vocabolario costituito da parole a radice biconsonantica o triconsonantica.

La lingua egiziana ha subito modificazioni nel corso dei millenni, che ne hanno interessato la morfologia, la sintassi ed il lessico. Si è soliti suddividere la sua storia in cinque periodi. Da questa suddivisione è esclusa la lingua delle prime iscrizioni, risalenti alla fine del periodo predinastico ed all'inizio di quello dinastico, poiché troppo brevi e di contenuto troppo succinto per permettere un'analisi linguistica significativa.

La prima fase, collocabile nell'Antico Regno e nel I Periodo Intermedio, è chiamata "antico egiziano". I documenti principali che la utilizzano sono il corpus religioso dei "Testi delle Piramidi" ed un certo numero di autobiografie, iscritte nelle tombe di privati appartenenti all'élite amministrativa dello Stato.

Discendente della più antica fase linguistica è il "medio egiziano", la lingua del Medio Regno, del II Periodo Intermedio e della prima parte del Nuovo Regno. È considerata la lingua classica dell'antico Egitto, e per questo motivo rimane in uso come lingua di tradizione per testi religiosi, rituali e monumentali fino all'epoca romana. è la lingua in cui vengono redatti i capolavori di narrativa della letteratura faraonica e gli insegnamenti morali, testi di riferimento nella formazione scolastica e personale, ma è anche la lingua dell'amministrazione e della cultura religiosa e funeraria dell'epoca.

Il "medio egiziano" fu rimpiazzato dal "neo-egiziano" come lingua parlata dopo il 1600 a.C., restando in uso fin verso il 600 a.C. La sua utilizzazione corrente come lingua scritta si colloca verso il 1300 a.C., anche se alcune sue forme grammaticali e sintattiche sono riscontrabili già in testi di epoca precedente. È la lingua dei documenti amministrativi e giudiziari, delle lettere e di molti componimenti letterari dell'epoca ramesside e del III Periodo Intermedio: una produzione molto ricca, nota grazie al grande numero di testimonianze lasciate dalla comunità di Deir el-Medina.

A partire dall'VIII secolo a.C., si cominciò a diffondere l'uso del demotico. Questo termine indica sia una fase linguistica dell'egiziano sia una sua forma di scrittura. Per le sue strutture grammaticali, è una lingua molto vicina al neo-egiziano. Da un punto di vista grafico, se ne distanzia completamente, trattandosi di una stenografia in cui spesso un singolo segno corrisponde all'abbreviazione di un gruppo di segni dello ieratico, dal quale si sviluppò durante la XXVI dinastia. Il demotico rimase in uso fino al V secolo d.C., presentando lungo il suo sviluppo differenze ricollegabili sia all'area geografica ed al periodo di utilizzazione, sia alla tipologia di testo. Fu introdotta come lingua di Stato sotto Psammetico I, intorno al 650 a.C., e divenne poi la scrittura utilizzata per la stesura di testi amministrativi e quotidiani. Da quest'ultimo uso derivò la sua denominazione, che in greco significa "scrittura del popolo". In epoca tolemaico-romana, il demotico fu utilizzato anche per la stesura di testi di livello più alto, come quelli religiosi e letterari, che lasciano intravedere in alcuni casi l'afflusso di nuove idee derivate dal contatto con la cultura greca.

Ultima fase della lingua egiziana è il copto, che presenta una grammatica simile all'egiziano parlato del II-III secolo d.C., ed è attestato a partire da quest'epoca. Legato al demotico, presenta paralleli con la sintassi del greco, prestiti lessicali da quest'ultima lingua nonché la sua stessa grafia. Il copto è scritto con i 24
segni dell'alfabeto greco maiuscolo, l'"onciale biblico", con l'aggiunta di 6/7 grafemi demotici, che trascrivono suoni sconosciuti al greco e sono adattati nella forma alle lettere greche. In copto sono annotate anche le vocali. Oltre ad una ricca produzione letterario-religiosa, il copto ha lasciato molte testimonianze della sua utilizzazione quotidiana: sono molti gli ostraka che riportano conti, lettere ed esercizi scolastici.

A partire dal IX secolo, l'arabo si sostituisce, come lingua parlata, al copto, che si estingue verso il 1200 d.C. Tuttavia, tale lingua è tuttora utilizzata in particolari liturgie della Chiesa copta.


 

le scritture dell'antico egiziano

Il geroglifico è la forma di scrittura più antica dell'egiziano, oltre ad essere quella con la durata più lunga. I primi segni geroglifici risalgono ad un periodo precendente l'unificazione dello Stato faraonico, intorno al 3250 a.C., mentre l'ultima iscrizione conosciuta data al 394 d.C. Gli ambiti di utilizzazione di tale forma di scrittura sono svariati, anche se con il tempo questi si restringono ai testi religiosi ed a quelli a carattere monumentale. La ragione di questa specializzazione va ricercata nello sviluppo e nella diffusione della sua forma corsiva, lo ieratico, più semplice e veloce per redigere testi di uso comune. Nell'epoca in cui i Greci entrarono in contatto con l'Egitto, i geroglifici erano usati soprattutto nelle iscrizioni monumentali su pietra. Da questa caratteristica derivò il loro nome, che in greco significa "segni sacri incisi".

Questa scrittura è composta da segni figurativi, o iconici, che riproducono elementi o esseri del mondo egizio. L'accentuato carattere figurativo che la caratterizza non deve indurre a credere che si tratti di una scrittura ideografica. Il geroglifico è un sistema di scrittura complesso, in cui alcuni segni indicano dei concetti, mentre altri esprimono dei suoni. Il geroglifico fu adottato per esprimere graficamente l'antico, il medio, il neo-egiziano e l'egiziano di tradizione.

Lo ieratico è la forma corsiva della scrittura geroglifica, di cui è un adattamento ed una semplificazione su supporti non monumentali. Non mancano esempi di utilizzazione in testi lontani dal quotidiano, come quelli religiosi, letterari e scientifici. Le origini dello ieratico coincidono con l'apparizione della scrittura in Egitto: i primi geroglifici semi-corsivi attestati alla fine del pre-dinastico costituiscono le prime fasi del suo sviluppo. Con la diffusione del demotico, l'uso dello ieratico fu limitato alla redazione di testi religiosi. Per questo motivo, i Greci le diedero il nome di "scrittura sacerdotale". Per la sua mancanza di figuratività non fu adoperata come scrittura monumentale, anche se in Epoca Tarda se ne ha qualche testimonianza su pietra. Veniva utilizzata per redigere testi su papiro e su ostraka.

Da un punto di vista grafico, lo ieratico mantenne una vicinanza con il geroglifico: infatti, è sempre possibile trascrivere un testo redatto in ieratico nella sua corrispondente forma geroglifica. Tuttavia, i segni sono spesso legati fra loro: con lo stesso colpo di pennello potevano essere resi gruppi corrispondenti a due o più segni geroglifici. Il nuovo segno così ottenuto è definito "legatura".

Fino all'XI dinastia, i testi in ieratico erano scritti in colonne, mentre a partire dalla dinastia seguente la stesura è effettuata su righe orizzontali. Si attua una differenziazione tra gli stili di scrittura: da una parte si ha uno ieratico particolarmente corsivo, utilizzato per testi di carattere profano, dall'altra uno più elegante, riservato a testi di una certa importanza. La forma più corsiva fu all'origine di un'ulteriore differenziazione grafica alla fine del Nuovo Regno, costituita da due varianti regionali: lo "ieratico anormale" in Alto Egitto ed il demotico in Basso Egitto, che soppiantò il primo nel corso della XXVI dinastia.

Il demotico non corrisponde solo ad una forma di scrittura, ma anche ad una fase linguistica. Il suo aspetto grafico equivale ad un'estrema stilizzazione dello ieratico, costituendo una stenografia, in cui un solo segno può corrispondere ad un gruppo di segni ieratici. È attestato su papiro e su ostraka, anche se alla fine dell'epoca faraonica fu utilizzato anche su supporti monumentali. L'esempio più noto è costituito dalla Stele di Rosetta, elemento chiave nella storia della decifrazione, che riporta un decreto di epoca tolemaica redatto in geroglifico, demotico e greco.


 

storia della decifrazione dei geroglifici

La diffusione del cristianesimo segnò la fine dei culti pagani in Egitto e, verso il V secolo d.C., si perse la conoscenza dell'antico sistema di scrittura geroglifico. Con il passare del tempo, i geroglifici entrarono a far parte dell'immaginario collettivo come una delle stranezze che caratterizzavano la civiltà dell'Antico Egitto. Già Diodoro Siculo, nel I secolo a.C., parlò dell'antica scrittura egiziana come costituita da segni dal valore puramente allegorico e figurativo.

Questa idea, che perdurò fino alla decifrazione, nel XIX secolo, alimentò una serie di interpretazioni e spiegazioni di questi segni in chiave esoterica. Ne è un esempio l'opera di Horapollon, redatta nel V secolo d.C., che accanto ad alcune notizie veritiere sul sistema geroglifico, enfatizzò la convinzione che si trattasse di una scrittura allegorica.

Durante il Rinascimento, molti studiosi s'interessarono all'antica scrittura egiziana, continuando su questa stessa linea. All'inizio del '600, il dotto linguista gesuita Athanasius Kircher, pur continuando a cercare spiegazioni simboliche ai segni, fu il primo a scrivere una grammatica ed un dizionario copto. La loro importanza fu fondamentale per le ricerche successive, dal momento che il copto costituisce l'ultima fase della lingua egiziana.

Nel '700 continuarono gli studi ed i tentativi di interpretazione dei geroglifici, e verso la fine del secolo una "ventata" di antico Egitto raggiunse l'Europa, grazie alla campagna in Egitto di Napoleone Bonaparte. Durante questa spedizione, nel 1799, fu trovata la Stele di Rosetta. La scoperta avvenne in modo casuale, mentre un gruppo di soldati stava scavando le fondazioni di un forte. La stele riporta un decreto redatto in geroglifico, demotico e greco. Dal momento che quest'ultimo era noto, e quindi poteva essere letto e tradotto, gli studiosi che accompagnavano Napoleone nella sua spedizione capirono l'importanza fondamentale di questo ritrovamento per la decifrazione dei geroglifici.

La stele fu in seguito requisita dagli Inglesi dopo la disfatta di Napoleone, ma copie del testo vennero inviate ai principali studiosi dell'epoca. Fra coloro che si cimentarono nello studio del documento, si ricordano Silvestre de Sacy, che riuscì ad interpretare correttamente alcuni nomi regali nel testo demotico, e lo svedese Akerblad, che isolò il valore fonetico di alcuni segni dei nomi regali. L'inglese Thomas Young fu il primo ad interessarsi anche alla parte geroglifica della stele.

Fu il giovane studioso francese Jean-François Champollion a compiere il passo finale, non limitando le sue ricerche alla sola Stele di Rosetta, ma andando alla ricerca di altri testi geroglifici ed allargando così le possibilità d'indagine. Il francese arrivò all'intuizione generale che aprì la via a tutti gli studi seguenti: la scrittura geroglifica non era solo figurativa né solo fonetica, ma un sistema misto di segni a valore ideografico e di segni corrispondenti a suoni. Nasceva l'Egittologia.


 

qualche principio della scrittura geroglifica

Il geroglifico è un sistema grafico complesso in cui alcuni segni, detti ideogrammi, indicano quello che rappresentano o vogliono significare; altri, i fonogrammi, indicano dei suoni; altri ancora, i determinativi, servono a segnalare la classe o categoria alla quale una parola appartiene.

Gli ideogrammi sono segni usati pittograficamente che possono indicare un oggetto, un'azione o un'idea, e sono accompagnati da un tratto verticale di riconoscimento. I segni utilizzati sono semplificazioni delle realtà dell'universo, e seguono i canoni del disegno egizio, secondo i quali la rappresentazione corrispondeva ad una spiccata caratterizzazione dei particolari per permetterne un sicuro riconoscimento. Le proporzioni degli elementi rappresentati non venivano rispettate per ragioni di spazio.

I fonogrammi, che corrispondono ad uno o più suoni, derivano dagli ideogrammi in virtù del principio del rebus: impiegano un disegno per il suo valore fonetico, senza riguardo per ciò che raffigura. I fonogrammi sono divisi in tre categorie principali: gli unilitteri, che esprimono una consonante, i bilitteri, che ne esprimono due, e i trilitteri, utilizzati per esprimerne tre.

I determinativi sono segni che non si leggono, ma che hanno la funzione di indicare la categoria di significato alla quale le parole appartengono. Servono anche a distinguere due termini di senso diverso ma scritti in modo identico, con il medesimo scheletro consonantico, dal momento che le vocali non erano graficamente espresse.

Numerosi segni geroglifici possono assumere, a seconda del termine in cui intervengono, le funzioni di ideogramma, di fonogramma o di determinativo.


 

orientamento e disposizione dei segni

Dal momento che ogni segno geroglifico è riconoscibile individualmente, i testi geroglifici possono essere scritti indifferentemente da destra a sinistra o da sinistra a destra. Possono essere scritti sia in righe orizzontali sia in colonne verticali. Poiché tutti i segni che raffigurano esseri animati (o parti del loro corpo) sono orientati nello stesso senso, la lettura comincia dal punto verso il quale tali segni sembrano dirigersi. La lettura, inoltre, si effettua sempre dall'alto verso il basso.

I segni geroglifici sono disposti sempre in maniera armoniosa, all'interno di quadrati ideali in cui i singoli segni occupano tutto lo spazio disponibile, pur mantenendo una minima distanza che permette di individuarli chiaramente.