venerdì 15 ottobre 2010





Le Rune



l sistema runico più antico è chiamato Futhark: esso divide le 24 rune in 3 gruppi (Aettir) formati ognuno da una serie di 8 rune e prende il nome dalle iniziali delle prime 6 rune del primo gruppo, chiamato il gruppo di Fehu.




Il gruppo Fehu racchiude in sé un microcosmo e finalità differenti. Rappresenta dalla prima runa Fehu, che significa bestiame, inteso come prosperità di beni, all'ottava runa Winjo, che indica gioia e onori, i presupposti per un'esistenza stabile e prospera.



Nel secondo gruppo chiamato di Hagalaz, il filo conduttore, invece, è il superamento delle avversità e l'imprevedibilità della vita; e quindi, il mettersi in discussione per arrivare a una consapevolezza di crescita interiore.



Il terzo e ultimo gruppo chiamato di Tywaz, inizia con Tiwaz e si conclude con Othila. Queste 8 rune danno una visione d'insieme sia dei progressi positivi che degli aspetti negativi, fornendo però, in ultima analisi, la speranza forte di una crescita spirituale dell'uomo.




Esiste una seconda chiave di lettura chiamata Uthark che è quella da noi usata per le risposte ai vostri quesiti. L'Uthark, al contrario del Futhark, che finalizza la sua azione nel dare controllo alla mente per scopi egoistici o voleri personali, segue, invece, l'ordine naturale che svela il segreto della creazione, delle forze vitali della natura e di noi stessi, poiché non è basato sulla mente ma sullo spirito. Per questa ragione il sistema Uthark era molto amato dagli sciamani runici, grazie al potere di apportare in una determinata situazione armonia, equilibrio e ordine, senza recare danno a nessuno.



Le Rune




Feh (Fehu): bestiame abbondanza, ricchezza, successo. Nelle culture primitive il bestiame veniva utilizzato come moneta. Il bestiame comportava duro lavoro e doveva essere nutrito e accudito, Fehu indica quindi una ricchezza "sudata" e non un guadagno inatteso. Significa anche soddisfazioni, obiettivi raggiunti, affari e fortuna. Capovolta indica difficoltà finanziarie, passività e noia.


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Ur: la forza primitiva,la resistenza e l'energia che deve fluire in noi senza però dominarci. Essa esprime la volontà di combattere contro tutte le avversità e la capacità di fronteggiare chiunque. Può anche significare salute di ferro, coraggio, fiducia in sé stessi. Capovolta indica durezza di sentimenti, salute cagionevole, occasioni perdute e delusioni.


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Thurs: Spina, protezione. Questa runa impersona il potere del martello del dio del tuono Thor che impone rispetto. Essa raffigura la difesa, l'azione conscia della mente. Per la pianta la spina è una protezione per tenere lontano i possibili nemici. Significa anche fortuna e protezione nelle imprese, rigenerazione. Capovolta indica scoraggiamento, resistenza passiva e incertezza.


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Ass: La runa del suono soprattutto nella lingua intesa come comunicazione intelligente e della consapevolezza. Significa onestà, messaggi, incontri e successo in un esame o un test. Capovolta è presagio di cattivi consigli, falsità, inganni e consiglia quindi prudenza nei rapporti con gli altri.


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Reid: Ruota, viaggi, percorso. Questa runa rappresenta il movimento e la forza di una persona nelle decisioni da prendere. Un viaggio da intraprendere alla ricerca dei valori di ognuno e conseguentemente alla ricerca di sé. Il ritorno sulla retta via e ad un corretto ordine delle cose. Capovolta indica impedimenti e ritardi nei piani e nei progetti già programmati, turbamenti, viaggi improvvisi e pieni di inconvenienti.


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Ken (Kano): Fiaccola, luce. Ken ci offre la luce nel buio dandoci la possibilità di vedere veramente ciò che prima era nascosto attraverso la trasformazione. Si aprono nuove possibilità e il forte impulso di esprimersi attraverso l'arte e la creatività. Significa ispirazione, rivelazione, discernimento, talento artistico. Capovolta indica perdita di intuizione e orientamento, fine di una relazione sia d'amore che di amicizia o fallimento di un progetto appena iniziato.


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Gyfu (Gebo): Dono, generosità. Gyfu è una delle rune più favorevoli che possano apparire. Essa indica il ricevere o fare un regalo, generosità o ospitalità offerta e avuta. Questa runa preannuncia che i progetti in corso otterranno risultati positivi e soprattutto riferendosi a legami di coppia una relazione felice e senza costrizioni da entrambi le parti.


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Wynja: Gioia, orgoglio, fortuna. Wynia rappresenta l'avverarsi dei desideri e la realizzazione dei progetti. L'orgoglio e la soddisfazione di aver compiuto un progetto e la gioia per il lavoro svolto. Essa è in grado di armonizzare e quindi riportare la pace su punti di vista completamente opposti. Favorisce inoltre la nascita di nuove relazioni d'affari che possono sfociare in una situazione economica positiva. Capovolta indica l'opposto della gioia: sfortuna, tristezza, impedimento ai progetti e problemi che potrebbero rendere la propria vita caotica e frenetica, non permettendo di trovare la pace interiore.


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Hagal: Grandine, bufera, rottura. Questa runa può essere interpretata come un monito che opera nel nostro subconscio per avvertirci che è ora di produrre un cambiamento amaro ma necessario. Un cambiamento da una storia passata, problemi non risolti e lezioni mai imparate. Hagal ci insegna che è ora di affrontare i problemi e riconoscerli in modo da non trovarsi impreparati davanti agli eventi improvvisi e ritrovare la forza di proseguire il cammino.


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Naud (Not): Necessità, bisogno, resistenza. Questa runa ha come primo significato il bisogno; un bisogno ricercato nella mancanza o carenza di qualche cosa; indica quindi limitazioni di tutti i tipi anche se non insormontabili. Anch'essa infatti è portatrice di un monito che è quello di vagliare i propri progetti e riflettere molto seriamente se proseguire o meno, senza, però, rinunciare mai alla speranza. Essa ci dona infatti anche la forza di accettare di buon grado la sofferenza e il sacrificio rendendoli, ove possibile, costruttivi nella speranza di tempi migliori.


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Iss (Isa): Il ghiaccio, conservazione, ristagno e isolamento. Questa runa simbolizza il principio della staticità e della conservazione delle cose nel loro stato invariabile sia nel bene che nel male. Come Hagal e Not anche Is non è capovolgibile e il suo significato rimane quindi invariato comunque si presenti. Estratta durante una divinazione, Is indica che al momento non vi è possibilità di cambiare l'ordine delle cose ed eventuali progetti e lavori in corso subiranno rallentamenti e ritardi. Sarà quindi meglio "congelarli" fino all'arrivo di un periodo più favorevole.


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Jara (Jera): Raccolto, cambiamento ciclico, anno. Jera è una runa favorevole che preannuncia cambiamenti positivi. Essa ci porta gradatamente alla maturazione e alla certezza di poter raccogliere i frutti di quanto seminato nel corso di un anno di fatica e duro lavoro. È inoltre simbolo di successi in affari e di raccolta di frutti nello studio. Jera avverte però di non forzare gli eventi poiché vi è un tempo giusto per ogni cosa.


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Pertra (Perth): Segreti, allegria. Perth rappresenta più di ogni altra runa la gioia e l'esuberanza anche se posta all'eccesso potrebbe indicare chiacchiericcio ed eccessiva "leggerezza". Essa inoltre rivela una conoscenza nascosta, un segreto interiore da custodire e proteggere per poter in seguito nascere e progredire. Non a caso Perth simboleggia il sacchetto chiuso da una corda in cui le rune sono conservate e da cui vengono estratte. Capovolta indica l'ammonimento di non partecipare a imprese incerte o sconosciute poiché il risultato sarebbe un disastro e manifesta l'influenza negativa di altri che potrebbe causare rotture d'amicizie o di matrimoni.


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Eoh (Eihwaz): Albero della vita (tasso), resistenza. Non a caso questa runa rappresenta l'albero del tasso, longevo e sempreverde, e unitamente ad esso è la conferma di continuità e perseveranza in grado di sfidare tutte le influenze negative comprese la morte. Essa rappresenta il potere che collega la mortalità del fisico con l'immortalità dello spirito e ci aiuta ad alimentare la speranza dando continuità agli ideali per trasformarli in realtà.


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Algiz: Difesa, protezione. Il significato principale di questa runa è protezione ed è una delle rune più benevoli che collega l'istinto di sopravvivenza con i meccanismi di difesa. Una sorta di forza autoprotettiva che viene attinta dalla sorgente spirituale e formando uno scudo vi difende dagli attacchi e dai pericoli provenienti da vari livelli: fisico, emotivo, mentale e spirituale. Essa è la runa delle scoperte che mette in guardia sui pericoli imminenti in modo da prevenire le disgrazie. Inoltre è segno di grande ottimismo e positività aiutandoci a ricevere ispirazione per nuove idee creative. Capovolta indica mancanza di protezione e vulnerabilità rispetto alle circostanze esterne.


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Sol: Sole, forza vitale. La runa Sol simbolizza l'energia imponente del sole fonte di luce e di vita. Essa predice un successo pieno in un qualsiasi progetto da intraprendere, garantisce buona salute e notevoli energie vitali da canalizzare verso il risultato dei propri obiettivi. Attenzione però al monito nascosto: sol, infatti, appare come un fulmine che può colpire all'improvviso spazzando via tutto in un attimo e l'ideologia che in passato ha usato il potere di questa runa per dominare gli altri ha subito l'inevitabile distruzione e rovina. Sol non è capovolgibile ma può indicare in un contesto non favorevole che si è abusato delle proprie energie o se ne è fatto un uso improprio con la conseguente perdita di lucidità nel vedere la realtà delle cose.


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Tyr: Il guerriero spirituale, il coraggio. La runa Tyr gode di un altissimo potere e rappresenta la forza, la resistenza e l'affidabilità. Essa è una runa protettiva utilizzata anticamente dagli antichi guerrieri affinché li proteggesse in battaglia ma impersona anche lo spirito competitivo e il principio del lavoro duro e del superare qualcuno o qualcosa anche a costo di enormi sacrifici. Infatti Tyr è anche la runa della volontà, della disponibilità a rinunciare a qualcosa di caro per ristabilire l'equilibrio e l'armonia. È la forza che ci fa proseguire nonostante le difficoltà che deve però essere motivata da nobili ideali e non da futili egoismi personali. Essendo Tyr una runa con polarità maschile nel contesto di una determinata lettura può indicare la sessualità maschile, fecondità e procreazione. Capovolta indica la mancanza delle qualità positive che esprime diritta, e cioè arrendevolezza di fronte alle difficoltà, mancanza di fiducia in se stessi e perdita dell'entusiasmo.


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Bjarka (Berkana): Il potere femminile, crescita e sicurezza. Questa runa ricorda nella forma il seno di una madre che ha il potere di nutrire e prendersi cura di ciò che deve crescere e manifestarsi. Berkana è un'energia dolce, materna, che può indicare oltre alla nascita o un matrimonio, anche l'inizio di una idea, di un progetto o di un nuovo modo di pensare per ottenere un obiettivo comune. Quindi Berkana è considerata a tutti gli effetti la runa degli inizi. Capovolta può significare un arresto della crescita, stagnazione e disarmonia all'interno della famiglia e della coppia.


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Eh (Ehwaz): Cavallo, movimento e progresso. Eh è una runa che viene associata al legame fra il cavallo, dal quale ne deriva il nome, e il suo cavaliere. Questa alleanza è ciò che vi permette di superare gli ostacoli lavorando all'unisono; ecco perché consiglia di intraprendere viaggi o progetti o collaborazioni insieme a compagni che condividano il vostro modo di pensare. Per sintetizzare Eh rappresenta legami fisici, spirituali o giuridici tra uomini. Rovesciata può preannunciare rotture di rapporti e allontanamento o falsità. In questo caso Eh ci esorta a non cambiare nulla e aspettare un momento più favorevole.


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Madr (Mannaz): Umanità, solidarietà, intelligenza, motivazione. Dal punto di vista spirituale questa runa rappresenta l'intera umanità nell'equilibrio del mondo circostante e attesta la solidarietà comune a tutti gli uomini, indipendentemente dall'età, razza, sesso o religione. Essa indica una mentalità equilibrata e corretta e racchiude in sé la forza del divino che ci spinge verso la direzione della perfezione. Madr è una runa della mente e controlla la comunicazione verbale e le capacità intellettive, anche se il suo vero potere è quello di unire la ragione con l'intuizione creando così un collegamento fra conscio e inconscio. Capovolta significa solitudine, pessimismo e testardaggine, nonché il rifiuto di accettare consigli, opinioni o punti di vista diversi dal proprio.


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Lagu (Laguz): Acqua,forza fluida. Questa runa simboleggia l'acqua che scorre portatrice di forza vitale rigenerante. Essa è collegata ai cambiamenti di energia e alla crescita maturata attraverso le proprie esperienze; ha il compito di aiutarci a comprendere la ciclicità delle cose e dare nuovo impulso alla rinascita per l'inizio di una nuova fase di vita. Inoltre può aiutare a rafforzare la sensibilità,ad armonizzarsi con "gli alti e bassi" della vita, e realizzare le proprie potenzialità. Capovolta indica una scarsa capacità di giudizio, intuizioni sbagliate, e situazioni per le quali non si posseggono i giusti requisiti per affrontarle positivamente.


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Ing (Inguz): la continuità della vita, sviluppo, progresso. Questa runa può essere paragonata alla catena del DNA che contiene tutte le informazioni necessarie alla creazione di una nuova vita. Essa preannuncia il compimento di un periodo favorevole e l'inizio di un altro migliore. Può anche significare la realizzazione di un progetto a cui ci si era dedicati per tutta la vita. In ogni caso l'estrazione della runa Ing indica la possibilità che accada qualcosa di favorevole che potrebbe cambiarci l'esistenza. Inoltre rappresenta l'unione familiare e la discendenza.


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Odal (Othila): beni di famiglia, patrimonio. Questa runa simbolizza il recinto che delimita la proprietà e le qualità innate sia spirituali che materiali. È il potere di ottenere e predice risposte favorevoli a tutti i quesiti riguardanti ai propri beni, agli interessi familiari o alla vita sociale. Capovolta può significare perdita di beni o esclusione da una comunità. Inoltre può indicare diatribe relative a eredità o lasciti, oppure una improvvisa richiesta di restituzione di un prestito. In ogni caso Othila rovesciata indica un problema che nemmeno il denaro o una posizione ereditata può risolvere.


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Dagaz: giorno, completamento. La runa Dagaz è la runa del risveglio, della luce dell'alba dopo il buio della notte. Essa viene paragonata alla farfalla che si trasforma all'uscita dal bozzolo e libera si libra nel cielo e nella luce. È una runa estremamente favorevole e, nonostante gli ostacoli, rappresenta la forza e la volontà di portare avanti i progetti e di concluderli con successo.


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Wird (Wird): runa bianca, la runa del destino, l'ignoto. Questa runa avvisa di aspettarsi... l'inaspettato... che nulla è segnato ma tutto è scelta e che anche l'ignoto può aprire nuovi orizzonti e possibilità... È la conferma che qualcosa dentro di noi sta profondamente cambiando. La cosa più importante con cui affrontare la situazione che annuncia, è l'atteggiamento interiore più che la decisione pratica; essa infatti è il potere della fiducia del coraggio

mercoledì 13 ottobre 2010


IL MISTERO DELLE RUNE ELTICHE

Dunque RUNA e’ mistero, iniziazione segreta, conoscenza cosmica, imperativo magico

Da un punto di vista linguistico una prima assonanza della parola Runa e’ con l’irlandese run= mistero, l’inglese runian= sussurrare, il tedesco raunen= mormorare. Anche le delibere politiche segrete dei capi celtici sono RUNES e, nel primo cristianesimo irlandese, e’ RUNA il mistero dell’Eucarestia. Un’altra lettura e’ l’irlandese veru=protettore, come l’URANO greco o il VARUNA indu’.
Le rune evocano poteri, sono una conoscenza sacra, dove cio’ che si conosce diventa, per questo serviranno alla divinazione o modificheranno gli eventi. Solo pochi druidi conoscevano il segreto delle rune e lo trasmettevano agli eletti oralmente in segreto (misteri da miste=colui che tace). Gli erilaR (poeti iniziati) sono i depositari del patrimonio prezioso e non possono dire cio’ che e’ loro affidato, la verita’ rivelata delle RUNE che discende da Odino che le ha avute da MIMIR, che le ha avute dai GIGANTI, che le hanno avute dalla conoscenza primordiale di tutte le cose. Recita una pietra svedese: “ginarunaR“, le rune sono ginn; ginn e’ cio’ che e’ vasto, potente, immenso. Jinn e’, nel mondo islamico, una potenza sovrumana, angelica.
Tacito dice che i Germani prevedono la sorte tagliando un ramo da un albero da frutto in pezzetti, vi tracciano dei segni e li gettano a caso su una veste candida. Il sacerdote, pregando gli dei col viso volto al cielo, ne prende per tre volte e li interpreta. Nella Pietra di Noleby del 600 d.C. e’ detto:”RUNO FAHI RAGINAKUNDO”: “le rune dipingo che discendono dagli dei”. Dove sono incise o dipinte le RUNE? L’elenco e’ infinito.

Sugli zoccoli dei cavalli che tirano il Sole
Sulla lingua del dio della poesia
Sulla spada di Odino
Sull’inizio del ponte che unisce il mondo degli dei a quello degli uomini
Sul petto di Sigfrido che lotta contro il drago Fafnir
Sulla mano della levatrice
Sulle orme dei piedi per guarire il doppio animico
Sulle tavolette della birra
Sulle unghie dell’orso
Sulle unghie del lupo
Sul rostro e sulle ali sanguinanti dell’aquila
Sul becco della civetta per recare il malaugurio……

Ognuno dei mondi viventi ha un dio custode delle RUNE, AESIR, elfi, nani, giganti, umani….Prima esse vanno incise, poi sono dipinte di rosso, sangue o cinabro o ocra bruna, ed e’ la pittura che crea la magia, sangue dell’uomo che entra nel sangue del dio, altro grande archetipo sacro di vita, potere e trasformazione, poi sono immerse nel sacro idromele per destarle, cioe’ sono immerse nell’alterazione della trance, ma “nessuno incida RUNE| se non e’ capace di interpretarle”. Dunque solo il veggente e’ il signore delle Rune.

Ellemire Zolla, studioso di sistemi religiosi, scrive:
“Tutt’insieme una runa era un mistero ed una conoscenza, un segno ed un effetto, una lettera alfabetica ed un numero, un aspetto del cosmo ed una divinita’. Le rune erano le segnature degli oggetti, la loro forma essenziale e sintetica, la formula della loro energia specifica, del loro ritmo. Ritmo identico, e dunque una medesima runa, hanno tutti gli svariati oggetti d’una serie o catena dall’eguale vibrazione; una particolare stella, un minerale, una bestia, una divinita’, una pianta, una parte dell’uomo, partecipando ad una certa forma ritmica vengono designati, evocati da una figura runica corrispondente“.

La runa e’ un archetipo, uno dei suoni del mondo, modalita’ dell’energia universale.
Essendo imposizione all’energia, con le rune si fanno incantesimi d’amore e d’odio, ci sono rune di guerra, di morte, di salvaguardia, di evocazione. Ci sono incantamenti che pietrificano il nemico al sorgere del sole. E’ con le RUNE che il giovane KON calma i flutti, placa il fuoco, comprende il canto degli uccelli, ha la forza di 8 uomini. Nella saga dei Nibelunghi la Walkiria elenca a Sigfrido i poteri delle RUNE. Esse spezzano le catene, placano gli animi, infondono il sonno, cacciano le streghe, resuscitano gli impiccati, danno l’invulnerabilita’… Nelle saghe l’eroe traccia le rune della protezione col proprio sangue e le accompagna col canto magico. Vibrazione di sangue, vibrazione di suono.
Le rune sono forme di potere. Anche presso i sudanesi Bambara tutto comincia con una parola inespressa “KO”, la parola primordiale di Dio, poi vengono i suoni primordiali di “acqua, fuoco, terra, aria..”
Le rune sono le forme primordiali del mondo, gli elementi della creazione.
Per un primitivo la parola e’ soffio, principio vitale, cosa, non e’ segno che esprime la cosa, ma e’ la cosa stessa. Il linguaggio ha sostanza materiale. La parola e’ vibrazione che modifica l’energia. Nella lingua akkadica ‘essere’ e ‘nominare’ sono sinonimi. Il nome e’ il nominato.
Le donne celtiche non potevano pronunziare il nome del marito o del suocero, perche’ pronunziarlo equivaleva ad aver potere su di lui.
I popoli antichi distinguono un linguaggio comunicativo e un linguaggio rivelato che e’ manifestazione e rivelazione del sacro, e’ partecipazione del creare. Nella vera lingua, che e’ la lingua degli iniziati, ogni parola e’ frammento di sapere magico, rivela l’intima e segreta essenza del mondo, il suo ordine segreto, per cui pronunziare il nome significa evocare la cosa o dominarla.

SFB

martedì 12 ottobre 2010


Leonarda Cianciulli, “La saponatrice di Correggio”




Leonarda Cianciulli nacque a Montella, in provincia di Avellino, nel 1892 in seguito a una violenza carnale subita da Emilia Di Nolfi, la madre. La donna, per un’atroce disegno del destino, fu addirittura costretta a sposare il suo violentatore così odierà per sempre quella creatura incolpevole, anche dopo aver divorziato ed essersi risposata con Mariano Cianciulli, dal quale avrà altri figli. Leonarda ebbe un’infanzia difficile, da lei così descritta: “Ero una bambina debole e malaticcia, soffrivo di epilessia, ma i miei mi trattavano come un peso, non avevano per me le attenzioni che davano agli altri figli. La mamma mi odiava perché non aveva desiderato la mia nascita. Ero infelice e volevo morire. Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune.” La madre gli fece capire che le dispiaceva di rivederla viva. Una volta ingoiò due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiò alcuni cocci di vetro: non accadde nulla. Segnata da una vita ingrata, nel 1914 sposò Raffaele Pansardi, impiegato dell'ufficio del registro, e andò a vivere a Lariano, nell'Alta Irpinia. Nel 1930 il terremoto del Vulture distrusse la loro casa e gli sposi si trasferirono a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Leonarda ebbe diciassette gravidanze con tre parti prematuri, dieci figli morirono in tenera età. I quattro sopravvissuti erano per Leonarda un bene da difendere a qualsiasi prezzo, angosciata dal ricordo di una zingara che molti anni prima le aveva predetto un amaro destino: "Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno". Più tardi, un'altra zingara le disse: "Vedo nella tua mano destra il carcere, nella sinistra il manicomio". Nel 1939, alla notizia che Giuseppe, il figlio maggiore e prediletto, sarebbe partito per il militare con la minaccia sempre più concreta dell'ingresso in guerra dell'Italia, Leonarda decise, oramai in preda alla pazzia, di effettuare sacrifici umani in cambio della vita del ragazzo. La Cianciulli frequentava tre amiche, donne sole, non giovani, che avrebbero volentieri cambiato l’esistenza per sfuggire alla noia e alla solitudine del paesello. Tutte e tre chiesero aiuto a Leonarda, la quale decise che era giunto il momento di agire. La prima a cadere nella rete fu Faustina Setti detta “Rabitti”, la più anziana, attirata da Leonarda con la promessa di averle trovato un marito residente a Pola. Leonarda persuase la donna a non parlare con nessuno della novità. Il giorno della partenza Faustina si recò a salutare l'amica, che la convinse a scrivere alcune lettera e cartoline che avrebbe spedito appena giunta a Pola, in cui annunciava a parenti e amici che tutto andava per il meglio. Ma a Pola Faustina Setti non giungerà mai, perché cade sotto i colpi di scure di Leonarda Cianciulli, che trascina il corpo in uno stanzino e lo seziona in nove parti, raccogliendo il sangue in un catino. Poi, come scriverà nel suo memoriale, «gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi sette chilogrammi di soda caustica, che avevo comprato per fare il sapone, e rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa con la quale riempii alcuni secchi e che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue del catino, aspettai che si coagulasse, lo feci seccare al forno lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, oltre a un poco di margarina, impastando il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore che venivano in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe e io». La seconda vittima si chiamava Francesca Soavi, cui Leonarda aveva promesso un lavoro nel collegio femminile di Piacenza. Francesca la mattina del 5 Settembre 1940 si recò a salutarla prima di partire. Leonarda convinse la donna a scrivere due cartoline, dicendole che le avrebbe dovute spedire per annunciare ai conoscenti la partenza evitando di far conoscere la sua destinazione. La Cianciulli si avventò come una furia sulla donna e ripeté lo scempio. La terza e ultima vittima si chiamava Virginia Cacioppo, ex cantante lirica, cinquantatreenne, costretta a vivere in miseria e nella nostalgia del proprio passato di artista. Leonarda le propose un impiego a Firenze, come segretaria di un misterioso impresario teatrale, pregandola, come al solito, di non farne parola con nessuno. Virginia, entusiasta della proposta, mantenne il segreto e il 30 Settembre 1940 si recò a casa della donna dove, raccontò Leonarda, «Finì nel pentolone, come le altre due. La sua carne era grassa e bianca, quando fu disciolta vi aggiunsi un flacone di colonia e, dopo una lunga bollitura, ne vennero fuori delle saponette cremose accettabili. Le diedi in omaggio a vicine e conoscenti. Anche i pasticcini furono migliori del solito: quella donna era veramente dolce». La cognata dell'ultima vittima, insospettita per la sparizione improvvisa della parente, vista entrare in casa della Cianciulli, ne denunciò la scomparsa al questore di Reggio Emilia, il quale, seguendo i numerosi indizi lasciati dall'omicida, arrivò alla "saponificatrice". Sottoposta a interrogatorio la donna confessò senza resistenze i tre omicidi. La Corte stabilì che Leonarda Cianciulli era l'unica responsabile di quei turpi crimini e la condannò a trent'anni di carcere e a tre anni di manicomio. Morì nell’ospedale psichiatrico giudiziario per donne di Pozzuoli, il 15 Ottobre 1970, stroncata da apoplessia celebrale. A chiunque si domandi il motivo di tutta questa sua ferocia la risposta è che lei pensava di essere stata colpita da una maledizione la quale pensava di potersene liberare offrendo in cambio dei sacrifici umani.

SFB

lunedì 11 ottobre 2010


Donne e madri nella preistoria

Dalla conoscenza intima della natura circostante, le donne della preistoria ricavarono importanti nozioni per la sopravvivenza e per l'accrescimento del sapere dell'uomo. Dalla natura le donne appresero conoscenze, che contribuirono a creare un mondo mistico e magico, di cui sono state a lungo depositarie.


Le tribù primitive praticavano dei culti animisti. Alle volte, le donne erano direttamente coinvolte nella direzione delle cerimonie religiose, una sorta di "stregone" del gruppo. Essendo la donna, la misteriosa fonte di vita e la profonda conoscitrice della natura, si riteneva, che avesse un legame speciale con il mondo della magia e con le divinità. Le donne erano, inoltre, addette alla trasmissione delle storie degli avi e delle leggende, che mantenevano saldo il legame con il passato e conferivano un'identità al gruppo.
Ieri come oggi, la donna è stata anche e soprattutto madre. Non era diverso nella preistoria.
Le donne primitive di norma avevano pochi figli, per varie ragioni, tra cui l'altissimo tasso di mortalità infantile. Inoltre nella preistoria, l'alimentazione dei primi ominidi era piuttosto frugale, basata principalmente sull'apporto proteico. Considerando che questi percorrevano a piedi lunghe distanze, l'accumulazione di grasso superfluo era quasi inesistente. Per rimanere incinta, una donna, deve avere un'accumulazione di grasso sufficiente a mantenere il bambino e sé stessa durante la gravidanza. Il tasso di fertilità delle donne primitive era piuttosto basso.
Le mamme primitive allattavano i propri figli per un periodo di tempo molto lungo, per circa quattro anni, il che rendeva più difficile l'accumulazione di grasso, necessaria, per rimanere incinta. Il periodo che incorreva tra un figlio e l'altro era dunque abbastanza lungo.
Il nutrimento principale dei bambini era costituito dal latte materno. Ciò consentiva alle madri di nutrire spesso i piccoli, anche durante gli spostamenti, senza doversi necessariamente fermare.
Il legame fisico madre-figlio non cessava nel momento del parto, ma perdurava fino a quando il bambino era in grado di camminare e di tenere il ritmo del gruppo, durante gli spostamenti. Durante il loro cammino le donne portavano sulle spalle il loro "cucciolo". Da ogni movenza esse erano in grado di capire qualunque fosse lo stato del bambino: se aveva fame, freddo, se era malato, se reclamava qualche coccola!
Questo intimo rapporto tra madre e figli riguardava anche la trasmissione del sapere, inteso come apprendimento delle tecniche di sopravvivenza in una natura, spesso ostile. Esso consisteva, soprattutto, nella capacità di progettare e fabbricare arnesi, che è specifica del genere femminile, nella specie umana, e in alcune specie di scimmie antropomorfe. Soprattutto attraverso il gioco, le madri della preistoria insegnavano ai loro figli a vivere, trasmettendo loro il sapere degli antenati.
La comunità riconosceva il valore della donna all'interno del gruppo e le riservava un posto di rilievo.
Molti reperti archeologici del paleolitico consistono in statuette femminili, cui sono accentuate le forme. Non esistendo dei corrispettivi maschili (non è stata trovata neanche una statuetta maschile paleolitica o neolitica!), gli studiosi sono giunti alla conclusione che la donna così rappresentata dovesse far parte di credenze culturali-spirituali.
Si è spesso spiegato il fenomeno attraverso il culto della fertilità. Ma non è esaustivo. Infatti la donna non è raffigurata in relazione alla maternità: non ci sono bambini, né donne gravide, né è descritto il parto. E' ipotizzabile che con tali statuette si volesse dare valore metafisico alla vita, che solo la donna era in grado di creare. Non era riconosciuto, infatti, l'atto del concepimento, né il ruolo che l'uomo vi svolgeva. La nascita di un bambino appariva, all'uomo preistorico, come un evento magico ed inspiegabile, tutto riconducibile alla donna.
Non è escluso quindi che si trattasse di vere e proprie celebrazioni del potere di generare la vita. La volontà di dare forma e valore al genere femminile.
In epoche successive, dopo la rivoluzione agricola, sono state trovate ancora moltissime statuette femminili. Non solo, si assiste anche a delle raffigurazioni della femminilità più raffinate, spesso astratte, molte delle quali sotto forma di un triangolo. Nella simbologia primitiva, il triangolo era associato alla donna ed ai riti legati alla fertilità. La donna continuò quindi a ricoprire, in modo più elaborato, una posizione eminente anche nella simbologia delle comunità preistoriche sedentarie, che continuarono a celebrarne ed onorarne la posizione e le capacità.


SBF

domenica 10 ottobre 2010


Mdioevo cinese

L'IMPERATRICE WU


La città di Luoyang nell'antichità era chiamata "il centro del mondo", vista la sua posizione geografica centrale, inoltre quando la Cina è entrata nella società classista, la prima dinastia schiavista Xia vi pose la sua capitale. In seguito altre 13 dinastie, fra cui Shang, Zhou Orientali, Han Orientali e Wei di Cao Cao, vi posero le loro capitali, con una storia di ben 1529 anni. Dopo la fondazione della Nuova Cina, gli archelogi vi hanno trovato più di 10 siti di antiche città, come Erlitou, capitale della dinastia Xia, Yanshi, capitale della dinastia Shang, la città imperiale dei Zhou orientali, la Luoyang delle dinastie Han e Wei e la capitale orientale delle dinastie Sui e Tang, che raccolgono le gemme dell'architettura classica, presentando il processo di sviluppo del sistema architettonico dell'antica Cina, da cui l'appellativo di "sito delle cinque antiche capitali". Fra le famose città storiche cinesi, Luoyang è stata eretta capitale per prima, dal maggior numero di dinastie e per il periodo più lungo. Anche un' altra importante dinastia, ossia la dinastia Tang, in un certo senso ha posto per un certo periodo la sua capitale a Luoyang. Infatti sebbene la capitale della dinastia Tang sia stata Chang'an, nella sua storia di quasi 300 anni la dinastia non godette di uno sviluppo ininterrotto, cambiando addirittura appellativo. Infatti nel ventennio dal 684 al 705 l'impero più forte del mondo del tempo cambiò nome, passando da Tang a Zhou, e la dinastia Zhou pose la sua capitale a Luoyang.

Si tratta di un periodo storico davvero interessante in quanto vi è implicata una gran donna, l'imperatrice Wu Zetian. Infatti fra le molte dinastie della storia cinese e i numerosi imperatori di ognuna di loro, Wu Zetian occupa un posto speciale perchè in epoca feudale agli uomini era riservata una posizione dominante nella vita sociale, in particolare in campo politico, ed ella non solo è entrata in questo mondo, ma è persino diventata l'unica imperatrice della storia cinese.

Wu Zetian nacque nell'anno 624 a Chang'an, la capitale del tempo, dimostrandosi sin da piccola molto acuta, intelligente e coraggiosa. In un'epoca in cui l'ignoranza era vista come una virtù femminile, considerandola un talento da sviluppare, il padre le insegnò invece a leggere e scrivere, permettendole di capire il mondo esterno e la storia. A 13, 14 anni possedeva già un buon livello di conoscenze, con buone basi anche nella poesia ed una sicura propensione per la calligrafia.

Nell'anno 637, a 14 anni, Wu Zetian fu scelta per la sua bellezza fra le dame di corte, guadagnandosi subito l'apprezzamento dell'Imperatore Tang Taizong per il suo aspetto e la sua vivace intelligenza. Col passare del tempo, trovandola pronta di mente e rispettosa dell'etichetta, la sollevò dall'incarico di ancella facendone la sua assistente, il che permise alla giovane di avere accesso ai documenti imperiali, di conoscere i fatti della corte e di leggere testi normalmente inaccessibili, il che ampliò i suoi orizzonti e le permise di penetrare sempre più la politica dei circoli ufficiali e le astuzie collegate.

Taizong morì nel 649, quindi Wu Zetian e le altre concubine furono inviate al Tempio Ganye come monache. Diventato imperatore col nome di Gaozong, il nono figlio di Taizong Li Zhi, che conosceva bene Wu Zetian e l'ammirava, andava spesso al tempio per incontrarla, col risultato che due-tre anni dopo questa potè tornare a corte, diventando alla fine imperatrice dopo aver sconfitto in lotte intestine le altre concubine. Da allora, tutto il potere della corte cadde nelle sue mani.

Diventata imperatrice, la sua intelligenza, il suo sapere e il suo amore per il potere ottennero un'ottima occasione di sviluppo, e Gaozong, che l'amava, cominciò a prediligerla. Wu Zetian ulitizzò quindi il suo status di imperatrice, accanto alla predilezione del marito, per partecipare agli affari di governo, eliminando i nemici politici, rafforzando e ampliando la sua influenza e potere ed eliminando gli ostacoli alla sua partecipazione alla politica.

Nel 660 Gaozong perse la vista in seguito ad una malattia, affidando per decreto a Wu Zetian l'incarico di assisterlo negli affari di governo. Da allora ella passò via via dalla partecipazione all'attivo governo, ed anche se ufficialmente nell'ombra, controllava concretamente il potere della corte.

Per la sua capacità di trattare gli affari di governo, diversamente da Gaozong ormai incapace, si conquistò il rispetto dei ministri. Nonostante l'imperatore non amasse la sua personalità forte, non poteva farne a meno nei più importanti affari di Stato, quindi Wu Zetian cominciò ad apparire insieme al marito nel corso delle udienze coi ministri, partecipando apertamente alle decisioni. Nel 674 Gaozong fu nominato "imperatore celeste" e a sua volta Wu Zetian divenne "imperatrice celeste", ed i due vennero considerati "i due santi sotto il cielo". Vista l'incapacità del marito, il potere della dinastia Tang cadde completamente nelle mani di Wu Zetian.

Nei 16 anni dal 674, quando iniziò a governare col titolo di imperatrice celeste, al 690, quando divenne ufficialmente imperatrice, Wu Zetian compì lunghi preparativi in vista del suo piano di salire al trono individualmente. Nel 683 Gaozong morì, sostituito dal figlio Li Xian, che divenne l'imperatore Zhongzong. Wu Zetian, nella veste di regina madre, partecipò agli affari di governo, sostituendo un anno dopo Zhongzong col quarto figlio Li Dan, che divenne l'imperatore Ruizong. Sia Li Xian che Li Dan erano degli incapaci, veri fantocci nelle mani della regina madre.

Nel 690, ritenendo maturo il momento della sua ascesa al trono, per bocca dell'abate Faming diffuse la diceria di essere una reincarnazione del Budda Maitreya, per cui doveva diventare imperatrice, organizzando poi la farsa di 60mila cittadini capeggiati dall'imperatore che chiedevano di cambiare il nome della dinastia. Così, per "obbedire alle richieste del popolo e per ordine divino", ella salì al trono, realizzando il sogno nutrito da tempo: mutò quindi il nome della dinastia da "Tang" a "Zhou", chiamando sè stessa "imperatrice divina" e spostando la capitale a Luoyang, detta "capitale divina". Allora Wu Zetian aveva 67 anni.

In realtà già nei trent'anni precedenti la sua ascesa al trono Wu Zetian aveva dimostrato una straordinaria capacità nella sua partecipazione indiretta al governo. Nel suo decennio sul trono, ella espresse ancor meglio il suo talento politico e la sua attitudine al governo nella forma dell'utilizzo oculato del personale e nel trattamento degli affari statali.

Diventata imperatrice, privilegiò la scelta e promozione del personale di valore, ritenendo che un paese così ampio non potesse essere governato da una sola persona, da cui la necessità di riunire personale capace per rafforzarlo. Quindi chiunque fosse in grado di pacificare il paese e rafforzare le frontiere venne utilizzato, indipendentemente dalle origini e qualifiche. Ella creò anche un sistema di esami di palazzo e militari per reperire più personale di valore a sostegno della sua dinastia. In proposito si narra una storia molto famosa in Cina: durante il suo regno a livello locale ci fu una rivolta armata contro il suo governo, a cui prese parte anche il noto letterato Luo Binwang, che prima dell'insurrezione diffuse nel paese un appello che diceva: voi che siete funzionari della dinastia Tang, avete rapporti di parentela con la casata imperiale o siete generali, ora che la voce dell'imperatore scomparso risuona ancora nel vento, come potete stare a vedere il paese in pericolo senza intervenire? la terra della tomba dell'imperatore Gaozong è ancora umida, l'imperatore Zhongzong è stato cacciato e Ruizong imprigionato, quindi siamo decisi a combattere per difendere la dinastia Tang, sicuri della vittoria!

Letto l'appello, Wu Zetian non si infuriò affatto, osservando: "non ho un temperamento molto cordiale, sono figlia di un commerciante del legno, quindi di umili origini". Alla fine esclamò "davvero un bell'articolo!" e chiese ai ministri il nome dell'autore. Le risposero "Luo Binwang", al che osservò: è davvero scritto bene, con un tono forte e attraente, tuttavia parla solo dei miei difetti e non dei miei pregi, quindi è ingiusto! Perchè non utilizzare un personaggio così bravo nello scrivere? È di sicuro un errore del primo ministro! Da tutto ciò emerge la sua considerazione per il personale di valore.

Wu Zetian prestò anche grande attenzione alla produzione agricola, ritenendo che alla base dello Stato dovesse esserci l'agricoltura e stabilendo che i funzionari locali che riuscivano a far sì che ogni famiglia avesse un eccesso di cereali venissero promossi, quindi negli anni del suo governo l'agricoltura e l'artigianato ottennero un forte sviluppo.

Ella si impegnò anche a fondo per resistere alle aggressioni esterne, tutelare la pace alle frontiere e migliorare le relazioni con i paesi confinanti, lottando a fondo contro le aggressioni dei nobili Tubo, gli antichi tibetani. Nel 692 inviò il generale Wang Xiaojie a combattere i Tubo, rioccupando quattro importanti distretti dell'ovest e consolidando la difesa delle frontiere nord-occidentali. In questo modo venne anche ripristinata la "via della seta" verso l'Asia centrale interrotta da anni.

Inoltre nei cinquant'anni del suo governo, per il ruolo della rivolta contadina della fine della dinastia Sui e della base creata negli anni di regno Zhenguan dell'Imperatore Tang Taizong, la sua lotta contro i gruppi aristocratici e di funzionari della vecchia società e l'applicazione di politiche progressiste, l'economia e la società del tempo presentarono una forte tendenza di sviluppo.

In tarda età Wu Zetian capì anche che come donna, dopo la sua morte, poteva solo essere essere onorata nel tempio ancestrale della famiglia imperiale Li, quindi accettò i consigli dei ministri accogliendo nel 698 il figlio Li Xian, allora re di Luling, a corte come principe ereditario. Nel 705 il ministro Zhang Jianzhi approfittando della malattia di Wu Zetian, scatenò un colpo di stato riportando sul trono Li Xian, ossia l'imperatore Zhongzong, e ripristinando la dinastia Tang. Nel novembre dello stesso anno, l'unica imperatrice della storia cinese Wu Zetian morì nel palazzo Shangyang della sua capitale Luoyang. Aveva 82 anni. Il figlio Zhongzong la seppellì con grandi onori insieme al marito Gaozong.

A Luoyang sono rimaste molte tracce dell'imperatrice Wu Zetian. Infatti questa, che professava il Buddismo, per dimostrare la sua fede fece costruire molti templi nella città, tra cui spiccano le grotte di Longmen. La loro costruzione iniziò al tempo della dinastia dei Wei settentrionali, ma il 60% delle grotte risale alla dinastia Tang, per lo più su commissione di Wu Zetian. Il Tempio Fengxian, la grotta più grande e famosa del complesso, è un'opera di questo periodo. Secondo la leggenda, il viso del grande Budda Vairocana riprodurrebbe quello di Wu Zetian. Oltre a queste grotte buddiste famose nel mondo, a Xi'an, capitale della ripristinata dinastia Tang, Wu Zetian eresse davanti al suo mausoleo una stele speciale, che a differenza delle steli degli altri imperatori colme di elogi per le proprie imprese, era priva di caratteri. In merito esistono tre ipotesi: 1) Wu Zetian intendeva così far capire che i suoi meriti erano troppo grandi per essere messi per iscritto; 2) nel corso della sua lotta per il potere, Wu Zetian si era anche macchiata di molti crimini, quindi era meglio non scrivere nulla sulla stele; 3) durante la maggior parte del suo regno, Wu Zetian dette indubbi contributi, permettendo la continuazione della tendenza allo sviluppo economico iniziata nell'epoca Zhenguang, inoltre nel trattare il caos seguito alla morte dell'imperatore Gaozong, dimostrò una capacità straordinaria, facendosi ammirare anche da molti esponenti tradizionalisti per la sua capacità di ascoltare i consigli dei suoi ministri e di selezionare il personale valido. Tuttavia i suoi lati negativi sono anche molto evidenti. Per rafforzare il suo potere, utilizzò funzionari crudeli, facendo uccidere molti innocenti. Alla fine del suo regno, la corte era già molto corrotta, con la nascita di una nuova aristocrazia da ella sorretta. Quindi la sua decisione di non far scrivere nulla sulla sua stele indica che solo la storia avrebbe avuto il diritto di farle da giudice.



S.B.F

sabato 9 ottobre 2010


I Cistercensi

Storia dell’Ordine cistercense
Gli elementi fondamentali della riforma cistercense
La riforma cistercense era, soprattutto, un movimento di rinnovamento spirituale. Alla esposizione narrativa degli eventi delle origini deve seguire quindi una analisi degli ideali che ispiravano il piccolo gruppo di monaci che fondò Cîteaux. La prima tappa di questo sviluppo di idee ebbe luogo a Molesme. Durante prolungati e talora animati dibattiti, i futuri fondatori di Cîteaux ebbero ampie possibilità di chiarire le loro intenzioni e di ridurle a una formula molto semplice e pratica: il ritorno alla Regola di san Benedetto. L’applicazione di questi principi alle condizioni della vita di ogni giorno ebbe luogo a Cîteaux sotto il governo di sant’Alberico, sebbene il processo somigliasse piuttosto a una improvvisazione progressiva e quotidiana più che ad una legislazione consapevole. Infatti, non ci sono indicazioni per sapere se sia Roberto che Alberico intendessero fare altro che assicurare la vita della comunità nascente e riformata con gli stessi mezzi con i quali moltissimi altri monasteri simili avevano cercato di sopravvivere. Il movimento di espansione attraverso le nuove fondazioni indusse Stefano Harding a fissare per iscritto gli elementi fondamentali delle osservanze di Cîteaux e ad assicurare la coesione della congregazione monastica che si espandeva sotto i suoi occhi, con la determinazione del nucleo di una struttura istituzionale. Il successo inaspettato di Cîteaux fece nascere la gelosia non solo di Molesme, ma anche del potente Cluny, tanto che ne seguì un dibattito che venne pubblicizzato su larga scala, che toccò ogni sfaccettatura della organizzazione nascente. Un programma ben precisato, una conduzione abile, una coesione interna e un senso di vittoria riportato su qualsiasi opposizione, per quanto forte, furono gli elementi che diedero origine e caratterizzarono il primo vero e proprio “ordine” medioevale, una organizzazione visibilmente distinta fra le molte autonome o vagamente affiliate conglomerazioni di case benedettine.

Agli storici che lavoravano circa una cinquantina di anni fa, il compito di esporre questa storia appariva semplice. Si credeva universalmente che la narrazione fondamentale degli inizi di Cîteaux, il Piccolo Esordio, non solo presentasse i fatti e gli elementi essenziali della dottrina con una accuratezza incontestabile, ma che fosse stato composto, direttamente, dalla penna di Stefano Harding, uno dei fondatori. Parallelamente, la Carta di Carità, costituzione dell’Ordine nascente, era considerata come la traduzione organica dei principi che avevano dato la possibilità all’abate Stefano di attuare il suo programma con un risultato così duraturo. In questa visione tradizionale delle fonti, la vera ragion d’essere di Cîteaux era vista nell’Osservanza rigorosa, stretta, possibilmente letterale della Regola di san Benedetto. La Carta di Carità sarebbe stata, in questa ottica, la guida pratica per la ricostruzione di una vita monastica basata su un medesimo contesto ideologico.

Tuttavia, a partire dal 1930, un esame più accurato dei manoscritti conduceva a una rivalutazione estesa di tutto ciò che era stato scritto fino allora sugli inizi della vita cistercense. La scoperta dell’Esordio di Cîteaux, uno scritto più breve ma più antico del Piccolo Esordio, costituito dalla relazione degli eventi, gettava seri dubbi sulla attendibilità di questo documento. Si scopri che l’autore del Piccolo Esordio non era stato Stefano Harding, ma un monaco della generazione di san Bernardo, che lo aveva pubblicato un po’ dopo la morte di santo Stefano, avvenuta nel 1134. Sarebbe stato composto da un Cistercense come una “Carta Bianca” per difendere la legittimità della fondazione di Cîteaux contro le accuse dei monaci cluniacensi, i quali sostenevano che il “Nuovo Monastero” era stato stabilito ed eretto senza le dovute formalità canoniche.

Quest’opera quindi sarebbe stata compiuta per dimostrare “con quanta canonicità” fosse stata realizzata la fondazione. Tuttavia l’autore avrebbe raccolto e trascritto una certa serie di documenti alcuni dei quali, compresi i famosi Statuti di Alberico, mancano delle necessarie caratteristiche che ne fondano l’autenticità. Il riferimento costante alla Regola di san Benedetto, soprattutto negli Statuti, era stato inserito con l’ovvia finalità di creare una parvenza di legalità inappuntabile. L’affermazione dell’autore anonimo, secondo cui l’arrivo provvidenziale di san Bernardo avrebbe salvato Cîteaux dalla estinzione, sostiene l’ipotesi che tale autore fosse appunto un giovane monaco, attratto alla vita cistercense dalla personalità così autorevole del santo.

In modo analogo, le ricerche più recenti sulla Carta di Carità rivelano che non si trattava del frutto delle più arcaiche disposizioni degli abati dell’Ordine, ma di un testo legislativo entrato in vigore soltanto dopo alcuni decenni di evoluzione. La stesura avrebbe avuto inizio con Stefano Harding, ma la natura esatta del testo primitivo, ancora inedito e introvabile fino ad oggi, così come la data e la portata delle evoluzioni successive, sono ancora oggetto di discussione. Dato che i manoscritti che conosciamo e che danno un certo affidamento non sono sufficienti per chiarire le molte questioni sorte in questi ultimi decenni, è ancora impossibile ricostruire l’immagine antica e tradizionale del primo Cîteaux con quadro chiaro ed esatto, tracciato con l’aiuto dei metodi storici moderni. Comunque, quasi per compensare la delusione di questi risultati, le ricerche più recenti hanno cercato di fare più luce sui movimenti monastici contemporanei e sull’impatto della vita eremitica in particolare. E aumentata così la stima e la valorizzazione delle fonti non Cistercensi, è stata sottolineata l’importanza del conflitto tra Cîteaux e Cluny, ed è stato analizzato tutto ciò che concerne i problemi giuridici della nuova fondazione, nel contesto della legge canonica del dodicesimo secolo.

Dopo aver dato sufficiente spazio a queste considerazioni, rimane comunque vero che i fondatori di Cîteaux intendevano tornare a una interpretazione più stretta della Regola. I loro sforzi non sfociarono in una mera restaurazione della vita monastica del sesto secolo, ma nella introduzione di una vita fortemente influenzata dagli ideali del monachesimo pre-benedettino. La ricerca di una più grande solitudine, povertà e austerità costituirono certamente i potenti incentivi nelle scelte di Roberto e dei suoi compagni, così come animavano le innumerevoli abbazie della fine dell’undicesimo secolo. Le caratteristiche tipiche di Cîteaux sono messe in risalto dall’immediato confronto con Cluny. Nella regione della Borgogna l’appello alla disciplina della vita eremitica all’interno di una comunità monastica costituì una sfida allo stile di vita accettato ovunque in quello che era il cuore dell’“impero cluniacense”. Fin dall’inizio, i monaci fondatori di Cîteaux dovettero assumere quasi per forza un atteggiamento di autodifesa. La tattica più efficace per parare le accuse di essere innovatori strani e malvisti, era il rifarsi alla Regola come ad uno scudo. Roberto e i suoi monaci insistevano nell’affermare che essi non avevano altro scopo né desideravano altra novità se non quella di ritornare a una vera osservanza della Regola di san Benedetto, codice così venerato e venerabile per tutti i monaci.

Ma, facendo questo, i primi Cistercensi istintivamente sottolineavano quegli elementi della Regola che meglio si adattavano con il loro stile di vita eremitica, soprattutto il capitolo 73, dove il legislatore afferma con molta modestia che la sua regola era stata composta per dei principianti; coloro che desideravano aspirare a più alta perfezione di vita monastica dovevano rivolgersi agli insegnamenti dei “Santi Padri”, soprattutto alle opere di san Basilio (330-379) e di Giovanni Cassiano (360-435), ricche di riferimenti alle vite eroiche degli anacoreti dell’Oriente.

Accese dispute nacquero tra i due gruppi, come conseguenza del fatto che l’accordo fra la Regola e l’ascetismo di tipo eremitico sembrava non solo impossibile, ma indesiderabile ai monaci di Molesme. Le due fonti che danno sorprendenti dettagli sulla natura delle argomentazioni sono le cronache di Guglielmo di Malmesbury e Orderico Vitale: entrambi benedettini, entrambi osservatori attenti dei loro tempi, entrambi storici ben informati. Il passo delle Gesta Regum Anglorum opera di Guglielmo di Malmesbury redatta nel 1122-1123, che tratta di questo problema, venne composto con tutta probabilità a partire da fonti Cistercensi e si interessò soprattutto a Stefano Harding, mettendo a fuoco la sua figura. Il capitolo corrispondente della Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale fu scritto circa dieci anni dopo e presenta con particolare attenzione le esortazioni di Roberto, così come se ne conservava il ricordo a Molesme. Non è necessario credere che né Stefano né Roberto abbiano parlato esattamente nel modo in cui vengono citati in queste fonti; ma, d’altra parte, non c’è motivo per dubitare che i problemi discussi fossero in realtà i problemi autentici che si dibattevano.

Secondo Guglielmo di Malmesbury, Stefano, quando ancora era a Molesme, attaccava con vigore lo stile di vita basato sulle consuetudini di Cluny. Egli riteneva che la sola tradizione non fosse sufficiente per giustificarle. Sottolineava con forza che usanze ammissibili devono essere basate su di una regola e sostenute sia dalla ragione che dalla autorità; egli aggiungeva che questi requisiti erano espressi e incarnati nella Regola di san Benedetto. Quando gli oppositori persistentemente rifiutavano le innovazioni perché preferivano le usanze tradizionali” i futuri cistercensi raddoppiavano i loro sforzi per dimostrare che di fatto, ciò che essi si proponevano derivava da fonti ancora più antiche delle usanze cluniacensi, ed era questo il motivo per cui essi “scrutavano con tanta attenzione la Regola desiderando di non trascurarne neppure uno iota o un apice”.

Anche Orderico Vitale riporta le stesse cruciali discussioni, ma presenta con attenzione speciale l’Abate di Molesme e i suoi monaci riluttanti. Nel suo libro, Roberto critica con forza le mancanze contro la povertà, l’abbandono del lavoro manuale, l’accettazione di titoli e di altri benefici ecclesiastici, sollecita e spinge i suoi sudditi ad “osservare la Regola di san Benedetto in ogni cosa, così che, seguendo le vestigia dei Padri, noi possiamo con fervore seguire il Cristo”. Roberto non distingueva con chiarezza le osservanze dei Padri del deserto e quelle presentate dalla Regola, ed egli accompagnava le sue esortazioni con frequenti riferimenti alle “vite esemplari dei Padri Egiziani”. I suoi oppositori si sforzavano di dimostrare che il modo di vivere dei padri del deserto non era più praticabile nelle loro circostanze storiche e dichiaravano la loro intenzione di aderire alle usanze ben radicate di Cluny, altrimenti sarebbero stati condannati dai loro confratelli, sempre e dovunque, come inventori dalle iniziative temerarie. La discussione termina allo stesso modo in cui anche Guglielmo di Malesbury la fa concludere: per evitare l’obbrobrio di essere giudicati degli innovatori, i fondatori di Cîteaux decisero di “osservare la Regola di san Benedetto alla lettera, allo stesso modo in cui i Giudei osservano la Legge di Mosé”.

La discussione sulle osservanze della vita monastica scoppiò con maggiore forza dopo il 1124, quando san Bernardo lanciò un attacco su larga scala contro Cluny nella sua prima opera largamente diffusa, l’“Apologia” (Apologia ad Guillelmum). In quel tempo i Cistercensi avevano guadagnato una popolarità generale, mentre Cluny, sotto l’amministrazione turbolenta di Pons di Melgueil (1109-1122) aveva sofferto delle crisi abbastanza dure e imbarazzanti. I tempi erano allora maturi per una ardente contro-offensiva, mossa non solo contro Cluny, ma anche contro “gli antichi e secolari istituti inonastici”, simbolizzati convenzionalmente da Cluny. L’Apologia è la prova che meglio documenta come nel giro di un quarto di secolo molti Cistercensi erano giunti a credere che, usando parole di un monaco anonimo citato da Bernardo, essi erano “i soli monaci dotati di qualche virtù, più santi di qualsiasi altro, i soli monaci che vivevano in modo conforme alla Regola; per quanto riguardava gli altri monaci, questi erano soltanto dei trasgressori”. Un poco più avanti, nel medesimo testo, lo stesso monaco anonimo, ma cistercense, viene citato da Bernardo come un assertore che “tutti coloro che fanno professione secondo la Regola sono tenuti ad osservarla letteralmente, senza alcuna dispensa possibile”. Era ovvio, comunque, che l’osservanza rigorosa della Regola era solo uno degli elementi caratteristici di cui il nuovo Ordine poteva gloriarsi. Con il suo stile magistrale, san Bernardo metteva in netta contrapposizione i Monaci Neri, ricchi, pomposi, dalla vita agiata, con i Cistercensi, araldi di una nuova forma di vita monastica, seguaci in tutto e per tutto degli ideali che animavano la riforma gregoriana: poveri con il Cristo povero; vivendo con i frutti del proprio lavoro manuale, come gli apostoli; separati dal mondo e senza interesse per il mondo; austeri nel loro abbigliamento e in tutto ciò che usavano; parchi nel cibo e nella bevanda; senza pretese nelle loro abitazioni e costruzioni; semplici e austeri perfino nel loro servizio liturgico; prossimi all’eccesso solo nell’ascetismo.

Pietro il Venerabile, il nuovo abate di Cluny (1122-1156) il cui primo compito fu quello di porre riparo ai danni causati dal suo predecessore, replicò con misura e dignità. Egli attutiva il colpo che accusava i cluniacensi dì essersi allontanati da alcune prescrizioni della Regola,

sottolineando che l’essenza dell’insegnamento di san Benedetto consisteva nella carità e nella discrezione. Ben a proposito, egli riconosceva le splendide virtù dei Cistercensi, ed anche volentieri, ma rilevava

ironicamente, che mancavano soltanto di umiltà. Il dibattito continuò ancora per decenni e produsse quasi una dozzina di pubblicazioni che esistono ancora. Uno degli ultimi, il Dialogo tra due monaci, (Dialogus duorum monachorum) scritto verso il 1155 da Idung di Prüfening, un Benedettino passato alla vita cistercense, fu il più ricco di dettagli, e, ricorse alla utilizzazione di due mezzi molto nuovi: il diritto canonico e la scolastica; il Dialogo è una lunga disputa tra un Cistercense e un Cluniacense, in cui le domande ingenue e le risposte inadeguate di quest’ultimo servono soltanto ad offrire delle occasioni al monaco cistercense per fare delle dissertazioni molto erudite su questioni che documentavano la superiorità dei Monaci Bianchi sui Monaci Neri. Il monaco cluniacense ripeteva le vecchie accuse di “instabilità” allundendo a Roberto e ai suoi seguaci che avevano abbandonato gli usi antichi e pieni di discrezione seguiti a Molesme per abbracciare le innovazioni così carenti di discernimento di Cîteaux. Il monaco cistercense definiva tali accuse come vere e proprie calunnie e sottolineava le caratteristiche di “antichità, discrezione e regolarità” della vita condotta a Cîteaux, a discapito delle abitudini di Cluny che non erano se non “superstizioni contrarie ai decreti della Chiesa, alle decisioni dei sinodi, persino alla santa Regola”. Invece, i Cistercensi “vivono secondo la Regola di san Benedetto, che promettono di osservare mediante i loro voti; essa è la legge data ai monaci da Dio attraverso la persona di san Benedetto, che è legislatore al pari di Mosè”.

Il valore delle conclusioni dei dibattiti non può essere valutato soltanto dagli scontri verbali; ma un impegno così prolungato favorì moltissimo il consolidarsi di una solidarietà e compattezza in seno all’Ordine Cistercense. I Monaci Bianchi gustarono certamente l’euforia della vittoria quando lo stesso Pietro il Venerabile si levò a difendere molti punti della riforma cistercense tanto da tentare di introdurre qualcosa, verso la fine del suo governo, all’interno della sua abbazia.

Il primo segno evidente dello sforzo dei cistercensi di tradurre i loro ideali in regolamenti e strutture di vita emerge in un insieme di venti paragrafi, i cosiddetti Capitoli. Alcuni di questi vennero con tutta probabilità aggiunti a una prima stesura della Carta di Carità e all’Esordio di Cîteaux, quando essi vennero presentati per l’approvazione al Papa Callisto II, nel 1119. In questi paragrafi si nota la prima allusione all’ammissione dei fratelli conversi, perché assistessero i monaci nel lavoro agricolo. Essi erano accolti, come i monaci, con il permesso del vescovo, “quali coadiutori indispensabili e fratelli, partecipi allo stesso grado dei beni spirituali e temporali del monastero, come i monaci”. Dopo un anno di noviziato essi emettevano la professione nella sala del Capitolo, ma non potevano aspirare ad essere ammessi al rango dei monaci di coro.

Un altro paragrafo alludeva alle circostanze delle nuove fondazioni. Ognuna di esse doveva avere, oltre ad alcuni fratelli conversi, almeno dodici monaci, guidati da un abate, e doveva essere provvista dei libri liturgici necessari per l’ufficio. Tutte le Chiese dovevano essere dedicate alla Beata Vergine Maria e collocate in luoghi lontani dai villaggi e dalle città. Dopo la costruzione dei 1uoghi regolari” nessun monaco doveva più vivere al di fuori del chiostro. E, cosa più importante di tutte le altre, il testo stabiliva che “per preservare d’ora in poi tra le abbazie una unione indissolubile, è stato deciso per prima cosa che tutti i fratelli seguano la Regola di san Benedetto allo stesso modo, e da questa non devono allontanarsi neppure nelle questioni più piccole. Ne consegue che devono usare gli stessi libri per l’ufficio divino, che devono portare gli stessi abiti, ffiangiare lo stesso cibo; in una parola, gli stessi usi e costumi devono essere seguiti dovunque”. Il genere e la qualità degli abiti era descritta con gran cura, così come la semplicissima dieta alimentare, che escludeva carne e prodotti affini. I mezzi di sussistenza dei monaci dovevano derivare esclusivamente dal 1avoro manuale, dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame”. Era stabilito con chiarezza che queste terre non dovevano essere situate vicino ai possedimenti dei secolari, sebbene non ci fossero regole sulla estensione delle proprietà dei monaci e si approvasse, di fatto, la costituzione di grange affidate ai fratelli conversi. Chiese, diritti di sepoltura, titoli, villaggi, servi, tasse, decime, quote sui forni o sui mulini e “altre cose simili contrarie alla autenticità della vita monastica” furono totalmente escluse come fonti di guadagno. Per sottrarsi a tentazioni di questo genere, i monaci non potevano impegnarsi in servizi parrocchiali o pastorali di nessun tipo, ma dovevano vivere in una perfetta separazione dal mondo. Gli affari inevitabili e i tramiti con i secolari dovevano essere assicurati dai fratelli conversi. Ogni ostentazione di ricchezza doveva essere evitata, anche nella progettazione o costruzione delle chiese, perfino nelle decorazioni interne e nell’arredamento.

Dal 1119 fino al 1151 la riunione annuale degli abati, il Capitolo generale, specificò e precisò ancora più dettagliatamente questi regolamenti, aggiungendo un certo numero di punti nuovi e alla fine decretò la diffusione di un insieme di 92 paragrafi, detto Instituta generalis capituli (Statuti del Capitolo generale). In questo documento apparvero delle chiarificazioni di procedure o questioni di natura prettamente giuridica: la conduzione dei Capitoli generali, l’acquisizione dei privilegi; la forma delle visite regolari annuali; la punizione di alcune colpe; la procedura per l’elezione abbaziale; il rapporto con i vescovi; il modo di vivere di abati consacrati vescovi; l’accoglienza degli ospiti; il lavoro nello scriptorium, l’amministrazione delle grange; le regole sulle compra-vendite; il comportamento dei monaci in viaggio e l’assistenza agli infermi. E infine alcune decisioni in materia liturgica e, norma significativa, l’esclusione dei bambini dai recinti dei monasteri.

Quasi contemporaneamente, vennero alla luce altre due serie di direttive, strettamente collegate alle precedenti. In una venivano trattate questioni comuni di liturgia (Ecclesiastica Officia); e nella seconda, si esponevano i regolamenti sul modo di vivere dei fratelli conversi (Usus Conversorum). Queste due collezioni, insieme agli Statuti, formavano il manuale fondamentale della vita quotidiana degli individui e delle comunità, le Consuetudines, il “Libro degli Usi”. Non c’era nulla di radicalmente nuovo in queste collezioni: il materiale contenuto era attinto sostanzialmente alle fonti monastiche del secolo precedente e una buona parte, agli usi di Molesme e di Cluny. Tuttavia, la loro relativa semplicità e concisione, la possibilità che offrivano di essere applicati ovunque, la loro terminologia precisa e densa possono essere considerati come caratteristiche cistercensi.

Piani elaborati per osservanze uniformi sarebbero rimasti inefficaci e irrealizzabili senza la costituzione di una solida struttura che tenesse insieme il numero sempre crescente di abbazie cistercensi. La Carta di Carità fu lo strumento che raggiunse tale scopo, un documento attribuito, secondo la tradizione, a Stefano Harding. Come già è stato affermato sopra, il terzo abate di Cîteaux può essere considerato di fatto come l’iniziatore dell’abbozzo della Carta di Carità, ma passarono almeno cinquant’anni prima che potesse essere definita in tutti i suoi elementi. La prima citazione di questo documento risale a un atto non datato riguardante la fondazione di Pontigny, steso poco dopo l’invito rivolto dal Vescovo Ubaldo di Auxerre agli “amanti della santa Regola” a installarsì nella sua diocesi. Verso lo stesso periodo (1111), come afferma tale atto, il medesimo Vescovo, insieme al capitolo dei suoi canonici, accettò in ogni punto la validità e l’unanimità della Carta di Carità, che era già stata composta e confermata tra il Nuovo Monastero e le abbazie recentemente da esso fondate. Il testo di questa “primitiva” Carta di Carità non è stato purtroppo ancora ritrovato e così il suo contenuto non può essere stabilito con certezza. Si ritrovano altre due citazioni di una “costituzione” nella bolla di Callisto II redatta nel 1119, ma pongono problemi di natura diversa. Le ricerche più recenti hanno fatto venire alla luce due versioni della. Carta di Carità, ed entrambe sembrano essere, a prima vista, amplificazioni del testo così detto Il primitivo”, entrambe scritte, con ogni probabilità, poco prima o poco dopo il 1119. Una reca il titolo di Summa Cartae Caritatis, e l’altra è comunemente nota come Carta Caritatis Prior. Ma rimane ugualmente incerto quale delle due versioni venne approvata in una Bolla successiva, promulgata da Eugenio III nel 1152. Si può affermare con sicurezza soltanto che dopo molti ritocchi, la stesura finale della Carta di Carità, la Carta Caritatis posterior venne alla luce tra il 1165 e il 1190.

L’importanza principale della Carta di Carità, nella sua stesura finale, così come la si conobbe per secoli, consiste in una felice sintesi, e in un armonico equilibrio realizzato tra l’autorità centrale e l’autonomia della comunità locale, evitando così il doppio pericolo di un controllo troppo stretto, di tipo cluniacense, o di una insufficiente coesione, che aveva compromesso le promettenti riforme delle nascenti congregazioni monastiche. Cîteaux rimaneva il cuore e il centro del nuovo Ordine, e il suo abate era il simbolo vivente dell’unità. Ma in netto contrasto con Cluny, l’abate di Cîteaux non poteva esercitare illimitati poteri di governo. L’autorità suprema risiedeva nella riunione annuale di tutti gli abati cistercensi, il Capitolo generale, che si riuniva tradizionalmente a Cîteaux il 14 di settembre, festa della esaltazione della santa Croce. Sotto la presidenza dell’abate di Cîteaux, il primo dovere del Capitolo era quello di mantenere una uniforme disciplina monastica al più alto livello possibile, così che tutti “potevano vivere insieme nel vincolo della carità sotto una sola regola e mettere in pratica le stesse osservanze”. Di conseguenza, si attendeva dal Capitolo che ponesse fine agli abusi, che punisse i colpevoli di qualsiasi tipo di trasgressione, e che, occasionalmente, apportasse degli emendamenti alla nuova legislazione o delle modifiche temporanee per circostanze particolari. I mezzi per una effettiva esecuzione di tali leggi e del controllo delle comunità locali erano costituiti dalla visita annuale di ogni abbazia da parte dell’abate che l’aveva fondata. Le visite degli “abati-padri” erano in funzione della correzione degli eventuali abusi o, in casi estremi, erano indirizzate alla riconduzione in sede di Capitolo generale delle informazioni sulle case, perché questo potesse autorizzare la messa in opera di ulteriori misure per restaurare la disciplina. Cîteaux, che non aveva una “casa madre” doveva essere visitata” simultaneamente dagli abati delle sue prime quattro case figlie, cioè dagli abati di La Fertè, Pontigny, Clairvaux e Morimond, che in seguito vennero definiti collettivamente come i proto-abati. Ma nonostante le molteplici forme di controllo, tuttavia, ogni abate era autonomo, e governava liberamente la propria comunità senza indebite interferenze este rne, fintanto che il suo monastero restava all’interno dei regolamenti prestabiliti. Oltre a queste precisazioni di tipo costituzionale, la Carta di Carità sollecitava un aiuto mutuo in tempi di necessità di tipo materiale o in casi di emergenza; incoraggiava l’ospitalità; regolava i diritti diprecedenzatra gli abati; stabiliva le procedure delle elezioni abbazìali e specificava misure di precauzione o di correzione contro abati negligenti o indegni.

Bisogna tuttavia sottolineare ancora che gli aspetti appena messi in luce appartengono, propriamente, soltanto alla redazione finale della Carta di Carità, mentre le redazioni più antiche ponevano l’accento su aspetti caratteristici abbastanza diversi, e ciò è significativo. Così, all’inizio, i vescovi diocesani godevano di una notevole autorità sulle fondazioni cistercensi. Ma tali privilegi episcopali, come ad esempio la visita canonica, l’approvazione dell’elezione abbaziale, poteri correttivi, il diritto di domandare il voto di obbedienza all’abate appena eletto, furono man mano ridotti fino ad una totale eliminazione; l’Ordine pervenne all’esenzione totale nei confronti della giurisdizione diocesana, grazie alla costante concessione di favori papali e di alti privilegi concessi all’Ordine. Similmente, all’inizio l’abate di Cîteaux godeva di un potere più grande, e le prime riunioni del Capitolo generale non sembravano consistere che in un capitolo allargato della casa madre o, di annuali “capitoli delle colpe” per abati. Ancora verso il 1135, l’Abate di Cîteaux appariva agli occhi di Orderico Vitale come il capo, ‘Tarchimandrita” degli altri 65 abati dell’Ordine. L’aumento progressivo del numero dei partecipanti portò ad un crescente aumento di autorità del Capitolo generale, sebbene il ruolo legislativo che assunse non divenne ffievante se non a partire dal 1180. La statura morale di un san Bernardo e di altre autorità messe a capo delle nuove fondazioni di Cîteaux portò a rendere sempre più grande l’influenza nascente dei “proto-abati” che, insieme, costituivano una specie di contrappeso nei confronti di un ambizioso abate di Cîteaux.

Nessuno degli elementi che compongono la Carta di Carità, era, in sostanza, come del resto era avvenuto per la riforma cistercense in generale, completamente nuovo. Molto prima della fondazione di Cîteaux erano stati fatti degli sforzi per mantenere una uniforme disciplina monastica attraverso le visite regolari o le occasionali riunioni di abati, nel mondo monastico dell’undicesimo secolo. Queste tendenze erano già rilevabili in una riforma organizzata da Riccardo di St. Vanne (970-1046) nell’Est della Francia, e molto più rilevanti ancora nella congregazione di Vallombrosa, che Stefano Harding conosceva bene. Il fondatore di Vallombrosa, san Giovanni Gualberto, (990 ca. – 1073) aveva lasciato dietro a sé una specie di “vincolo di carità, in una compilazione di regole che dovevano essere seguite dalle sue fondazioni. Questa, garantiva una preminenza ai successori di Giovanni Gualberto come abati di Vallombrosa, stabiliva la riunione degli abati, dotata di estesi poteri legislativi, introduceva un sistema di visite regolari ed insisteva sul mantenimento di una disciplina uniforme, tutte caratteristiche della Carta di Carità Cistercense. Nel 1110, proprio poco tempo prima della primitiva stesura della Carta di Carità, un documento abbastanza simile venne composto per regolare il rapporto tra l’abbazia di Aulps e la sua prima fondazione, Balerne. Queste due case appartenevano alla congregazione di Molesme, e quindi collegate in qualche modo ai Cistercensi. Questo documento, chiamato “Concordia di Molesme”, fissava la visita regolare da parte della casa madre, l’assistenza mutua “per amore della carità” e alcune misure di revisione su entrambe le case da parte di Molesme.

Nonostante il notevole prestito, mutuato da tali usanze, i Cistercensi riuscirono a saldare gli elementi della Carta di Carità in uno schema coerente, di rara perfezione, idealmente adatto al tessuto dell’ambiente sociale contemporaneo. La Carta di Carità rifletteva l’influenza della subordinazione feudale, basata sulla reciproca fedeltà e fiducia, che esigeva obbedienza pronta in tempo di crisi, ma rispettava l’autonomia locale. Invece di un tipo di relazione basato puramente su delle usanze o delle abitudini formali, la costituzione cistercense si radicava in una legge scritta, stesa con precisione e con cura. Sotto l’influenza del diritto romano, che ritornava alla luce con una crescente forza di autorità, la legislazione sia civile che ecclesiastica trovava una nuova rinascita, riscoprendo regolamenti tradizionali o abitudini arcaiche e primitive sotto l’autorità di leggi, statuti, carte e costituzioni. In particolare, il Capitolo generale, assemblea scelta e rappresentativa di stampo aristocratico, sviluppava di pari passo qualcosa di simile agli incipienti parlamenti feudali e alla rapida diffusione dei comuni italiani e francesi.

La Carta di Carità giocò un ruolo determinante non solo per lo sviluppo della vita monastica cistercense, ma anche nella struttura costituzionale di altri ordini religiosi. Il Capitolo generale dei Premonstratensi seguì da vicino l’esempio e lo schema del modello cistercense perfino nell’assicurare un ruolo speciale ai loro primi tre “proto-abati”.

Durante la prima metà del dodicesimo secolo, sotto l’influenza personale di san Bernardo, vennero introdotti Capitoli generali annuali nei Canonici Regolari di San Vittore, tra i Certosini, a Grandmont, tra i Gilbertini, nella Congregazione di Val-des-Choux, e in molti ordini militari e ospedalieri. Anche Cluny adottò questa importante istituzione ed invitò quattro abati cistercensi perché dessero una mano in materia di procedura. Vari altri ordini e congregazioni benedettine, in seguito, continuarono tale richiesta. Il quarto Concilio del Laterano (1215) rese obbligatori i Capitoli generali in tutte le congregazioni, monastiche che non li avevano ancora adottati e richiese che tali riunioni fossero controllate e verificate dai due abati cistercensi più vicini alla località dove si svolgevano. Fin dal principio, i Francescani e i Domenicani, appena fondati, introdussero l’istituzione dei Capitoli generali nelle proprie costituzioni.

Come poteva la devozione iniziale per la Regola andare d’accordo con la legislazione e la struttura costituzionale che caratterizzò la seconda e la terza generazione? Realmente i Cistercensi erano così profondamente e sinceramente devoti all’osservanza esatta della Regola come pensavano i loro contemporanei ed essi stessi, forse, a volte pretendevano di essere? Probabilmente il Piccolo Esordio non è un riflesso accurato e imparziale degli inizi di Cîteaux, ma riflette chiaramente la mentalità della seconda generazione cistercense. Il suo autore insiste sul fatto che i fondatori di Cîteaux avevano preso la “purità e la rettitudine della regola come la norma di condotta del loro stile di vita” e avevano rifiutato usanze e abitudini che non si potevano ritrovare nella regola e che, di conseguenza, le giudicavano contrarie alla stessa. In modo più specifico, ripudiavano alcuni punti introdotti recentemente, sull’abbigliamento e il regime alimentare, come certe forme di possesso o fonti di lucro o di entrate di tipo medioevale che coinvolgevano i monasteri quali soggetti attivi e diretti nella vita sociale ed economica del tempo. Essi basavano tale rigetto nella intenzione apertamente dichiarata dei monaci di “restare estranei alle realtà del mondo”, per continuare ad essere “poveri con il Cristo povero”.

Ma, secondo lo stesso testo, tuttavia, i Cistercensi incominciarono a chiedersi “in qual modo e con qual genere di occupazione o di lavoro essi avrebbero potuto provvedere a se stessi in questo mondo”. Essi risposero “acquistando proprietà terriere che restassero separate dai luoghi di abitazione degli uomini”, per loro uso esclusivo, coltivandole con l’aiuto dei fratelli conversi e di persone assunte temporaneamente, coscienti che senza un tale aiuto essi non avrebbero potuto adempiere in pienezza i precetti della Regola, giorno e notte. Come ulteriore giustificazione del ricorso ai fratelli conversi “essi decisero ancora che nel caso in cui si fossero erette delle fattorie o delle grange per la pratica dell’agricoltura, tali case sarebbero state affidate a dei fratelli conversi e non a dei monaci, dato che la residenza dei monaci, secondo la Regola, deve essere situata all’interno del monastero”.

La prime poche righe di questo testo sembrano introdurre il fermo principio di interpretazione secondo cui ciò che non è contenuto nella Regola è contrario alla Regola e quindi deve essere rigettato. Solo poche righe dopo, tuttavia, l’autore ha evidentemente dimenticato questo principio ed approva l’istituzione dei fratelli conversi, una istituzione di grande importanza che era altrettanto estranea ai principi della Regola quanto il possesso, così riprovato, di altari e di titoli. Questa contraddizione apparente si risolve con facilità quando prendiamo coscienza che l’autore faceva riferimento alla Regola solo quando ciò gli serviva per giustificare gli ideali fondamentali di Cîteaux. Il motivo reale che soggiaceva ad entrambe queste due scelte, una proibizione e una innovazione, era l’ardente desiderio dei monaci di vivere in una solitudine indisturbata. Il possedere o l’amministrare delle proprietà nel sistema feudale avrebbe costretto i monaci a restare in un contatto continuo con la società laica e per questo motivo entrambe le realtà condizionanti furono rifiutate. D’altra parte, l’istituzione dei fratelli conversi venne adottata per il fatto che la coltivazione di terre molto estese, situate in località remote, avrebbe costretto i monaci ad allontanarsi dalla loro tanto amata solitudine del chiostro.

Sebbene i novantadue paragrafi degli Statuti del Capitolo generale non possano essere analizzati in questa sede, alcune brevi osservazioni sulle loro caratteristiche più appariscenti potranno sostenere la nostra tesi. Le varie regole che si susseguono possono con difficoltà essere caratterizzate come semplici commenti o note di spiegazioni, aggiunte come postille ai vari capitoli della Regola. I molti emendamenti che concernevano la celebrazione annuale del Capitolo generale, o le visite regolari alle abbazie o l’amministrazione delle grange sono completamente al di fuori dell’ambito previsto dalla Regola. Un numero notevole di prescrizioni applicano in pratica i principi di povertà, semplicità e separazione dal mondo. In materia di alimentazione, abbigliamento, digiuno, astinenza e punizioni, gli Statuti entrano in molti dettagli e sono in gran misura più restrittivi della indulgente Regola di san Benedetto.

La nota più sorprendente è l’allontanamento assoluto dei bambini dai recinti del monastero; una contraddizione aperta con una delle disposizioni più significative della Regola. La sua giustificazione è ovvia: la presenza dei bambini non può che disturbare l’atmosfera della solitudine monastica. Un problema a parte è costituito poi dalla insistenza così ripetuta nel secondo e terzo paragrafo degli Statuti non solo sull’assoluta uniformità da seguire in materia liturgica, ma anche sul principio che dovunque si dovrà avere lo stesso cibo, lo stesso abito e le stesse usanze in tutte le cose. Sebbene la Regola prevedesse diversità di clima, di circostanze ambientali e abitudini di luoghi diversi ed aprisse la possibilità di altre soluzioni o sistemazioni per l’Ufficio Divino, i Cistercensi furono inflessibili nella loro insistenza sul fatto che 1a Regola di san Benedetto deve essere interpretata e seguita da tutti allo stesso modo”.

Come i principi stessi nella Carta di Carità potessero armonizzarsi con la Regola, è un altro interessante e affascinante problema. La possibilità di un controllo centrale sopra un certo numero di monasteri non solo è assente dalla Regola, ma sembra perfino totalmente estraneo alla mentalità del suo autore. Le forze esterne, effettivamente centralizzatrici, quali erano ad esempio il Capitolo generale e le visite regolari annuali, avrebbero inevitabilmente condotto alla diminuzione dell’autorità locale e dell’autonomia così chiaramente assicurata dalla Regola ad ogni Abate.

I primi cistercensi non solo si mossero quindi con libertà nei confronti di una cieca devozione al testo letterale della Regola, ma di fatto essi si riferirono a quel venerabile documento della legislazione monastica con una notevole larghezza di spirito. Invocavano la Regola e la applicavano rigorosamente quando ciò corrispondeva ai fini che si proponevano; ma la ignoravano o la contraddicevano quando non poteva concordare con la loro concezione di vita monastica, così largamente basata sugli ideali delle riforme dell’undicesimo secolo. Nella vita dei primi anni di Cîteaux la Regola giocò indubbiamente un ruolo importante, ma restò sempre un ruolo strumentale; venne, utilizzata come un mezzo per conseguire lo scopo cui realmente si tendeva, la costituzione di una vita austera nella povertà, semplicità e in una indisturbata solitudine.

S.B.F

venerdì 8 ottobre 2010





LA BAND DI SGT. PEPPER
di Joan Baez

Non ho mai saputo quanto significavi per me
Perchè ho acceso una candela il giorno della tua morte
di fronte ad una foto di te che cammini a Central Park
con la donna di ferro al tuo fianco
Quella candela ha bruciato per venti giorni
Quasi tutti i miei migliori amici sono venuti a condividere il dolore
e a parlare dei bei tempi passati
prima ancora che nascessimo

Ora mi sembra di capire
che sia stata la band di Sgt Pepper
a cantare gli anni 60
Dove son finiti tutti gli eroi?

Lucy in the sky con i ragazzi di Liverpool,
Manda giù un acido, incontra la Regina,
Uscendo da entrambi gli occhi del ciclone
Tu cantavi la tua musica dolce e pulita.
Può darsi tu non voglia questa mia poesia,
Io di sicuro non voglio la tua fama,
ma tu sei sorto all'alba della mia prima storia
e devo renderti omaggio comunque

Ora mi sembra di capire
che sia stata la band di Sgt Pepper
a cantare gli anni 60
Dove sono finiti tutti gli eroi?
Dove sono andati?
Dove?
Dove sono finiti tutti gli eroi?
Dove sono finiti tutti gli eroi?

E' stata la notte di un giorno duro come un diamante
Dicono che c'erano tutti
Devo averti sentito dalle braccia di mia madre
Devo aver pensato che a qualcuno dispiaceva
vivo in un tempo di maniaci cosmici
Uno di loro ti ha sparato una pallottola nel fianco
New York City,1980,
il giorno in cui sono morti gli anni '60

Ora mi sembra di capire
che sia stata la band di Sgt Pepper
a cantare gli anni 60
Dove sono finiti tutti gli eroi?
Dove sono andati?
Dove?
Dove sono finiti tutti gli eroi?


IMAGINE
John Lennon

Immagina non ci sia il Paradiso
prova, è facile
Nessun inferno sotto i piedi
Sopra di noi solo il Cielo
Immagina che la gente
viva al presente...

Immagina non ci siano paesi
non è difficile
Niente per cui uccidere e morire
e nessuna religione
Immagina che tutti
vivano la loro vita in pace..

Puoi dire che sono un sognatore
ma non sono il solo
Spero che ti unirai anche tu un giorno
e che il mondo diventi uno...

Immagina un mondo senza possessi
mi chiedo se ci riesci
senza necessità di avidità o rabbia
La fratellanza tra gli uomini
Immagina tutta le gente
condividere il mondo intero...

(traduzione Fiorella Gentile)




Dove sono finiti tutti gli eroi?

© 1982 Gabriel Earl

giovedì 7 ottobre 2010


La basilica di Santa Giustina a Padova

Il poeta Venanzio Fortunato, vescovo di Tours, scriveva questi versi nella seconda metà del VI secolo d. C. nel suo poema "Vita sancti Martiri", e ricordava agli uomini del suo tempo, ma anche ai posteri, l'esistenza di un illustre monumento eretto nell'antica Patavium in ricordo della giovane martire.
Erano ormai passati più di due lunghi secoli da quel 313 d. C. quando l'imperatore Costantino aveva concesso ai cristiani di professare liberamente la loro fede nella buona novella venuta dal figlio di Dio, da quell'Uomo Dio che aveva risposto agli aneliti di speranza dell'umanità sconfitta dal peccato.
A Padova l'annuncio della nuova religione era giunto in tempi che è giusto ritenere assai precoci. Contrastata come nelle altre parti dell'Impero, certamente risultava affermata nel quarto decennio del secolo se conosciamo il nome di un vescovo, Crispino, che già occupava la cattedra episcopale di Patavium nel 356.

Che cosa la città volle e poté costruire in memoria della martire Giustina, nel luogo della sua sepoltura, non appena le leggi dell'Impero lo permisero, noi non sappiamo. La tradizione, fondata sul documento della Passio, e suffragata anche dalle ampie testimonianze della diffusione del suo culto, narra che la giovane fu martirizzata nel Campo Marzio durante la persecuzione dell'imperatore Massimiano degli anni 303-304 d.C. Sepolta nella limitrofa zona cimiteriale, a sud della città, è plausibile pensare che pellegrini devoti giungessero per pregare presso la sua tomba e per consegnare a lei, testimone di fede con la vita, pietose richieste di intercessione. Il cimitero, in quanto luogo di sepoltura dei martiri, divenne nell'alto medioevo la meta privilegiata del pellegrinaggio e della funzione religiosa. La chiesa, il monastero e lo xenodochium per l'ospitalità del forestiero, permisero la nascita di vere e proprie cittadelle cristiane e monastiche che, nella continuità del culto, manifestavano la forza della tradizione religiosa e il permanere di una coscienza civile.
Quanto di più antico l'archeologia ci ha restituito a testimonianza del culto tributato a santa Giustina risale però soltanto al VI secolo. A quell'epoca infatti il "vir clarissimus" Opilione fece costruire "basilicam vel oratorium in honore sanctae Iustinae martiris", come attesta l'iscrizione incisa nel timpano in marmo greco oggi conservato nel nartece dell'oratorio di San Prosdocimo. Questo reperto, databile intorno al terzo decennio del VI sec. d.C., assieme ai lacerti di mosaico visibili al livello della pavimentazione del sacello, rappresenta la testimonianza dell'esistenza, in epoca paleocristiana, di un doppio edificio eretto in onore e memoria di santa Giustina. Questo piccolo luogo di preghiera che dell'antico complesso è giunto fino a noi, si palesa oggi con l'intatta evidenza trasmessa attraverso i secoli, e resta, assieme alla testimonianza di Venanzio Fortunato, il segno della veridicità di un culto cristiano che rimane il più antico e glorioso di Padova.

Nulla invece possiamo sapere sull'aspetto di quella prima basilica, che affiancava il sacello, né sulla sua facciata che accoglieva il fedele in visita alla sepoltura di santa Giustina. Ci assiste, nel figurarla, soltanto la conoscenza, dei monumenti cristiani coevi per pensare ad una probabile analogia di forme e stili. Di semplici mattoni, senz'altro rivestimento prezioso, forse riservava l'abbellimento più ricco all'interno, realizzato, come sappiamo, in mosaici risplendenti.
L'autore della "Leggenda di san Daniele", che è presumibile scrivesse verso la fine dell'undicesimo secolo, ma prima del 1117, anno in cui la basilica crollò per il terremoto, ci ha lasciato questa suggestiva descrizione: "Questa basilica sostenuta da colonne di marmo e rivestita in gran parte da lastre marmoree decorata nel suo interno mandava raggi come le stelle. Né questo può meravigliare, poiché quella chiesa l'aveva fatta costruire un uomo chiarissimo e illustre prefetto del pretorio di nome Opilione, con immensa ricchezza. ... Oltre questa basilica, in un bellissimo secessu che guarda a mezzogiorno sorge un oratorio o tempietto di meravigliosa bellezza, eretto in onore di Dio e della beata Maria sempre Vergine, di molti Apostoli, nel quale giace tumulato il corpo di san Prosdocimo. Le pareti sin da terra in giro tutt'attorno sono rivestite di tavole marmoree variamente, mentre la parete superiore, coperta da una cupola, dovunque rifulge d'oro, ed è ornata di mosaici raffiguranti il palazzo celeste e i verdi prati del Paradiso. Dalla suddetta basilica si protende un piccolo atrio abbastanza bello ed elegante, per il quale ora si offre più facile accesso al detto tempio". La decorazione a mosaico parlava al credente attraverso le sue forme narrative e simboliche, lo istruiva nella comprensione del messaggio evangelico e contribuiva alla meditazione ed alla preghiera. La basilica, il luogo di riunione della comunità dei fedeli, si affiancava al teatro romano che sorgeva nello spazio esterno alla basilica: il mondo romano, ormai alla fine delle sue vicende, cedeva il testimone al credo cristiano, destinato a dare nuovo significato alla storia dell'uomo e a durare nei secoli.

Allora l'edificio intitolato a Santa Giustina iniziò la sua lunga storia, ricca di significati se si interpreta ciò che esso dovette rappresentare. Geloso custode fin dall'antichità di sacre reliquie, divenne meta di pellegrinaggio per molti fedeli, ma anche luogo di addio alla sicurezza della città per chi iniziava, dalle strade vicine, un lungo cammino, faro che accoglieva chi arrivava, segno di civiltà e testimonianza di un credo gravido di speranza. Tutto questo fu Santa Giustina nei secoli, in un crescendo di significati che il progredire in grandezza e magnificenza dell'edificio aiutava a palesare. Proprio negli anni in cui "basilica et oratorium" erano innalzati al culto, terre lontane vedevano fiorire la rigogliosa pianta dell'ordine benedettino, che sarebbe divenuto luce propizia per un'umanità che si apprestava a vivere alcuni dei secoli più bui della sua storia. Santa Giustina crebbe con il contributo imprescindibile di una comunità benedettina che vi s'insediò. Non sappiamo con precisione come e quando, ma conosciamo bene quello che seppe divenire nei secoli per la città e per l'ordine.
La storia, in parte oscura, della basilica nei suoi primi secoli di vita, è emblematicamente espressa nel pensiero di un uomo di cultura del XV secolo, Giovan Francesco Capodilista: "La chiesa di Santa Giustina decadde e fu riedificata solennemente dal patrizio romano Opilione, poi dalla rabbia degli infedeli fu distrutta e riedificata dal vescovo di Padova Orso, infine, distrutta dai longobardi, fu riedificata da Gauslino". Dietro l'obiettivo encomiastico diretto a Gauslino dei Transelgardi, e pur nella inesattezza della cronologia degli eventi, appare la consapevolezza del susseguirsi di traumatiche distruzioni e di pietose ricostruzioni, quasi che la storia della città, nei suoi momenti più difficili, trovi un simbolico parallelo nella storia della sua antica basilica.

Con la fine del primo millennio, si concludeva anche per Padova un secolo di profonda crisi che, dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente, aveva assistito impotente alla distruzione dei segni della sua passata grandezza da parte dei Longobardi di Agilulfo nel 602 e degli Ungari nell'899. Secoli bui anche per le nostre conoscenze nella scarsezza di fonti attendibili cui fare riferimento. Quel che è certo è che l'antica basilica paleocristiana, con l'annesso sacello, sopravvisse probabilmente come ultimo e strenuo baluardo di civiltà in secoli in cui si registra una profonda crisi della stessa istituzione episcopale. Dopo lunghi decenni di silenzio, quando incontriamo nuovamente Santa Giustina alle soglie dell'anno mille, essa si presenta come una comunità in grado di svolgere un ruolo di primissimo piano nella realtà religiosa, sociale, culturale e civile del tempo.
Appare certo che il monastero abitato da monaci benedettini esistesse già nel X secolo, e ben presto riusciamo a conoscere, attraverso la lettura delle fonti, il lento espandersi delle sue proprietà e delle sue competenze. Le acquisizioni nel territorio padovano e nello spazio cittadino circostante individuano parallelamente il suo crescere in importanza e prestigio.
Fin dal decimo secolo il monastero si presenta operoso e vivace quando riesce ad ottenere dal vescovo della città una concessione per l'utilizzo di porzioni di acque del vicino fiume, iniziativa mirata ad intensificare lo svolgimento di attività economiche vitali, come la macina dei cereali. Nel 1077 un placito, emanato il 26 febbraio, aveva sentenziato che il Prato della Valle, assieme a molti altri beni nelle vicinanze, appartenevano all'abbazia di Santa Giustina; la grande piazza accoglieva annualmente anche il mercato che si teneva in occasione delle solennità dei santi patroni, Giustina il 7 ottobre e Prosdocimo il 7 novembre, cosicché la ritualità della festa si accompagnò spesso nella mente dei padovani alla familiarità con il loro tempio religioso più antico. Fra il 1228 e il 1229, con il consenso del comune, il monastero, dopo operazioni di esproprio e lavori di scavo, realizzò il fossatum che, deviando le acque del Bacchiglione a Santa Croce, avrebbe lambito tutta l'area monastica saldandosi a nord con il fiumicello di Pontecorvo. Da questo fossato la comunità avrebbe potuto deviare le acque per farle giungere all'interno del monastero stesso, costruire mulini e servirsene per la pesca: diritti che il comune stesso si impegnava a difendere. La ripresa che animava la vita della città coinvolgeva in primis l'antichissima istituzione religiosa.

L'area del Prato della Valle si era intanto arricchita di nuovi edifici religiosi, in un processo che difficilmente si potrebbe spiegare senza la presenza qualificante del monastero. Nel gennaio 1076 il vescovo di Padova, Olderico, faceva dono al monastero della piccola chiesa di San Daniele, il cui corpo era stato ritrovato solo qualche mese prima in Santa Giustina, e poi traslato nella cattedrale della città. A pochi metri soltanto dall'antica basilica, nel luogo dell'attuale piazza Ytzhak Rabin, viveva la comunità monastica femminile di Santa Maria della Misericordia, di leggendaria fondazione; dirimpetto, divisa dallo spazio del Prato, era situata Santa Maria di Betlemme, ricordata, assieme al suo "spedale", nel 1180 in un contratto di livello perpetuo concesso dal monastero. Allo sbocco dell'omonima via (ora Briosco), sorgeva San Leonino, dapprima semplice chiesa, arricchita agli inizi del XV secolo da un ospedale per volere di Benvenuto de' Bazioli: istituzioni costantemente soggette a Santa Giustina.

In questo processo di espansione, il monastero dovette fare i conti anche con disastrose calamità naturali. Quando, nel 1117, il terribile terremoto distrusse l'antica basilica, lasciando miracolosamente intatto il sacello paleocristiano, il Prato e la città ebbero un nuovo tempio, le cui forme ci restano quasi del tutto sconosciute. Si sa che la comunità benedettina provvide immediatamente alla costruzione di una nuova basilica, anche utilizzando pietre e materiale costruttivo dell'antico teatro romano. Dotata con ogni probabilità di un quadriportico, secondo forme architettoniche in uso a quel tempo, essa occupava uno spazio più arretrato rispetto alla basilica attuale. Così il nuovo edificio, moderno nello stile e nel gusto, veniva ad occupare spazi e ruoli che da tempo erano stati propri del più antico tempio intitolato alla santa martire. Restano, come uniche testimonianze importanti di quella costruzione, una parte dell'ambiente, che ospita il coro vecchio, la cappella di San Luca, la base del campanile e i resti del portale che fu costruito, a ben interpretarne gli indizi stilistici, negli anni a cavallo tra il XII e il XIII secolo. Oggi essi sono conservati nei locali adiacenti alla sacrestia e sono sicura testimonianza della cura ed attenzione che la comunità benedettina volle riservare alla porta del nuovo tempio, in un dialogo teologicamente impegnato con l'osservatore. Credenti e non credenti, viandanti frettolosi e fedeli, potevano ammirare e meditare su questo vero gioiello che arricchiva la recente costruzione.

Il periodo che aveva avuto inizio con il secondo millennio e che si protrasse per circa tre secoli, fu una stagione di radiosa espansione per la comunità di Santa Giustina e per il monachesimo padovano tutto, per altezza di spiritualità e di cultura, per potenza politica e ricchezza di patrimonio. Ma sarebbe seguito a quell'epoca d'oro un periodo di profonda crisi durante il XIV secolo, motivata dalla pesante ingerenza della signoria dei Carraresi sull'abbazia, ma anche da altre e diverse congiunture sfavorevoli. La forza per la rinascita, il vigore necessario per attuare una riforma resasi ormai necessaria, si concretizzò con la nomina da parte del pontefice Gregorio XII nel 1408 di un nuovo abate, Ludovico Barbo. Giovane di venti sette anni, ma ricco di un' esperienza religiosa maturata nella sua città, Venezia, egli fu l'uomo nuovo che riuscì a portare linfa vitale e feconda, in un ritrovato spirito di osservanza alla Regola del fondatore e al Vangelo.
La svolta radicale da lui impressa in seno all'ordine e, primariamente, nel monastero padovano, trovava anelito in una devotio che meglio interpretava le esigenze spirituali e ascetiche dell'uomo del tempo; a questa spinta rinnovatrice in campo spirituale si accompagnò anche una profonda opera riformatrice e di controllo sulle proprietà dell'abbazia e sull' organizzazione del cenobio. Lo stato di abbandono denunciato dal Barbo coinvolgeva tutta la struUura del monastero e le sue proprietà fondiarie. Esse vennero riorganizzate in un programma globale tendente a vivificare anche le attività econo miche dell'abbazia; nel contempo, un progetto di rinnovamento straordinario avveniva all'interno del monastero. Una particolare attenzione fu riservata ai locali dove la comunità benedettina quotidianamente viveva, ai luoghi della sua meditazione: erano rinnovati ed ampliati i chiostri, realizzata una nuova sacrestia e un nuovo presbiterio. Con attenzione fervida al mondo umanistico rinascimentale, si provvide alla decorazione pittorica della cappella di San Luca tra il 1436 e il 1441 e del chiostro Maggiore fra il 1492 e il 1496, mentre Andrea Mantegna, tra il 1453 e il 1455, si impegnava nella realizzazione del polittico di San Luca, nello spirito dell'umanesimo religioso che si respirava nell'ambiente monastico. Trascorsi pochi decenni dall'arrivo della dominazione veneziana, Santa Giustina si presentava forte della rinnovata autorità in campo spirituale e riferimento vivissimo per la vita culturale della città.

sabato 2 ottobre 2010


Mohandas karamchard Ghandi nasce a Portandbandar in India nel 1869 da una agiata famiglia di commercianti.

La sua è una famiglia gi insta appartenente alla comunità Modh.

Il significato del nome Ghandi è infatti “droghiere” e la casta Modh era ed è una casta di ricchi commercianti.

Mohandas fin da piccolo manifesta un indole decisa e forte: i suoi valori principali sono,fin dall’adolescenza la libertà individuale ed il rispetto di questa.

E per tutta la sua vita il valore del rispetto della vita e della sua libertà ed autonomia sarà prioritario.

Intendo poco parlare della biografia di Ghandi

facilmente riscontrabile in ogni accreditata biografia, quanto soffermarmi sulle sue idee e sul suo stile di vita che hanno strutturato un pensiero e una filosofia.

Pochi ed essenziali accenni, dunque, e solo per inquadrare e definire un percorso, quello di un uomo che sconvolse, come solo gli eletti sanno e possono fare, la storia di un secolo.

Come molti giovani e ricchi indiani Ghandi si reca a Londra, la capitale dell’impero a completare i suoi studi.

Diventa avvocato, anche se per tutto il periodo della permanenza in Inghilterra viene dichiarato fuori-casta.

Era d’altra parte nei costumi indiani di allora: non si potevano certo applicare in Inghilterra i precetti religiosi induisti, per cui si veniva momentaneamente dichiarati fuori-casta per poi venire riammessi una volta rientrati in patria.

È in Inghilterra che Mohandas si laurea in legge e a 24 anni, giovane avvocato modh si reca in Sudafrica dove la comunità indiana presenta problemi di integrazione.

Deve rimanere in sud africa un mese, ma il suo impegno per la comunità indiana e il suo carisma personale è tanto che finirà per rimanere venti anni.

È in Sudafrica che Mohandas struttura il suo pensiero libertario e pacifista.

Il Satyagraha letteralmente: fermezza nella verità, è il credo di vita che Ghandi elabora spiritualmente nella sua permanenza in Sudafrica: prima cerca una qualsiasi forma di collaborazione con il regime inglese, poi il distacco è totale.

Migliaia di persone mettono in atto le regole del Satyagraha e in poco tempo le prigioni inglesi sono piene di seguaci del Ghandi.

Il futuro Mahatma, dopo anche un arresto, torna in India nel 1915, gennaio.

Lo scontento in India è ormai ad un punto estremo e l’arroganza degli occupanti inglesi non fa nulla per stemperare i toni.

È il tempo del Satyagraha e del suo maestro .

La storia della resistenza indiana sotto la guida del maestro è talmente nota che non ritengo utile riproporla.

Voglio invece parlare del suo pensiero rivoluzionario e della universalità dei suoi principi.

Il Mahatma, colui che è caro a dio, predica innanzi tutto la non violenza ed il suo pensiero si incunea nelle dottrine di perlomeno tre religioni: l’induista, la buddista e la religione cattolica.

Il pensiero del Mahatma è talmente vicino a quello del Cristo dei vangeli da lasciare per lo meno stupiti:

povertà, verità e non violenza, ricerca di verità al di là dell’ideologia, ahimsa: amore per il prossimo tuo, non violenza come strada per il progresso, rispetto per qualsiasi forma di vita.

È in questa strada che il Mahatma cessa di essere un indiano ribelle e diventa voce di una umanità dolorante.

E la vittoria politica e strategica contro l’occupazione inglese diviene marginale e secondaria nei confronti di un pensiero che oggi più che mai è attuale.

Il Mahatma, colui che è stato vicino a Dio, muore a Delhi il 30 gennaio 1948, durante la sua preghiera, ucciso da un estremista indù.

È vecchio e ormai solo ma la Satya, la forza della verità, sopravvivrà al suo corpo mortale.



Qualche citazione

Spesso l'uomo diventa quello che crede di essere.

Perché cambiare il mondo quando possiamo cambiare noi stessi?

Solamente chi e' forte e' capace di perdonare. Il debole non sa ne perdonare ne punire.

L'uomo è l'immagine dei suoi pensieri.

Bisogna combattere la violenza. Il bene che pare derivarne e' solo apparente; il male che ne deriva rimane per sempre.

Un genitore saggio lascia che i figli commettano errori. E' bene che una volta ogni tanto si brucino le dita.

Gli uomini che aspirano ad essere liberi difficilmente possono pensare di rendere schiavi gli altri. Se cercano di farlo, non fanno che rendere più strette anche le proprie catene di schiavitù.

Non c'è occasione in cui le donne debbano considerarsi subordinate o inferiori agli uomini. Le lingue proclamano che la donna è metà dell'uomo e, a parità di ragionamento, l'uomo e' la metà della donna. Essi non sono due entità separate, ma metà di una sola cosa. La lingua inglese va oltre e chiama le donne la metà migliore dell'uomo.

Un fedele della Verità non dovrebbe fare nulla per rispetto delle convinzioni. Deve essere sempre pronto a correggersi e ogni qualvolta scopra di essere nel torto deve confessarlo, costi quel che costi, ed espiare.

Un oggetto, anche se non ottenuto con il furto, e' tuttavia come rubato se non se ne ha bisogno.

Nulla consuma il corpo quanto l'ansia e chi ha fede in Dio dovrebbe vergognarsi di essere preoccupato per qualsivoglia cosa.

Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare.

Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne e' nessuna per cui sarei disposto ad uccidere.

La forza non deriva dalle capacità fisiche, ma da una volontà indomita.

La felicità e la pace del cuore nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e doveroso, non dal fare ciò che gli altri dicono e fanno.

Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre.

Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non violenza sono antiche come le montagne.

Qualsiasi cosa tu faccia sarà insignificante, ma e' molto importante che tu la faccia.

Susanna Berti Franceschi
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