mercoledì 27 giugno 2012

Cirillo è per la chiesa romana un santo

Uccidete Ipazia

Piergiorgio Odifreddi. «E il vescovo ordinò: “Uccidete Ipazia”, la prima matematica della storia. Inventò l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio. Fu la vittima del conflitto tra fede e ragione». La Stampa, sabato 21 agosto 1999, supplemento tutto Libri tempo Libero pagina 5.
Se ragione e fede costituiscono i due binarî paralleli lungo i quali si è mossa la storia dell’Occidente negli ultimi duemila anni, i testi che meglio ne rappresentano l’immutabile distanza sono gli Elementi di Euclide e la Bibbia, le due summe del pensiero matematico greco e della mitologia religiosa ebraico-cristiana, la cui efficacia ispirativa è testimoniata dall’incredibile numero di edizioni raggiunte da entrambi (duemila, una media di una all’anno dalla prima “pubblicazione”).
L’episodio più emblematico della contrapposizione fra le ideologie che si rifanno ai due libri accadde nel marzo del 415, quando un assassinio impresse, come disse Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano, «una macchia indelebile» sul cristianesimo. La vittima fu una donna: Ipazia, detta “la musa” o “la filosofa”. Il mandante un vescovo: Cirillo, patriarca di Alessandria d’Egitto.
Il contesto storico in cui l’avvenimento ebbe luogo è il periodo in cui il cristianesimo effettuò una mutazione genetica, cessando di essere perseguitato con l’editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l’editto di Teodosio nel 380, e iniziando a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri “pagani”.
Gli avvenimenti ad Alessandria precipitarono a partire dal 412, quando divenne patriarca il fondamentalista Cirillo. In soli tre anni il predicatore della religione dell’amore riuscì a fomentare l’odio contro gli ebrei, costringendoli all’esilio. Servendosi di un braccio armato costituito da monaci combattenti sparse il terrore nella città e arrivò a ferire il governatore Oreste. Ma la sua vera vittima sacrificale fu Ipazia, il personaggio culturale più noto della città.
Figlia di Teone, rettore dell’università di Alessandria e famoso matematico egli stesso, Ipazia e suo padre sono passati alla storia scientifica per i loro commenti ai classici greci: si devono a loro le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell’Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione.
In un mondo che ancora oggi è quasi esclusivamente maschile, Ipazia viene ricordata come la prima matematica della storia: l’analogo di Saffo per la poesia, o Aspasia per la filosofia. Anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ma Ipazia fu anche l’inventrice dell’astrolabio, del planisfero e dell’idroscopio, oltre che la principale esponente alessandrina della scuola neoplatonica.
Le sue opere sono andate perdute, ma alcune copie sono state ritrovate nel Quattrocento; per ironia della sorte, nella Biblioteca Vaticana cioè in casa dei suoi sicari. Le uniche notizie di prima mano su di lei ci vengono dalle lettere di Sinesio di Cirene: l’allievo prediletto che, dopo averla chiamata «madre, sorella, maestra e benefattrice», tradì il suo insegnamento e passò al nemico, diventando vescovo di Tolemaide.
Il razionalismo di Ipazia, che non si sposò mai a un uomo perché diceva di essere già «sposata alla verità» costituiva un controaltare troppo evidente al fanatismo di Cirillo. Uno dei due doveva soccombere e non poteva che essere Ipazia: perché così va il mondo, nel quale si diffondono sempre le malattie infettive e mai la salute.
Aggredita per strada, Ipazia fu scarnificata con conchiglie affilate, smembrata e bruciata. Oreste denunciò il fatto a Roma, ma Cirillo dichiarò che Ipazia era sana e salva ad Atene. Dopo un’inchiesta, il caso venne archiviato «per mancanza di testimoni». La battaglia fra fede e ragione si concluse con vincitori e vinti, e il mondo ebbe ciò che seppe meritarsi.
Come si vede, già i puri fatti sono sufficienti a imbastire un discreto romanzo, come ha fatto Caterina Contini in Ipazia e la notte. Se poi questi fatti sono riconosciuti con attenzione psicologica e filosofica, e narrati con scrittura dolce e ispirata, allora diventa ottimo, e permette alla figura di Ipazia di stagliarsi luminosa nel buio della notte che la inghiottì insieme alla verità, sua sposa.

domenica 10 giugno 2012

10 Giugno 1692 :viene uccisa la prima strega di Salem

Le streghe di Salem




Cotton Mather nel 1688, aveva investigato lo strano comportamento di quattro ragazzi di Boston, che erano stati presi da convulsioni arrivando perfino a gridare in coro. Cotton concluse che stregonerie praticate da una lavandaia irlandese, Mary Glover, erano responsabili dei problemi dei ragazzi. Presentò tali conclusioni nel suo trattato sull’argomento "Memorable Providences." Cotton era così convinto della presenza della stregoneria da dichiarare che si sarebbe subito spazientito con chiunque avesse osato negare l'esistenza dei diavoli o delle streghe. Nel gennaio 1692, due bambine di Salem (nel Massachusetts), Elizabeth Parris ed Abigail Williams, iniziarono a comportarsi in modo strano, bestemmiavano, avevano attacchi epilettici e stati di trance. Dopo pochi giorni questo comportamento si estese ad altre ragazze della città. Vista l'impossibilità dei medici di diagnosticare il tipo di malattia, il padre di Elizabeth, il pastore Samuel Parris, trovò delle similarità tra l'episodio della figlia e quello descritto nel libro di Cotton Mather e accettò la discutibile tesi di un medico locale che quanto stava accadendo era opera di Satana. Ben presto la schiava caraibica di Parris, Tituba e altre due donne, la mendicante Sarah Good e l'anziana e litigiosa Sarah Osborne, vennero accusate di praticare stregoneria, ma mentre queste ultime due protestarono la loro innocenza, Tituba peggiorò la sua situazione, riferendo di incontri con un uomo alto di Boston (ovviamente Satana per i giudici) e dell'esistenza di una cospirazione di streghe a Salem. Tra marzo e giugno, il caso si aggravò, centinaia di persone furono accusate di stregoneria e decine furono imprigionate per mesi senza processo. Il governatore Phips decise di istituire un tribunale per decidere sul caso, Cotton Mather riuscì ad influenzare il parere di tre giudici suoi amici e membri della sua congregazione, sui cinque preposti ad organizzare i processi. Mather scrisse una lettera ad uno dei tre giudici, John Richards, suggerendogli come dovessero essere raccolte le prove di accusa, in particolare Mather consigliava di prendere in seria considerazione le “prove dello spettro” (testimonanzia di una vittima delle streghe che affermava di essere stata attaccata da uno spettro con le sembianze della strega) e ritenere la confessione delle streghe la migliore prova possibile. La prima vittima fu Bridget Bishop, un'anziana donna accusata di mandare in giro il proprio fantasma per tormentare le persone e di potersi trasformare in un gatto: Bridget fu impiccata il 10 giugno 1692. Il 4 agosto del 1692, Mather predicò affermando che il Giudizio Finale era alle porte, e presentava se medesimo come Giustiziere Capo e il Governatore Phips come capitano dell’attacco finale contro le legioni di Satana.

Seguì un'impiccagione di cinque donne il 19 luglio, tra cui una pia donna, tale Rebecca Nurse, in un primo momento assolta, ma successivamente condannata a causa d'indegne pressioni da parte dei giudici sulla giuria. Persero la vita sia John Proctor, un taverniere intransigente contro la stregoneria, che l'ex pastore del villaggio, George Burroughs, che si difese strenuamente, protestandosi innocente fino all'ultimo e dimostrando il 19 agosto, davanti alla forca, di conoscere il Padre Nostro perfettamente (si supponeva che le streghe non fossero in grado di recitarlo): solo l'intervento dell'implacabile Cotton, giunto appositamente sul luogo, potè far proseguire l’esecuzione, affermando non solo che non era possibile ritornare sulla decisione della giuria ma anche che spesso il Diavolo poteva trasformarsi in un Angelo di Luce.

Una sola vittima non fu impiccata, si trattava dell'ottantenne Giles Corey, il quale si rifiutò di farsi processare. Fu deciso di farlo schiacciare da pesanti lastre di pietra, e tre giorni dopo, la moglie e altre otto presunte streghe furono impiccate. Furono le ultime vittime di questo attacco di isteria collettiva: in tutto furono uccise 20 persone e altre 4 morirono in carcere.

Nell’autunno dello stesso anno, la voglia di trovare streghe cessò di colpo e iniziarono a circolare lavori che criticavano i metodi addottati nel processo e perfino il padre di Cotton, Increase Mather scrisse un lavoro intitolato Cases of Conscience (casi di coscienza), nel quale affermò che era meglio che dieci presunte streghe fossero rilasciate piuttosto che un innocente fosse condannato. A Mather furono affidate le registrazioni del processo di Salem, per preparare un libro “Wonders of the Invisible World”, che i giudici speravano avrebbe messo un luce favorevole il loro operato, a cui fece seguito la pubblicazione nel 1700 del More wonders from the invisible world (altre meraviglie dal mondo invisibile) del mercante di tessuti Robert Calef (1648-1719), il quale dipinse l'operato di Cotton Mather come così spietatamente crudele e palesemente tendenzioso che a quest'ultimo fu negata la presidenza di Harvard e a nulla servì il rogo pubblico (nel cortile del college di Harvard) di questo libro, organizzato dal padre di Cotton. A nulla servirono le proteste di Cotton che professava di avere sposato la cautela del padre nel consigliare ai giudici del processo di non attribuire molto spazio alla “prova dello spettro”, cercando in tal modo di minimizzare il proprio ruolo negli eventi accaduti.

lunedì 28 maggio 2012

BANSHHE(mitologia irlandese)

Banshee
________________________________________ La Banshee è uno spirito femminile .Durante le lunghe notti dell’inverno irlandese questa fata usava emettere dolorosi lamenti che erano presagi infallibili di disastri, sia ad una singola famiglia otalvolta ad un intero villaggio.. Banshee appare vestita di verde, indossa un mantello grigio sul suo corpo avvizzito, con lunghi capelli scarmigliati e occhi rossi di pianto. E 'raffigurata sia come una giovane donna e come una vecchia,ma. la sua caratteristica più comune è il lamento luttuoso durante il quale ha sentito ma non visto. E’ infatti il “sentire”e non il vedere che caratterizza la capacità predittiva della Banshee. Il termine Banshee attuale deriva dal gaelico Bean Sidhe (Bean Si), che significa 'donna di fata'. In Scozia il Nighe Bean o lavandaia al guado soddisfa le stesse caratteristiche, lavare i vestiti di coloro che stanno per morire. In Galles il ruolo è presa dal Gwarach-y-rhibyn , una strega orrenda che infesta anche antiche famiglie gallesi. Le onde nere si infrangevano sulle rocce alte della costa. Il villaggio era appoggiato sulle sponde alte della collina. Una ventina di case,ma più che case capanne di fango pressato con tetti di paglia spioventi a toccare la terra. Il silenzio riempiva l’aria. Fiammelle guizzanti spruzzavano il buio ad ogni piccola finestra. Il popolo di Yunglee si preparava alla cena. La casa di Erwinn era l’ultima della fila di costruzioni,le sue piccole finestre si aprivano sulla baia.Nelle giornate limpide di prima estate ,quando il vento del nord spazzava via ogni nube od ombra dal cielo,si potevano vedere le isole Aran,dove coloro che scesero dal cielo ,avevano riposato prima di giungere alla terra verde. “Il mare si gonfia”La giovane moglie sistemò la ciotola di legno sul tavolo:dentro la zuppa calda fumava. “Il mare si gonfia”Confermò Erwinn. Mettendosi seduto accarezzò il ventre gonfio e teso della donna. Se Eosta avesse gettato il suo sguardo sulla casa ,il bambino poteva nascere prima dello Yule. Allora la festa sarebbe stata grande e avrebbero bevuto il sidro e mangiato carne di pecora. Erwinn amava sua moglie di un amore tenero e assoluto.La sua bellezza lo intimidiva ancora ,dopo anni dalla prima volta che l’aveva vista. Era primavera e lui stava rammendando le reti. Aveva alzato gli occhi verso il sentiero che saliva al villaggio e l’aveva vista. Seduta dietro il carro,i capelli lunghi raccolti in una treccia da cui sfuggivano riccioli ribelli,la pelle bianca cosparsa di lentiggini color dell’oro e due occhi verdi che scaldavano il cuore. Veniva al villaggio con il padre,un commerciante di pelli di lepre che faceva buoni affari con le donne dei villaggi. Aveva capito da subito che non sarebbe più vissuto senza di lei,ma non osava farsi avanti con una donna così bella e giovane,lui ,un pescatore che sapeva di pesce lontano tre miglia,i capelli rossi arruffati dalla salsedine,le mani spaccate dall’acqua fredda,i poveri vestiti,la misera capanna. Ma la ragazza lo aveva guardato e gli aveva sorriso ,scoprendo piccoli denti irregolari che la facevano sembrare un topino. Tre estati e tre inverni erano trascorsi ,prima che Erwinn trovasse il coraggio di chiederla al padre. Aveva costruito una casa più grande usando parte del vecchio ovile e aveva tinto la sua barca di un verde intenso come gli occhi del suo amore. Al matrimonio aveva partecipato tutto il villaggio ed erano venuti anche dalle fattorie dell’interno. Le ginke avevano riempito l’aria per un giorno e una notte e le ragazze avevano ballato fino a gonfiarsi i piedi. Lei lo aveva guardato per tutto il tempo e aveva volteggiato intorno a lui muovendo i piccoli piedi con l’agilità di un capriolo. Nessun amore in nessuna parte della terra verde poteva mai essere stato più grande del loro. A questo ripensava,la testa china sulla sodella di legno ,mentre lentamente mangiava la sua zuppa. Suo nonno,che era stato pescatore prima di lui e di suo padre,e che era anche un uomo quercia e conosceva di erbe e di cure,diceva che il mangiar lento riempie più a lungo lo stomaco e il sapore del cibo Rimane più a lungo nell’anima. Lontano un suono di flauto immalinconiva confondendosi con il soffio del vento che faceva tremare la fiamma del cammino. La moglie si accarezzava il ventre cullando il bambino . Fu un attimo,improvviso,una frazione di tempo :lei alzò gli occhi verso la finestra e tra la luce della candela vide ,riflessa nel vetro la faccia della ragazza. Aveva capelli lunghi e sciolti,scarmigliati e attorcigliati intorno al viso come serpentelli di fiume.Gli occhi,obliqui e stretti come quelli di una lucertola parlavano di una tristezza infinita. Fu un momento,uno solo e il cuore le si fermò.Aprì la bocca a chiamare il marito,ma l’immagine era sparita e pensò di aver immaginato,sognato ad occhi aperti come spesso le accadeva nella sua solitudine. Tornò ad accarezzare il bambino e distese la gamba a toccare quella di Erwinn. La mattina il villaggio fu sveglio assai prima dell’alba. Scesero tutti ,donne ,bambini assonnati avvolti in pelli di capra e vecchi a veder partire gli uomini per la pesca. Il mare era nero e le onde si buttavano con violenza contro l’arenile :nell’oscurità si vedeva il bianco della spuma che si innalzava e ricadeva spruzzando intorno perle di acqua gelida. Gli uomini cominciarono a far scendere le barche incitati dal canto di Gor Ai Tu ,il più anziano di loro.Il canto parlava della pesca miracolosa che era stata fatta nella notte dei tempi sotto la guida di coloro che scesero dal cielo e che avevano insegnato agli uomini come costruire barche che affrontassero il mare. A gruppi di tre o quattro saltavano sulle barche ,appena queste erano completamente in acqua. Le imbarcazioni rollavano,si inclinavano,sembravano sparire sotto ogni onda. Poi presero il largo,nel buio profondo scomparirono ad una ad una e solo il canto ,forte che pareva salire nel cielo che si schiariva appena,si continuò a sentire per minuti. In silenzio le donne presero i più piccoli in braccio e si incamminarono verso le case.I vecchi rimasero ancora ,chiudendo gli occhi per cercare di vedere le barche nel mare. Passò tutta la giornata:ognuno occupato nei soliti lavori. I bambini aiutavano le donne con piccole incombenze e per loro era l’unico gioco. Alle sette di sera ,che il sole era tramontato già da ore nessuna barca era tornata. Tornarono alla baia,dove la mattina i pescatori erano partiti. Si misero così,in piedi le donne,i bimbi intorno,i vecchi dietro,a fissare il mare sempre più grosso ,come se il guardare aiutasse gli uomini a tornare. La giovane moglie di Erwinn guardava invece verso la collina come se un richiamo antico e conosciuto la guidasse. Un dolore infinito le pesava nel petto soffocando ogni respiro. Il lamento acuto ,lancinante riempì l’aria :non era un grido,non era un urlo:era una musica di angoscia . Fu come se la morte cantasse . Si fermarono i gabbiani ad udire quel canto che copriva il rumore della tempesta. I vecchi chinarono la testa ed ogni cosa fu piena del nulla.

mercoledì 25 aprile 2012

Cantarono i poeti

Cantarono i poeti Potevano I poeti scrivere con i corpi dilaniati dei ragazzi, viscere aperte proiettili a perforare i cervelli lame a straziare? Potevano I poeti scrivere con donne violate e torturate cuori grondanti di sangue? Potevano i poeti cantare i loro versi Con bimbi dentro cancelli d’orrore E vecchi attoniti senza ricordi? Eppure scrissero I poeti E riempirono di suoni Il vuoto del tempo confuso del putrido odore Della violenza. Ora I poeti Scrivono d’amori infelici Di piegate passioni Di sogni infranti Si voltano Sdegnosi Alla mesta e dolorante miseria. Susanna Berti Franceschi Copyright

martedì 17 aprile 2012


MARIA BAKUNIN

«Marussia per gli amici, la Signora per gli altri» [Nicolaus, 2003, p.29], come la ricorda il Professor Alessandro Rodolfo Nicolaus, suo allievo all’Università di Napoli, è la terzogenita del filosofo e rivoluzionario russo Michail Bakunin (1814-1876). Nata in Siberia il 2 febbraio 1873, alla morte del padre, avvenuta a Berna nel 1876, segue a Napoli la famiglia accolta dall’avvocato socialista Carlo Gambuzzi, che sposa la madre.
I fratelli Bakunin frequentano il Liceo classico Umberto I; Carlo si dedica agli studi di ingegneria, Giulia Sofia si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Napoli nel 1893, mentre Maria intraprende gli studi di chimica nella stessa università. Già “preparatore” all’Istituto di chimica dal 1890, si laurea nel 1895 con un lavoro Sugli acidi fenil-nitrocinnamici e sui loro isomeri stereometrici.
Pochi anni dopo sposa Agostino Oglialoro-Todaro (1847-1923), direttore dell’Istituto, di cui era diventata collaboratrice. Nel 1909 inizia ad insegnare chimica applicata alla Scuola superiore politecnica di Napoli e nel 1912 vince il concorso di professore ordinario per la cattedra di chimica tecnologica applicata presso la medesima scuola. Nel 1940 si trasferisce alla cattedra di chimica organica della Facoltà di scienze dell’Università di Napoli dove lavora fino al 1947. Nel 1949 le viene conferito il titolo di “professore emerito”.
Maria Bakunin svolge le sue ricerche prevalentemente nei campi della sterochimica e della fotochimica. Nell’ambito della chimica applicata, all’interno di un progetto del Ministero della pubblica istruzione per una mappatura geologica del territorio nazionale, si occupa tra il 1909 e il 1910 degli scisti bituminosi dell’Italia meridionale. Compie studi preliminari nella catena montuosa di Karvedel in Tirolo, dove già dall’Ottocento venivano sfruttati i giacimenti di scisti bituminosi per la produzione di ittiolo, un olio di origine fossile che veniva utilizzato a fini medicinali; si interessa quindi dei giacimenti di scisti nei Monti Picentini, nella provincia di Salerno, lavorando per alcuni anni come consulente del Comune di Giffoni Valle Piana per lo sfruttamento industriale dei giacimenti locali e la produzione di ittiolo. Nel 1925 partecipa al secondo congresso di chimica pura ed applicata a Palermo, portando un contributo sugli scisti siciliani dei Monti Peloritani.
Donna dalla forte personalità e dal carattere deciso, estremamente popolare nell'ambiente napoletano, Maria Bakunin è una figura di rilievo non solo per la sua figura di scienziata e di "maestra" temuta e stimata, ma anche per il ruolo di direzione di varie istituzioni scientifiche. Nel 1919 diviene vice presidente della Sezione di chimica di Napoli, di cui faceva parte fin dal 1912, anno in cui era stata fondata sotto la presidenza di Arnaldo Piutti (1857-1928). Nel 1932 viene eletta presidente della sezione di scienze fisiche e matematiche della Società di scienze, lettere ed arti di Napoli (1932-1952); socia dell’Accademia pontaniana fin dal 1905, ne assume la presidenza per un mandato nel 1944, alla sua riapertura dopo la sospensione sotto il fascismo. È la prima donna socia dell’Accademia nazionale dei Lincei nella classe delle scienze fisiche nel 1947. La sua fama cittadina è legata alla difesa del "suo" Istituto di chimica durante la Seconda guerra mondiale; come ricorda Nicolaus, «quando i tedeschi misero a fuoco le biblioteche di via Mezzocannone, la Bakunin si sedette in prossimità delle fiamme incrociando le braccia. Il tenente tedesco comandante, stupefatto da tanto coraggio, dette ordine di ritirarsi e i danni furono meno gravi» [Nicolaus, 2003, p. 30]. Maria ha un ruolo importante anche nella vita – personale e professionale – del nipote a cui era molto legata, il noto matematico Renato Caccioppoli (1904-1959) figlio di Giulia Sofia e del chirurgo napoletano Giuseppe Caccioppoli (1852-1947): nel 1938 interviene presso le autorità per impedirne l’arresto per attività antifascista.
Muore nella sua abitazione in via Mezzocannone a Napoli nel 1960.

lunedì 9 aprile 2012


Santa Casilda di Toledo Vergine

9 aprile

Toledo-Briviesca (Spagna), secolo XI

Casilda è una giovane musulmana, figlia del governatore di Toledo, l'allora capitale religiosa della Spagna, che gli Arabi hanno conquistato nel 711, e che resterà in mano musulmana fino al 1085. (Secondo certi racconti, suo padre sarebbe addirittura «re» di Toledo). In città tutti conoscono la ragazza per la sua generosità, e soprattutto perché è sempre pronta a soccorrere i cristiani prigionieri, porta soccorsi, e insospettisce suo padre, che comincia a farla controllare. Un giorno la sorprendono mentre porta del pane a quegli infelici; ma, al momento della perquisizione, le pagnotte che porta con sé si trasformano in rose. Accade poi che Casilda sia colpita da una malattia misteriosa, che nemmeno i più famosi medici arabi del tempo riescono a curare. Consigliata dai suoi amici cristiani, lei si fa portare nella zona di Burgos, a Briviesca, per immergersi nell'acqua della fonte San Vincente. Quell'acqua la guarisce, e Casilda decide di farsi cristiana. Ma senza clamore: ricevuto il battesimo, abbandona la vita della città e dei palazzi, scegliendo la condizione anacoretica. Si ritira cioè in un eremo, come ha sentito raccontare che facessero gli antichi Padri del deserto. E nel suo eremo rimane fino alla morte. )
La vergine spagnola Casilda (Casilla) visse probabilmente nell’XI secolo; i primi documenti storici che parlano di lei, risalgono però al XV secolo; il culto fu abbastanza popolare anche se le biografie successive riportano fatti incredibili.
Eliminando gli episodi leggendari, si può dire che Casilda, figlia dell’emiro di Toledo al-Mamun (ma secondo altri, figlia del governatore di Cuenca, Ben Cannon), fu educata nella religione musulmana, nonostante ciò, sin dalla prima giovinezza mostrò compassione verso i cristiani imprigionati dal padre, aiutandoli come poteva.
Siamo al tempo della dominazione araba in Spagna; un giorno si ammalò e non avendo fiducia nei medici arabi, decise di recarsi in pellegrinaggio al santuario di S. Vincenzo di Briviesca (Burgos), molto celebre per le sue acque, ritenute prodigiose, cui facevano uso i pellegrini specie quelli affetti da emorragie.
Anche Casilda guarì, decidendo poi di farsi cristiana e di condurre una vita solitaria e penitente presso la fonte miracolosa che in seguito prese il suo nome.
La vergine penitente visse molti anni, si dice centenaria; l’anno della sua morte non è stato possibile individuarlo; il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Vincenzo.
Il 21 agosto del 1750 le sue reliquie ebbero una solenne traslazione in un nuovo santuario. La sua festa liturgica si celebra il 9 aprile.
Artisti famosi per lo più spagnoli, come il Murillo, Zurbarán, Bayeu y Subias, la raffigurano vestita con gli abiti sontuosi e regali, della loro epoca.

sabato 31 marzo 2012



BERGEN BELSEN

Sentono
Gli uccelli
La stagione che passa,
tra un vento
che balla tra i rami,si staccano,con rapidi guizzi,
le foglie
e ,lente,ondeggiano.
Vola alta
La poiana
Con il suo dolore senza fine.
E noi,come foglie staccate
Dal ramo,ondeggiammo e
cademmo.
E,quando il cancello,
con inavvertito rumore,
si apri,
a noi rimase solo il ricordo
di quella ,inestinguibile,
morte di vivi.

Susanna Berti Franceschi
riproduzione riservata

domenica 18 marzo 2012







Chirurghi ma anche patrioti Quei medici che salvarono la gamba dell?eroe Garibaldi




yyA conclusione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, il Complesso del Vittoriano di Roma ospiterà fino al 6 maggio la mostra "Il 150° si racconta. Le manifestazioni celebrative" che, attraverso foto, filmati, documenti, oggetti, ripercorre le molteplici iniziative, le grandi mostre, gli eventi speciali, le manifestazioni musicali, le rappresentazioni teatrali, le pubblicazioni, i discorsi istituzionali dell'anno celebrativo. La mostra al Vittoriano resterà aperta ogni giorno dalle 9.30 alle 18.30 (la domenica e i festivi fino alle 19.30). di Gian Ugo Berti wPISA Il vero problema era che la pallottola non si trovava. Un primo tentativo d'estrarla da parte dei medici presenti all'Aspromonte (Enrico Albanese, Pietro Ripari e Giuseppe Basile)aveva avuto esito negativo. Da quel momento, altri sedici colleghi s'avvicendarono al capezzale di Garibaldi negli 86 giorni che seguirono, fino alla ormai insperata soluzione. Tutti volevano evitare il taglio dell’arto ma nessuno prendeva una decisione concreta, nonostante che fosse Garibaldi stesso a dire: «Se necessario, amputate». Nessuno infatti se la sentiva d'aprire alla cieca, data forse anche l'importanza del paziente. In realtà, la pallottola, che era entrata all'altezza del malleolo interno destro, dopo aver bucato il calzone di panno, lo stivale e la calza di lana, s'era posizionata nelle strutture interne profonde della gamba ( i raggi X vennero scoperti solo trent'anni dopo) e la massa non era palpabile dalla visita esterna. D'altra parte, l'amputazione rappresentava l'intervento in uso per bloccare la gangrena, da eseguire rapidamente, spesso già sul campo di battaglia. Per Garibaldi, da quel 29 agosto 1862 iniziò un vero e proprio calvario, con la beffa che l'autore del ferimento fu involontariamente uno dei suoi garibaldini, il tenente Lucio Ferrari. Il Generale, fatto quindi prigioniero dall'esercito piemontese, fu portato in barella via mare sulla fregata Duca di Genova fino al carcere del Forte di Varignano a La Spezia, dove seguirono numerosi consulti clinici. Senza alcun intervento risolutore, però, la gamba gonfiava e s'infiammava ed inutili erano i linimenti apposti sulla ferita. La tumefazione dal malleolo destro interessò progressivamente tutta la gamba, provocando intenso dolore e febbre alta. Dopo le visite, fra gli altri, di Francesco Rizzoli di Bologna e Luigi Porta di Pavia, a sbloccare la situazione venne l'idea di un chirurgo napoletano, Ferdinando Palasciano, che suggerì d'ascoltare il parere del chirurgo francese Auguste Nélaton. Il consulto confermò l'ipotesi del proiettile ritenuto. Costretto però a rientrare d'urgenza a Parigi, Nélaton inviò ai colleghi italiani due speciali sondini da lui ideati: una piccola sfera di porcellana, usata proprio per individuare i proiettili nelle ferite, una novità assoluta per l'epoca. Introdotta infatti nella ferita, la pallina di porcellana della sonda, a contatto con il piombo del proiettile, s'anneriva, evidenziandone la presenza e la posizione. L'indagine diede i frutti sperati. Ed è a questo punto che entra in scena, la capacità operatoria di Zannetti. Il 23 novembre, a Pisa, il chirurgo pratica nel piede, ormai in pessime condizioni, un'incisione profonda quattro centimetri ed estrae una pallottola di carabina del peso di ben 22 grammi, evitando così l'amputazione. L'anno successivo, da Caprera,Garibaldi gli scrive: «La mia guarigione procede a gonfie vele … sono per la vita vostro di cuore». Eppure nel carteggio di Zannetti,esposto in una mostra rievocativa a Palazzo Medici Riccardi a Firenze, un Gesuita lo accusa d'aver curato un impostore ed un assassino, «…perché - si legge - un uomo che tradisce il suo re non merita altro che il titolo di assassino». Comunque a Firenze, in via Conti 1, per decreto del Comune una lapide ricorda: “Qui abitò ed ottuagenario morì, il 3 Marzo 1881, Ferdinando Zannetti, medico e chirurgo, senatore del Regno e fra i veterani delle patrie battaglie, presidente, degno di passare ai posteri per la scienza onorata sulla cattedra e per l'amore all'Italia”. Garibaldino fu anche Corrado Tommasi Crudeli, arruolatosi nei Cacciatori degli Appennini e poi nella spedizione dei Mille. Fu docente di Anatomia Patologica a Firenze ed autore della riforma sanitaria voluta dal primo ministro Francesco Crispi, nel 1988. Il suo Generale così gli espresse gratitudine: «Il vostro nome mi è noto come quello di uno dei valorosi giovani che hanno combattuto al mio fianco, riportando segni gloriosi delle battaglie combattute». Una fiducia ripagata con i decisivi interventi nei consulti medici al Varignano e a La Spezia, opponendosi decisamente all'ipotesi dell'amputazione. Garibaldi, nel ringraziarlo da Caprera, gli inviò la bandiera tricolore con il logo “Italia Libera”. Aderente alla Giovane Italia di Giuseppe Mazzini, poi combattente a Curtatone e Montanara ed infine garibaldino nelle Due Sicilie, Emilio Cipriani, fiorentino giunse anche alla carica di Senatore in Parlamento per tre legislature nel collegio elettorale di Firenze nel 1881. Grazie ai suoi studi universitari, meritò professionalmente di salire a dirigere, nell'Istituto di perfezionamento, la cattedra di Oculistica presso l'ospedale Santa Maria Nuova. Nella commemorazione in Parlamento il presidente dell'Assemblea, Sebastiano Tecchio, scrive: «Spetta ad Emilio Cipriani la gloria di avere, forse meglio che ogni altro, contribuito al ritrovamento del proiettile e quinci agevolato il prof. Ferdinando Zannetti che potè liberare da sì fiero nemico il piede offeso». «Non ho fatto abbastanza per l'Italia». Furono le ultime parole pronunciate da Leopoldo Pilla a Curtatone, colpito in pieno petto da una cannonata. Era giunto all'Università di Pisa, su chiamata del Granduca di Toscana, nel 1842, diventando uno dei maggiori esperti internazionali di geologia e mineralogia. I moti insurrezionali dell'epoca lo spinsero il 22 marzo ad imbracciare il fucile e partire, con il grado di capitano, comandante la prima compagnia, alla testa dei volontari del battaglione universitario. Infine, ma la lista sarebbe lunga, è da ricordare la figura e l'impegno di Atto Tigri, laureatosi a Pisa dove divenne assistente di Filippo Civinini. Attraverso le sue ricerche si cominciò a parlare di tubercolosi e colera. Come riferisce Luciano Sterpellone nel suo libro “Camici bianchi in camicia rossa”. A lui va forse il merito di aver scoperto, prima del tedesco Karl Joseph Eberth, il bacillo del tifo.

Riproduzione vietata Gian Ugo Berti

venerdì 16 marzo 2012


Dalla morte di Cesare alla battaglia di Azio


Sia Ottaviano, che ne era il nipote, che Antonio, il suo più fidato luogotenente, avrebbero voluto succedere al defunto Cesare. Per evitare di dover abbandonare la propria carica, Decimo Bruto, governatore della Gallia e cospiratore nella congiura, si schierò dalla parte di Ottaviano e del senato contro Antonio. Nel 43 a.C. si giunse allo scontro tra Antonio ed Ottaviano, con la guerra di Modena, al termine della quale Antonio, sconfitto, deve lasciare il potere ad Ottaviano. Ottaviano nel 43 a.C., per rafforzare la propria posizione, si alleò con Lepido ed Antonio, dando vita al secondo triumvirato.

Per vendicare la memoria di Cesare, nel 42 a.C. i protagonisti della congiura, Bruto e Cassio, sono sconfitti ed uccisi dai triumviri nella battaglia di Filippi. Rimasti soli a spartirsi il potere, i triumviri si organizzarono nel seguente modo: Ottaviano ebbe il governo della Spagna e delle isole, Lepido l'Africa ed Antonio la Gallia e l'Oriente. Fu proprio durante il suo soggiorno nella provincia d'Egitto che Antonio si innamorò di Cleopatra ed ebbe da lei tre figli ( Helios, Selene e Cesarione ). Nel frattempo Fulvia e Lucio Antonio - rispettivamente moglie e fratello di Antonio - scatenarono una rivolta che venne sedata con la guerra di Perugia, con cui nel 40 a.C. vennero costretti alla resa. Per scacciare il pesante sospetto di tradimento che pesava su di lui da parte di Ottaviano dopo quanto era appena accaduto, Antonio fu allora costretto a sposare - alla morte di Fulvia - Ottavia, la sorella di Ottaviano, e siglare l'accordo di Brindisi, perfezionato nel patto di Miseno nel 39 a.C.. Nel 36 a.C. Ottaviano si sbarazzò dei pirati di Sesto Pompeo a Naucolo.

Antonio nel 37 a.C. aveva infine sposato - senza ripudiare la moglie Ottavia - Cleopatra e stava favorendo i propri figli, attirandosi le ire di Ottaviano e degli ambienti più ostili alla "orientalizzazione" dello stato romano. Lo scontro tra Ottaviano ed Antonio fu inevitabile e nel 31 a.C., sconfitto da Ottaviano nella battaglia navale di Azio, Antonio cercò infine riparo in Egitto, dove si suicidò assieme a Cleopatra.


Con la vittoria di Azio, che segna anche il termine di quella che canonicamente è detta Epoca Ellenistica ed inaugura il dominio incontrastato di Roma ad Occidente ed a Oriente, Ottaviano trovò campo libero per mettere in atto - senza più oppositori - il proprio progetto politico. Era chiaro che - per quanto il senato e gli ambienti più conservatori ancora non riuscissero ad ammetterlo - la repubblica era ormai morta negli scontri che avevano visto contrapposti Mario e Silla, Cesare e Pompeo ed infine Antonio ed Ottaviano. Ormai bisognava riformare ampiamente lo stato ed Ottaviano, perfettamente consapevole del compito che lo aspettava, vi si accinse di buon grado, finendo per consegnare non solo ai cittadini romani "una città di marmo", da quella di legno che aveva trovato, ma anche una forma di governo, l'impero, che sarebbe durata ben oltre la sua morte.

domenica 11 marzo 2012


MARY SHELLEY

Quando Mary Shelley scrive il suo romanzo è influenzata dalle scoperte scientifiche avvenute all'inizio del diciannovesimo secolo. Proprio in questo periodo gli scienziati cominciarono a chiedersi seriamente se fosse possibile riportare in vita i morti e se la vita potesse tornare spontaneamente da materiale inorganico. Infatti, gli scienziati e i fisici del suo tempo, tormentati dalla sfuggente linea di separazione tra vita e morte, analizzando organismi minori e facendo esperimenti di anatomia umana, tentarono di resuscitare persone annegate o morte recentemente con delle scosse elettriche. L'autrice di Frankenstein segue soprattutto i principi di Galvani. Si capisce chiaramente che Mary Shelley è stata influenzata da questo scienziato dall'espressione "scintilla di vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi" usata per descrivere la nascita del mostro. In ogni modo, quando "Frankenstein" fu pubblicato, la parola galvanismo era implicitamente sulla bocca di tutti; infatti, l'elettricità era considerata una misteriosa forza vitale che aveva l'apparente capacità di ridare vita ai morti. La popolazione era talmente interessata ai principi galvanici che nel 1836 un cartone politico trattava di cadaveri "galvanizzati". Le persone, però, si preoccupavano anche del problema etico delle nuove scoperte; infatti, molti si chiedevano come sarebbe stata la psicologia degli esseri che si sarebbero potute creare con i principi di Galvani. Mary Shelley, grazie al suo libro, risponde a questi dubbi morali dando vita ad una creatura complicata in grado di parlare, leggere, pensare e soffrire; in questo modo supera immaginariamente il tanto sospirato confine tra vita e morte, e mette in guardia gli scienziati troppo ambiziosi sulle probabili conseguenze che potrebbe portare una "creatura di laboratorio", come il mostro cui Victor Frankenstein dà vita. Nel libro Frankenstein, il mostro, intelligente e sensibile, legge il romanzo scritto in poesia "Paradise Lost" (Paradiso Perduto) il cui autore è John Milton. L'orribile creatura si riconosce nelle forti emozioni descritte dal libro; infatti paragona la sua situazione a quella di Adamo, ma il mostro non "è nato dalle mani di Dio come una creatura perfetta", l'essere di Victor è creato orrendamente. Abbandonato dal suo creatore, il mostro si sente sciagurato, inutile e solo. Mary Shelley vuole far capire che dare vita ai morti è una cosa macabra; infatti decide di prendere dei pezzi di corpi differenti per poi legarli insieme (invece di prendere semplicemente un unico corpo), non solo per facilitare il lavoro di Victor Frankenstein, ma anche per dare vita ad una creatura mostruosa, suscitando molto disgusto nel lettore. Infatti, il corpo umano, vivo o morto, diviso in pezzi, può fare sorgere forti emozioni. Bisogna però ricordare che l'autrice di Frankenstein non usa soltanto le nuove scienze di chimica e elettricità per descrivere la creazione del mostro, ma anche la vecchia tradizione rinascimentale della ricerca alchimistica di evocare la possibilità prometeica di rianimare i corpi dei morti.
Da sempre gli scienziati sembrano determinati a rompere le sacre barriere tra vita e morte, una prospettiva che occupa sia la mente che l'immaginazione della popolazione. Ancora oggi i giornali speculano liberamente sull'ipotesi che un giorno si potrà far resuscitare i morti, raggiungendo l'immortalità grazie all'utilizzo di organi artificiali, e alterando la forma genetica delle generazioni future con l'eugenetica. Inizialmente (quando la scienza iniziò ad essere considerata un'importante disciplina) le scoperte furono primitive e molto semplici, come quella di Robert E. Cornish che uccise un cane con il gas neutrogeno e poi lo fece resuscitare, lo sviluppo del "cuore di vetro" (una pompa fatta di vetro Pyrex, destinata a sostenere gli organi rimossi dal corpo per lo studio o il trapianto), oppure il riuscire a tenere in vita cuori, reni, ovaie e altri organi per un lasso di tempo apprezzabile. Tutte queste scoperte contribuirono a far sembrare realizzabile l'antico sogno di alchimisti e scienziati e a cercare nuove tecniche per dare vita a uomini creati in laboratorio.
Nel XX secolo i fautori dell'eugenetica volevano migliorare il genere umano attraverso la sterilizzazione dei criminali, dei ritardati mentali, e altri considerati fallimenti della società; facendo un calcolo approssimativo, due terzi degli americani avrebbero dovuto sostenere queste misure. Questo genere di collegamenti ordinati tra biologia e destino andavano di moda tra gli intellettuali negli anni '2O; tutto ciò, nel suo piccolo, aiuta a completare la trasformazione del mostro creato da Mary Shelley in un'icona culturale.
La scienza corre in fretta e la popolazione ha tuttora, alle soglie del nuovo millennio, paura di una nuova tecnologia che può mettere a rischio l'umanità e che sfida i suoi ideali di esseri umani. Bisogna quindi porsi dei quesiti etici: "Che cosa è accettabile nella scienza e nella medicina? Chi lo decide?" I ricercatori si sono subito posti queste domande psicologiche. La dissezione dei corpi umani per la ricerca medica, come i trapianti di tessuti da una specie all'altra risollevano questa questione. Nel 1993, dei tecnici americani tagliarono in migliaia di pezzi il corpo di un assassino condannato a morte; ci fu un generale malcontento a causa di questo esperimento. Oggi, grazie alla fotografia e alla digitazione è possibile insegnare anatomia e chirurgia; infatti le persone possono prendere visione di documenti che raffigurano pezzi di corpi umani gratuitamente sulla "World Wide Web". Con questo metodo non si deve più tagliare il corpo delle persone e quindi non si va incontro a problemi sociali. I ricercatori che si impegnarono a fare il "Visible Human Progect" (un progetto per la visione dei tessuti umani) ricevettero il permesso dell'uomo condannato ad usare il suo corpo. Il consenso sociale sulla domanda per la dissezione umana, però, ripresentò il dibattito, esistente da prima del tempo di Mary Shelley, nel nostro. Il processo di risoluzione di queste due domande sfociò in un pubblico dibattito; si parlò anche di Victor Frankenstein, solo nel suo laboratorio, dove non avrebbe mai potuto immaginare le terribili conseguenze della sua creazione. Comunque ancora oggi queste domande non hanno avuto una risposta.
Grazie all'avanguardia biomedica si possono trasportare organi di animali di specie diverse per salvare persone ammalate; questo trapianto si chiama "xenograft" (dal greco xenos, straniero o ospite), cioè un trapianto eteroplastico. Questo significa che potremo avere un cuore di babbuino, un fegato di maiale, e altri organi animali. Numerosi sono gli esempi contemporanei che si possono fare per ricordare il mostro descritto da Mary Shelley. Ad esempio un neonato, conosciuto solo con il nome di "Baby Fae" per proteggere la sua privacy, nacque con un fatale difetto cardiaco. Nel 1984, divenne il primo neonato a ricevere il cuore di un babbuino, ma morì venti giorni dopo. Anche Jeff Getty, un paziente ottimista malato di AIDS, nel gennaio del 1996, subì un trapianto eteroplastico. Ricevette il midollo di un babbuino, con il fine di aiutare a incentivare il suo sistema immunitario. Getty è ancora vivo. La domanda che ci sorge spontaneamente è: "Quali sono i rischi che può correre un uomo con un trapianto di questo tipo? Può essere contagiato da virus che colpiscono solo gli animali? E i pericoli morali che nascono dal violare l'ordine naturale?" Le domande rimangono ovviamente irrisolte.
Il mito del mostro creato da Victor Frankenstein si può ricollegare non solo con le scoperte sopra elencate, ma anche con la clonazione della pecora "Dolly", una vera e propria creatura di laboratorio, un vero mostro. Nel 1997, per una fuga di notizie, il mondo seppe che alcuni ricercatori scozzesi avevano clonato una pecora; ci furono stupore e gioia in tutto il mondo per la creazione della pecora. Giornali, riviste e altri mass-media affermarono i dubbi sulla clonazione. Nelle settimane successive alla comunicazione i giornali annunciarono che la scoperta era fondamentale: in Scozia erano riusciti a clonare una pecora con successo. La domanda etica che molti iniziarono a porsi fu: "Possiamo lasciare che gli scienziati che sono a conoscenza del segreto della clonazione procedano senza contrasti? Osiamo abbracciare un beneficio emergente senza curarci dei suoi rischi?" Questa volta la società rispose, senza mezzi termini, "no" ad entrambe le domande. Le persone scrissero lettere al capo redattore del progetto, chiamarono i talk show, entrarono in rete. In quei pochi mesi, la clonazione divenne una preoccupazione sociale; bisognava quindi intervenire immediatamente per decidere come governare le conseguenze dell'inquietante cambiamento scientifico. Mentre lo scienziato di Mary Shelley, Victor Frankenstein, aveva fatto semplicemente ciò che voleva, segretamente, con disastrose conseguenze su sé stesso e sui suoi cari, oggi gli scienziati possono procedere alla loro ricerca solo se il governo è a conoscenza delle loro azioni. Poiché la scienza farà sempre più chiarezza sui segreti della natura, i quesiti morali, come è avvenuto per la clonazione, risorgeranno ancora. Ogni volta che la conoscenza supererà i limiti, Frankenstein farà sentire le sue note di avvertimento.

giovedì 8 marzo 2012


FANTASMI DI UN'ALTRA VITA


Ho corso attraverso il tempo per incontrarti,
tenni
negli occhi
la luce di altri anni
perchè tu
mi riconoscessi.
Ci toccammo
appena
la pelle
fu allora che sentisti
con me


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