giovedì 26 gennaio 2012


Gian Ugo Berti



Ho parlato di te


Ci sono persone che conosci solo “dopo”. Anche se le hai viste, hai stretto loro la mano, ci hai parlato, metti al posto giusto contorni e istinti, umanità e limiti solo dopo che se ne sono andate, quando te li racconta qualcuno che ne ha potuto registrare i passi, contare le pause, osservare dove gli occhi andavano a scavare. In questo libro ci sono Angiolo Berti e il buio che lo ha preso negli ultimi anni. Ma il racconto è anche quello delle luce che gli ha cucito intorno una lunga vita di cronista e protagonista nel mondo dei giornalisti italiani. Chi fa il nostro mestiere, e lo fa davvero, cucinando senza usare precotti, vive vite ricche di fardelli da portare. Mette le mani - quasi come un medico - in miserie e grandezze diventando capace, a volte, di gesti importanti che non cercano una cronaca. Agli altri, spesso, restano lische puntute di determinazione, di forza usata per fare cose grandi o anche grossolani errori. Non importa. Che poi tutto questo leggere e raccontare finisca nel buio dell’Alzheimer è un’altra storia. Forse una di quelle che ha da qualche parte una forma di contrappeso, come se in quella fuga dalla vita vissuta appieno ci fosse una ricompensa di riposo che, giustamente, mai potrà essere accettata da chi ti sta vicino.

Dire che ho conosciuto bene Angiolo Berti è un po’ troppo. In due occasioni ho incontrato il pioniere della Casagit e mai avrei pensato, allora, di essere tra quelli destinati a raccoglierne il testimone. Lui parte della storia della nostra categoria, io giovane delegato, appena arrivato, ragazzino. Quello che non sapevo era che parlargli significava anche sottoporsi ad un piccolo interrogatorio, garbato, da signore d’altri tempi, ma diretto, schietto, a ben vedere anche un po’ ruvido. Ripensandoci oggi potrebbe essere la sintesi di quello che aveva tenacemente voluto: uno strumento molto concreto per dare peso alle sicurezze e completare il Welfare dei giornalisti italiani. Di lui sapevo poco, solo qualche cenno di storia personale. Lungo la strada di ricordi “riportati”, venuti fuori padre e uno zio partigiani, quest’ultimo, Lorenzo Cravero, deportato come Berti e ucciso a Mauthausen, arrivò più attenzione e altre domande. Era come se Berti avesse trovato un filo comune di ragionamento, una strada per parlare ad un giovane delegato che sembrava anche disincantato rispetto a quella Cassa da poco incontrata. Ai suoi occhi, forse, quel giovane poteva non aver ben compreso che il “modello” della Casagit si richiamava a concetti, forse sogni, che avevano cittadinanza proprio negli anni nei quali si lottava per qualcosa di ben più grande. Ma la conversazione diventò vivace, bella, curiosa. Diceva di come era stato immaginato un riparo per la salute di giornalisti liberi di scrivere dando loro uno strumento per mantenere pari autonomia anche nei momenti meno facili della vita privata. Qualcosa che li faceva addirittura più forti e tutelati di tanti altri professionisti italiani.

Chissà forse una “casta”, un cesto di privilegi. Dibattito che insegue gli italiani da sempre nei momenti più scarni, quando risulta impossibile migliorare le cose per tutti. Ma per la Casagit, oggi intitolata ad Angiolo Berti, la storia è ben lontana dai privilegi. È come comprare il pane: paghi di tasca tua per avere qualcosa che ti serve. Se però devo scegliere il momento in cui ho cercato di conoscere più a fondo il Presidente Berti è stato quando, a inizio mandato, in un passaggio difficile per i conti della Cassa e per il mercato del lavoro dei giornalisti italiani, mi sono chiesto banalmente “ma quel demonio dagli occhi aguzzi, che sorrideva e colpiva dritto e a fondo adesso cosa farebbe?” Sono andato a rileggere, cercando un filo per interpretare decisioni e momenti della nostra storia di giornalisti, anche i vecchi verbali di Consiglio d’Amministrazione. Ci ho trovato una sintesi estrema che oggi in parte rimpiango, sacrificata alle aumentate complessità di gestione pratica e politica della Cassa. Ai tempi di Berti poche righe raccontavano cambi di rotta fondamentali: come l’accogliere i familiari tra gli assistiti della Casagit. Poche parole senza tanti fronzoli, né vivaci oratori, dicevano che la comunità dei giornalisti si era data regole per la salvaguardia della sua salute in tutto il paese, cercando di dribblare le tante differenze di assistenza pubblica che ieri come oggi, ahimè, restano. Una lingua ancora una volta asciutta e a tratti ruvida quella dei primi Cda: pochi numeri e meccanismi di base fondamentali, quegli stessi che anche ancora oggi ci permettono di navigare e affrontare onde alte, addirittura tempeste. Credo quella fosse, in fondo, la lingua giusta per quei tempi e per i convincimenti di Berti: i giornalisti devono avere un sistema di tutela, capace di tenere insieme previdenza e salute che è come tenere insieme solidità e tentativi di “schiena diritta”. Chi navigava il Transatlantico di Montecitorio in quegli anni sapeva come andava il mondo. Se il corsivo iniziato pungente, diventa una preghiera alla politica perché tenga conto di questo e di quello, dell’esistenza di tanti e differenti modi di camminare l’Italia, è giusto che chi si assume il compito di raccontare possa provvedere a se stesso. Non può con la stessa mano sferzare, accarezzare, indicare e chiedere. Ma lo deve fare - sono certo Berti a questo punto offrirebbe anche me un caffè come faceva con i barboni - salvaguardando quanti più colleghi possibili, meglio ancora tutti. Un pensiero semplice e complicato, sfidante. Chi ha buone retribuzioni garantisca anche chi, ieri e molto di più oggi, ha meno risorse. Forse il fondatore della Casagit nel suo buio rimestava anche questo, o forse no. A me fa piacere pensare che, comunque, certe parole d’ordine non tramontino mai.
Buona lettura

Daniele M. Cerrato - Presidente Casagit

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