mercoledì 1 giugno 2011
– STORIA DI UN ERETICO NOVARESE: FRA DOLCINO
I terribili e cruenti fatti di sangue che videro protagonisti da una parte fra Dolcino con i suoi discepoli e dall'altra il vescovo Raniero di Vercelli fra il 1306 e il 1307, ebbero un importante preambolo rappresentato dalla predicazione di Gerardo Segarelli, il fondatore della setta dei nuovi apostoli.
Tutto ebbe inizio a Parma nel 1260:
« Durante il mio soggiorno nel convento dei frati Minori di Parma, quando già ero sacerdote e predicatore, si presentò un giovane del luogo, di famiglia di basso rango, illetterato e laico, idiota e stolto, di nome Gherardino Segalello e chiese di essere accolto nell'ordine. Costui, non essendo stato esaudito, se ne stava tutto il giorno, quando gli era possibile, nella chiesa dei frati a meditare ciò che poi, nella sua stupidità, mise in atto.
Tutt'intorno al lampadario della fraterna comunità del beato Francesco, c'erano dipinti gli apostoli con i sandali ai piedi ed i mantelli tirati indietro sulle spalle, secondo l'antico uso invalso tra i pittori e ancor oggi in voga. Se ne stava li in contemplazione quando finalmente decisosi, lasciatisi crescere barba e capelli, si rivestì dei sandali e della corda dell'ordine dei frati Minori; questo perché come ho già avuto occasione di dire, chiunque intenda costituire una nuova congregazione, inevitabilmente usurpa sempre qualcosa dell'ordine del beato Francesco.
Si fece anche un vestito di bigello e un mantello bianco di stamigna robusta, che portava avvolto intorno al collo, credendo in tal modo di vestire come gli apostoli.
Venduta una piccola casa e intascatone il ricavato si mise sopra la pietra da cui un tempo i podestà di Parma solevano arringare il popolo. Il sacchetto dei denari che possedeva non lo distribuì ai poveri né "si rese amabile alla comunità dei poveri" (Ecl 4, 7), ma chiamati a sé dei poco di buono che se ne stavano a giocare sulla piazza gettò loro il denaro dicendo: "Chi lo vuole lo prenda e se lo tenga". Subito quei ribaldi raccolsero le monete e se ne andarono a giocare ai dadi bestemmiando il Dio vivente, e Gerardo li sentiva.
Era quanto mai convinto di adempiere così al consiglio del Signore; "Se vuoi essere perfetto va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi." (Mt 19, 21) »
Così la "Cronaca" del francescano Salimbene de Adam (1221-1288) ci riferisce degli esordi della setta.
Il 1260 era l'anno che secondo Gioacchino da Fiore doveva segnare l'inizio dell'era dello Spirito Santo: siamo quindi in un periodo di attesa, di cambiamenti radicali e forse epocali. Nella sua ingenua semplicità, Segarelli ebbe il merito di saper sintetizzare le prerogative patarine alle attese gioachimite. Il risultato sarebbe stato inquietante, e non solo per il suo movimento. La risposta della Chiesa fu, ancora una volta, sanguinosa e lontanissima dal Vangelo.
Entrare nel movimento dei nuovi apostoli significava dover votare la propria vita alla povertà, significava dover "seguire nudi il Cristo nudo", eper questo era previsto un rito, la "svestizione": erano fatti togliere ai neofiti gli abiti, segno della morte dell'uomo "vecchio", quindi gli abiti erano restituiti a caso.
« Costoro, riunitisi da diverse parti vennero per vedere il loro fondatore e ne tessero tante e tali lodi che egli stesso ne rimase sbalordito. E altro non dicevano se non che, standosene tutt'intorno a lui, per ben cento volte gridavano: "Padre, padre, padre"; e dopo una breve interruzione riprendevano questo ritornello e cantavano: "Padre, padre, padre", ne più ne meno come fanno i bambini che, quando sono istruiti dai maestri di grammatica, ripetono a voce alta e ad intervalli ciò che loro è stato insegnato.
Egli li ricompensò per tanto onore facendoli spogliare tutti nudi, senza mutande o altro vestimento che coprisse loro almeno i genitali, e se ne stavano appoggiati tutti intorno al muro, ma in maniera disordinata, sconcia e tutt'altro che decorosa e pudica. Voleva infatti togliere loro ogni bene perché d'ora in poi seguissero nudi Cristo nudo. Su ordine del maestro, ciascuno, affardellati i propri vestiti, li pose in mezzo alla stanza. Poi chiamata dal maestro, mentre costoro se ne stavano in quella maniera impudica, fu fatta entrare "una donna, origine del peccato, arma del demonio, causa della cacciata dal paradiso, madre di delitto, corruzione dell'antica legge". A lei Ghirardino Segalello, che era il loro maestro, ordinò di ridistribuire gli abiti come se li desse a dei poveri privati di ogni loro bene. Costoro poi, una volta rivestitisi, gridarono: "Padre, padre, padre". Questo diede loro per ricompensa e ringraziamento: si comportò da folle e fece comportarsi da folli pure loro…Fatte queste cose, li mandò nel mondo a farsi vedere ed essi andarono, chi verso la curia romana, chi a San Giacomo (di Compostella), chi a San Michele Arcangelo (Monte Santangelo del Gargano), chi in terra d'oltremare. »
In un primo momento gli apostolici non furono rifiutati dalla gerarchia; anzi, il vescovo Obizzo di Sanvitale li aiutò economicamente. Nel 1215, però, il IV Concilio Lateranense sentenziò:
« Perché l'eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio, proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini.
Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni degli ordini religiosi già approvati.
Proibiamo anche che uno sia monaco in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri. »
Il problema non fu sanato, e il Secondo Concilio di Lione (7 maggio - 17 luglio 1274) ritornò con maggior decisione sulla questione.
« Un concilio generale con apposita proibizione ha cercato di evitare l'eccessiva diversità degli ordini religiosi, causa di confusione. Ma l'inopportuno desiderio dei richiedenti in seguito ha strappato, quasi, il loro moltiplicarsi e la sfacciata temerità di alcuni ha prodotto una moltitudine di nuovi ordini, specie mendicanti, ancor prima di aver ottenuto un'approvazione di principio. Rinnovando la costituzione, proibiamo assolutamente a chiunque di istituire un nuovo ordine o una nuova forma di vita religiosa, o di prendere l'abito in un nuovo ordine. Proibiamo per sempre tutte, assolutamente tutte, le forme di vita religiosa e gli ordini mendicanti sorti dopo quel concilio, che non abbiamo avuto la conferma della sede apostolica e sopprimiamo quelli che si fossero diffusi. »
Segarelli non ebbe scelta: o si piegava o si ribellava. Optò per la seconda ipotesi.
Poteva contare sull'innegabile successo della sua semplice predicazione. Occorreva convertirsi, fare penitenza (penitentiam agite, deformato in penitençagite, che divenne il vero slogan del movimento), predicare il tempo nuovo nelle piazze e nelle cattedrali, abbandonare le ricchezze per rivestirsi di povertà. Una dottrina patarina, potremmo dire. Che ci siano stati influssi gioachimiti, è dimostrato da un altro passo riportato sempre dal Salimbene nella sua Cronaca:
« In altra occasione, mentre me ne stavo a Ravenna, gli apostolici fecero predicare un fanciullo nella basilica Ursiana, che è la chiesa arcivescovile di Ravenna. E fu tale l'affannoso affrettarsi di uomini e donne, che si guardavano bene dall'attendersi l'un l'altro. A punto che una gran nobildonna di quella città, a nome Giulietta, moglie di ser Guido Riccio da Polenta, si lamentò con i frati che a malapena era riuscita a trovare una vicina che andasse con lei. La chiesa Ursiana era poi talmente piena quando vi giunse che non trovò posto se non fuori della porta. Eppure è grande, visto che consta di quattro navate oltre quella centrale.
Facevano dunque gli apostolici girare questo fanciullo per le città e lo facevano predicare nelle chiese E grande era l'afflusso di uomini e donne e l'ammirazione, perché al giorno d'oggi si amano le novità …Così commenta l'abate Gioacchino (da Fiore) il passo di Geremia l,7: "Non dire sono un giovincello, perché andrai a fare tutto quello per cui ti manderà e tutto quello che t'ordinerà, tu farai" "Penso che come un tempo Dio scelse gli antichi padri per rivelare i suoi misteri, poi scelse apostoli più giovani che chiamò addirittura amici, ora, in questa terza fase, sceglie dei fanciulli veri e propri, perché annuncino il vangelo del regno a coloro per i quali il vecchio modo di vivere ha perduto valore. »
Chi ci parla del nostro eretico, il Salimbene, è un francescano fazioso, lontano anni luce dalla splendida figura del suo maestro, e oltre tutto lui pure in odore d'eresia, per quei tempi, perché sostenitore velato (ma non troppo) di Gioacchino da Fiore. La sua unica preoccupazione fu che gli apostoli potessero diventare i veri propagatori del messaggio pauperistico che era proprio di Francesco, e che, dato il loro successo, potessero ottenere l'appoggio economico dei vescovi. Senza volerlo il Salimbene ci fornisce un penoso spaccato di quel particolare momento storico. A pochi decenni dalla morte del grande Santo di Assisi, c'era già nell'ordine chi anteponeva gli interessi economici a quelli spirituali, ma di questo abbiamo già parlato.
Gerardo Segarelli fu in ogni modo un uomo coerente: si fece addirittura circoncidere. Ebbe come amico un vescovo che cercò anche di salvarlo dalle mani dell'Inquisizione lombarda, ma non vi riuscì. Sotto il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), "colpevole in molte eresie ed enormi delitti", Gerardo fu arso vivo. Correva il mese di luglio del 1300. Esattamente un mese dopo, fra Dolcino da Novara scriveva la sua prima lettera, prendendo in pugno la situazione e ridando vita, fortuna e notorietà al movimento, anche se per poco.
Una testimonianza qualificata (anche se certamente di parte) che possiamo analizzare è nientemeno quella di Bernardo Gui, inquisitore ed autore di numerose opere, fra cui "De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum", nella quale così riferisce sulla dottrina di Dolcino:
« Tolto di mezzo ed arso sul rogo l'eresiarca Gerardo Segarelli, gli succedette nel magistero dell'errore e della perversa dottrina Dolcino della diocesi di Novara, figlio naturale di un sacerdote, uno dei discepoli di Gerardo. Egli divenne il capo ed alfiere di tutta quella setta e congregazione non apostolica, come sostengono per ingannare, ma di fatto apostatica, ed aggiunse errori agli errori, come apparirà con maggiore evidenza più sotto, dove gli errori di costoro sono raccolti in una sorta di compendio, perché, una volta smascherati, i fedeli li possano evitare più facilmente.
Dolcino radunò nella sua setta ereticale molte migliaia di persone di entrambi i sessi, da ogni dove, soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana e nelle altre regioni vicine, e a loro trasmise una dottrina pestifera e predisse molti avvenimenti futuri con spirito, non tanto profetico quanto fanatico ed insensato, affermando e fingendo di avere da Dio delle rivelazioni e uno spirito profetico. Ma in tutte queste cose fu trovato falso, ingannatore ed illuso, insieme con Margherita, sua malefica ed eretica compagna nei delitti e nell'errore, come le seguenti vicende mostreranno.
Dolcino scrisse tre lettere che indirizzò a tutti i cristiani in generale, e in particolare ai suoi seguaci, in esse farnetica abbondantemente circa passi della S. Scrittura e finge nell'esordio di seguire la vera fede della Chiesa romana, ma la stessa serie delle lettere mostra a ragione la sua perfidia. Dal testo di due, che ebbi fra le mani, sfrondando ho raccolto in compendio quanto segue, omettendo, per motivi di brevità, il resto che non mi sembrava pertinente.
La prima di queste fu datata o scritta nel mese di agosto del 1300. In apertura Dolcino afferma che la sua congregazione ha carattere spirituale ed incarna in senso proprio ed esclusivo il modo di vita apostolico, con vera povertà, senza il vincolo di un'obbedienza esteriore, ma solo interiore. Aggiunge che in questi ultimi tempi essa è stata scelta e mandata da Dio nell'intento speciale di salvare le anime; e che il capo, cioè egli stesso, che chiamano fra Dolcino, è stato eletto e mandato da Dio con rivelazioni a lui fatte sul presente e sull'imminente futuro riservato ai buoni e ai malvagi, per svelare le profezie e il significato delle S. Scritture nel tempo attuale. Indica nel clero secolare i suoi avversari e ministri del demonio, insieme con molti del popolo, dei potenti e dei sovrani, e tutti i religiosi specialmente i Domenicani e i Francescani, ma anche gli altri, che continuano a perseguitare lui e i suoi, perché aderiscono a detta setta, che egli definisce congregazione spirituale ed apostolica. Per questo motivo Dolcino dice di fuggire e di nascondersi dai suoi persecutori, come hanno fatto i suoi predecessori di questa congregazione, fino a un tempo prefissato, in cui, sterminati gli avversari, egli e i suoi appariranno in pubblico e predicheranno a tutti. Inoltre dice che tutti i suoi persecutori e i prelati della Chiesa verranno uccisi e annientati entro breve; i superstiti si convertiranno alla sua setta e si uniranno a lui; allora egli e i suoi avranno il sopravvento su tutti.
Distingue poi nella storia quattro stati di santità secondo il proprio modo di vita: nel primo vi furono i padri dell'Antico Testamento, ossia i patriarchi e i profeti, e gli altri uomini giusti fino all'avvento di Cristo. In questo stato approva che il matrimonio, come fatto buono, ci fosse per favorire la moltiplicazione del genere umano. Ma poiché verso la fine i discendenti si allontanarono dallo stato spirituale e buono dei progenitori, allora venne Cristo con i suoi apostoli, discepoli e i loro imitatori, a sanare la debolezza di quelli. E questo fu il secondo stato di santi, che ebbero un altro particolare modo di vivere e rappresentarono la medicina perfetta per la debolezza del popolo precedente. Essi mostrarono la vera fede con i miracoli, l'umiltà, la pazienza, la povertà, la castità ed altri buoni esempi di vita in contrasto con tutto ciò da cui si erano allontanati quelli del primo stato. In questo secondo stato la verginità e la castità furono considerate migliori del matrimonio, la povertà migliore della ricchezza, il vivere senza nulla possedere migliore dell'avere proprietà di beni terreni. Questo stato durò fino al tempo del beato Papa Silvestro e dell'imperatore Costantino; e a quel tempo i posteri si allontanarono dalla perfezione dei primi.
Il terzo stato iniziò da san Silvestro, al tempo dell'imperatore Costantino, quando i pagani presero a convertirsi in numero sempre maggiore alla fede di Cristo; e fintantoché si convertivano e non si raffreddavano nell'amore di Dio e del prossimo, fu cosa più opportuna per il santo Papa Silvestro e per i successori accettare e mantenere i possessi terreni e le ricchezze che vivere nella povertà apostolica, e meglio fu governare il popolo piuttosto che non reggerlo per poter in tal modo mantenerlo fedele.
Ma quando nelle popolazioni cominciò a diminuire la carità di Dio e del prossimo e ci si allontanò dal modo di vivere di san Silvestro, allora più di qualsiasi altro fu eccellente il modello di vita del beato Benedetto, per il fatto che fu più severo verso l'accumulo dei beni terreni e più distaccato dal dominio temporale. E tuttavia allora - come egli dice - la vita dei buoni chierici era santa quanto quella dei monaci, se non che i buoni chierici diminuivano e i monaci si moltiplicarono. E quando i chierici e i monaci si furono raffreddati totalmente nella carità verso Dio e verso il prossimo allontanandosi dal loro stato primitivo, allora il modello più consono di vita fu quello di san Francesco e di san Domenico, che furono più severi circa il possesso delle cose terrene e il dominio temporale di quanto non lo fossero san Benedetto e i monaci. E poiché ora è giunto il tempo in cui tutti, sia i prelati che i chierici e i religiosi si sono raffreddati nell'amore verso Dio e verso il prossimo e sono decaduti dallo stato di vita santa dei loro predecessori, fu ed è necessario ristabilire il modo di vita proprio degli apostoli più che tenerne un qualsiasi altro. E questo tipo di vita apostolico, egli afferma che è stato mandato da Dio in questi ultimi tempi, adottato ed intrapreso da Gerardo Segarelli di Parma, amatissimo da Dio, e che durerà costantemente fino alla fine del mondo e darà frutti fino al giorno del giudizio.
Questo è il quarto ed ultimo stato, basato sul comportamento di vita proprio degli apostoli, che differisce da quello di san Francesco e dì san Domenico, perché il loro progetto di vita fu di avere molte case in cui raccogliere ciò che mendicavano; "ma noi, dice Dolcino, non abbiamo case né dobbiamo portarvi le elemosine: per questo la nostra vita è superiore in perfezione ed è la suprema medicina per tutti".
(...) Passa poi a predire il futuro, affermando che, se non si avverano quelle cose che afferma e che sostiene essergli state rivelate da Dio, lui e i suoi siano reputati dei mentitori, e i suoi persecutori dei veritieri, e viceversa.
Poi, da circa metà delle sua lettera fino alla fine, prosegue a parlare degli avvenimenti futuri che avrebbero dovuto accadere nel triennio successivo, e cioè che tutti i prelati della Chiesa e gli altri chierici, dal più grande al più piccolo, e tutti monaci e le monache, i religiosi e le religiose, e tutti i frati e le suore degli ordini dei Domenicani, dei Francescani e degli Agostiniani, che, come egli sostiene, si sono da tempo allontanati dal modo di vivere dei predecessori, che rappresentano la terza fase della Chiesa e sui quali insinua molte malignità, compreso anche Papa Bonifacio VIII, allora a capo della Chiesa, di cui in modo simile espone in quella lettera molte maldicenze, adducendo ed interpretando, a conferma di quanto sopra, con la sua malvagia intelligenza molti passi tratti dalla Scrittura, dei Profeti, dei Vecchio e del Nuovo Testamento, tutti, dico, i soprannominati verranno sterminati, uccisi e distrutti su tutta la terra, dalla collera divina ad opera di un nuovo imperatore e dei nuovi re da lui creati.
Indica e sostiene, nel testo, che si tratta di Federico, allora re di Sicilia, figlio del defunto Pietro d'Aragona. Federico deve essere innalzato al trono imperiale ed eleggere nuovi re, e con le arti impadronirsi dì Papa Bonifacio per farlo uccidere con gli altri meritevoli di morte. E a conferma di questo cita molti passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, interpretandoli e presentandoli con quel suo particolare e perverso spirito esegetico. E dice che allora tutti i cristiani vivranno in pace, e ci sarà un unico Papa santo, mandato ed eletto in modo straordinario da Dio e non dai cardinali, perché allora tutti i cardinali saranno già stati uccisi con gli altri. Saranno sottomessi a quel Papa coloro che ora vivono nello stato apostolico ed anche gli altri chierici e religiosi che si uniranno a loro, che per aiuto divino saranno risparmiati dalla spada imperiale. Essi riceveranno allora la grazia dello Spirito Santo, come la ricevettero gli apostoli nella Chiesa primitiva, e poi daranno frutti nei discendenti sino alla fine del mondo. Federico re di Sicilia, figlio di Pietro d'Aragona, nuovo imperatore, e quel Papa santo che seguirà Bonifacio ucciso dall'imperatore, e nuovi re creati dal nuovo imperatore, dureranno fino alla venuta dell'Anticristo, che comparirà e regnerà in quegli anni. »
Certamente il testo va purificato da tutti gli elementi faziosi che un personaggio come Bernardo Gui poté inserirvi, ma ciò non toglie che l'inquisitore abbia sintetizzato benissimo la predicazione di Dolcino, per quei tempi era veramente rivoluzionaria. In altro passo così parla:
"Questi che seguono sono gli errori di Gerardo Segarelli di Parma, eretico condannato e bruciato sul rogo e di Dolcino, della diocesi di Novara, suo successore, e dei loro seguaci (…)
1. Innanzitutto insegnarono, come principio indiscutibile (…) che tutta l'autorità conferita da Gesù Cristo Signore alla Chiesa di Roma si è dissipata totalmente e già da un pezzo è finita a causa della malvagità dei prelati, e che la Chiesa di Roma, che il Papa e i cardinali, i chierici e religiosi occupano e sostengono, non è la Chiesa di Dio, ma una Chiesa biasimata, senza frutto.
2. Che la Chiesa di Roma è quella meretrice che ha rinnegato la fede di Cristo, di cui scrive Giovanni nell'Apocalisse.
3. Che tutto il potere spirituale, che fin dall'inizio Cristo diede alla Chiesa, si è trasferito nella setta di coloro che si dicono Apostoli o dell'ordine degli Apostoli, setta che essi definiscono spirituale, mandata e prescelta da Dio in questi ultimi tempi; che essi soli, e nessun altro, possiedono il potere che ebbe l'apostolo san Pietro.
4. Che Gerardo Segarelli di Parma fu il fondatore di questa setta e - come dice e sostiene Dolcino - fu la nuova pianta di Dio, che produce germogli perché piantata sulle radici della fede (…)
5. Che soltanto essi, che si dicono Apostoli, appartenenti a detta setta o ordine, costituiscono la Chiesa di Dio e si trovano in quello stato di perfezione in cui vissero i primi apostoli di Cristo; e perciò non sono vincolati all'obbedienza verso alcun uomo, né al sommo pontefice né ad altri, poiché la loro regola, proveniente direttamente da Cristo, è libera e la loro vita è perfetta.
6. Che né il Papa, né alcun altro, può ordinare loro di lasciare quello stato così perfetto di vita, e neanche può scomunicarli.
7. Che ogni appartenente a qualsiasi stato ed ordine religioso può legittimamente passare al loro modo di vita, stato o ordine, sia egli religioso o laico; così che un marito senza il permesso della moglie e una moglie senza il consenso del marito, possono abbandonare lo stato di vita matrimoniale per entrare nel loro ordine. E che nessun prelato della Chiesa romana può sciogliere un matrimonio, mentre essi soltanto possono farlo.
8. Che a nessuno, appartenente alla loro vita o stato o ordine, è lecito entrare in altro ordine o sotto altra regola senza commettere peccato mortale, né sottomettersi all'obbedienza di qualsiasi uomo, perché ciò comporterebbe un decadimento da una vita più perfetta ad una meno perfetta.
9. Che nessuno si può salvare ed entrare nel regno dei cieli, se non appartiene al loro stato e ordine, poiché fuori dal loro stato o ordine, d'ora in poi, nessuno si salverà più.
10. Che tutti coloro che li perseguitano, peccano e si trovano in stato di dannazione e di perdizione.
11. Che nessun Papa della Chiesa di Roma può davvero assolvere qualcuno dai propri peccati, a meno che non sia tanto santo quanto fu l'apostolo san Pietro (...)
12. Che tutti i prelati della Chiesa di Roma, dai più alti ai meno importanti, dall'epoca di san Silvestro quando si allontanarono dal modo di vivere dei primi santi, sono prevaricatori e ingannatori, eccetto fra Pietro da Morrone che fu Papa col nome di Celestino.
13. Che tutti gli ordini dei religiosi, dei sacerdoti, dei diaconi, dei suddiaconi e dei prelati rappresentano un danno per la fede cattolica.
14. Che i laici non sono tenuti e non devono dare le decime ad alcun sacerdote o prelato della Chiesa di Roma, a meno che non sia tanto perfetto e povero quanto furono i primi apostoli; e perciò affermano che le decime non si devono versare se non a loro stessi, che si dicono Apostoli e sono i poveri di Cristo.
15. Che ogni uomo e ogni donna possono lecitamente, insieme e nudi, coricarsi nello stesso letto e lecitamente toccarsi l'un l'altra in ogni parte del corpo e scambiarsi baci senza commettere nessun peccato. E che non è peccato congiungersi sessualmente con una donna - se si è eccitati carnalmente - per far cessare la tentazione.
16. Che giacere con una donna e non accoppiarsi carnalmente con lei è un miracolo maggiore che far resuscitare un morto.
17. Che è vita più perfetta quella condotta senza voti che coi voti.
18. Che per pregare Dio una chiesa consacrata non è più idonea di una stalla per cavalli o di un porcile.
19. Che Cristo si può adorare cosi bene nei boschi come nelle chiese, o anche meglio.
20. Che per nessun motivo e in nessuna circostanza l'uomo deve prestare giuramento, a meno che non si tratti di articoli di fede o di precetti divini, e tutto il resto può tenerlo nascosto".
Nel tentativo di difendere ad oltranza questa loro fede, Dolcino e i suoi si asserragliarono il 10 marzo 1306 sul monte Rubello, in Valsesia, decisi a vendere cara la loro pelle. Dovettero ricorrere alle armi sia per difendere il loro credo, sia per rifornirsi di cibo, come ci racconta l'anonimo autore della "Storia di fra Dolcino eresiarca":
« Sopra Varallo spogliarono chiese, incendiarono diversi luoghi, tanto che in quel territorio per un raggio di circa dieci miglia pochi o nessuno osava abitarvi, la zona rimase deserta e la popolazione fu costretta ad emigrate in altri paesi vivendo di elemosine Se poi quei cani bastardi trovavano qualche cristiano, o lo uccidevano o ne chiedevano il riscatto. Procurarono danni alle persone e alle cose sia in diocesi di Vercelli sia in diocesi di Novara.
In seguito si trasferirono a Trivero, continuando le loro prave azioni. Alla fine si ridussero ad un tal stadio di inedia che mangiavano carne di topo, di cavallo, di cane e di altre bestie brute e fieno cotto col sego, anche in tempo di quaresima (…) Una volta giunti, discesero di prima mattina al paese e alla chiesa di Trivero, senza che gli abitanti se ne fossero affatto accorti e spogliarono la chiesa portando via calici, libri e altri beni e saccheggiarono diverse altre case, facendo anche prigionieri e portarono con sé sul monte Rubello, ora chiamato monte dei Gazzari o di fra Dolcino, tutto ciò che riuscirono ad arraffare (…)
Distrussero totalmente e bruciarono i paesi di Mosso, Trivero, Coggiola, Flecchia, numerosi borghi di Crevacuore e diverse case in Mortigliengo e Curino. Diedero fuoco alla chiesa di Trivero, imbrattarono affreschi e dipinti, divelsero le lastre di marmo dagli altari e amputarono un braccio ad una statua lignea della beata Maria Vergine; saccheggiarono libri, calici e arredi sacri; fecero crollare il campanile e spezzarono le campane; si impadronirono dei vasi sacri della comunità e dei beni del sacerdote. Tutte queste cose rapinate le portarono via e le ammassarono sul monte. »
Il vescovo Raniero di Vercelli organizzò un'imponente controffensiva per la primavera del 1307:
« Il successivo mese di marzo il Vescovo fece schierare contro i gazzari tutto il suo esercito, perché vedeva le sue terre quasi totalmente distrutte e gli uomini costretti a mendicare. Per questo, confidando nella clemenza divina e nell'aiuto di sant'Eusebio martire e di tutti i santi, volendo mettere alla prova la sorte, fece attaccare in forze i gazzari una e più volte durante la settimana santa. E il giovedì santo gli uomini che combattevano contro i gazzari presero il bastione che
Si trovava sul luogo chiamato Stavello e nella pianura di Stavello la battaglia durò per quasi tutto il giovedì santo e gran parte di quei dannati fu uccisa e anche molti cristiani furono feriti, tanto che molti infedeli furono gettati in un ruscello, ora chiamato Carnasco, e si dice che l'acqua del fiume fosse rossa come sangue per i morti che vi furono gettati.
Finalmente il giovedì santo del 1307, 13 marzo, dopo lungo combattere e strenui fatiche, l'eresiarca fra Dolcino fu preso vivo sui monti di Trivero insieme con Margherita di Trento sua compagna e Longino di Bergamo, della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco, che erano dopo Dolcino i personaggi di maggior spicco della setta; e il Vescovo desiderava quanto mai averli vivi per rendere loro la pariglia, visto i danni che avevano arrecati. Molti altri perfidi furono catturati e fatti prigionieri. I fortilizi furono dati alle fiamme, distrutti e dispersi lo stesso giorno. E sempre nello stesso giorno più di mille furono avvolti dalle fiamme o dal fiume, come si dice, o morti di spada o di morte quanto mai atroce. »
La sorte di Dolcino fu tremenda: la sua compagna Margherita di Trento arsa viva davanti ai suoi occhi.
"In seguito a disposizioni giudiziarie, fu crudelmente dilaniato con tenaglie roventi che gli strappavano le carni e gliele laceravano fino alle ossa, e fu condotto in tale stato per le contrade della città. (...) Lo si sarebbe potuto definire un martire, se fosse il supplizio a creare il martire e non l'intenzione volontaria di chi lo subisce.
Mentre poi veniva straziato fra i tormenti, di continuo esortava la sua Margherita ad essere costante, benché non fosse presente.
Costei, imbevuta dell'insegnamento di Dolcino, non venne mai meno alle sue esortazioni; anzi, si dimostrò più salda e costante di lui nell'errore, tenuto conto della naturale fragilità del sesso. Infatti, benché molti nobili la chiedessero in sposa, sia per la sua straordinaria bellezza, sia per le sue grandi ricchezze, non cedette in alcun modo. Per cui, sottoposta alla stessa pena del suo amatissimo Dolcino, straziata dal ferro e dal fuoco, coraggiosamente lo seguì all'inferno" (da Benvenuto da Imola, Commentum in Dantis Comoediam, in L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medi Aevi, I, Mediolani 1738 (rist. anast. Bologna 1965), coll. 1120-22)
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