sabato 11 giugno 2011


Il cielo nelle monete celtiche




Tutte le popolazioni del mondo antico tenevano in grande considerazione l'osservazione del cielo e dei suoi fenomeni, come ci testimoniano numerosi reperti archeologici. Ovviamente gli oggetti osservati erano il Sole, la Luna, pianeti visibili ad occhio nudo, le stelle più luminose e la strumentazione era per lo più limitata a traguardi e mire costruiti in legno o in pietra, talvolta di grandi dimensioni come certi monumenti megalitici tuttora esistenti nel Nord Europa.

L'uso che gli antichi facevano delle osservazioni astronomiche era legato alle specificità culturali delle diverse civiltà. Ad esempio, l'astronomia cinese era tutta improntata sulla meticolosa registrazione di ogni mutamento che si verificasse nel cielo e sul trarre indicazioni e auspici per la vita sulla Terra, mentre non era sentita l'esigenza di sviluppare qualche modello finalizzato a descrivere, predire e rendere conto della posizione e del moto dei corpi celesti. Questo approccio, tipico delle popolazioni dell'Estremo Oriente, era completamente differente dal modo di intendere l'astronomia delle culture del mondo occidentale. E' ben nota l'attività speculativa dei greci intorno alla descrizione del "Sistema del Mondo" e quanto essa abbia condizionato il pensiero scientifico e filosofico occidentale nei secoli successivi. Tale attività, tesa a costruire modelli che spiegassero la natura e il moto degli astri, non fu però accompagnata da precise e continue registrazioni cronologiche e descrittive degli eventi celesti. L'astronomia egizia e soprattutto quella babilonese erano invece meno improntate alla speculazione filosofica, ma maggiormente alla formulazione di modelli atti a predire i fenomeni del cielo.

Di tutte queste civiltà esistono generalmente documenti scritti, pervenuti fino ai giorni nostri, che testimoniano come l'astronomia venisse praticata, con quali mezzi, con quali intenti e quali risultati venissero ottenuti. Esiste però una popolazione, o meglio un insieme di popolazioni, la cui cultura ha condizionato in maniera determinante quella di tutti i popoli europei e le cui capacità astronomiche e matematiche, per altro molto sviluppate, stanno emergendo solamente adesso. Si tratta delle popolazioni celtiche, dei Galli - come venivano usualmente denominati dai Romani - diffuse su tutta l'Europa centro-occidentale e settentrionale, nella Spagna e nell'Italia settentrionale.

I Celti, di cui si può parlare in senso stretto solo dal VI secolo avanti Cristo in poi, derivarono da tre ondate di invasioni di popolazioni scitiche stanziate originariamente nell'Asia centro-occidentale che si fusero con le popolazioni preesistenti in Europa. La prima ondata si verificò intorno al 4400 a.C., la seconda verso il 3300 a.C. e la terza verso il 2800 a.C. Lo studio dei ritrovamenti archeologici mette in evidenza una grande abilità dei Celti nella lavorazione dei metalli, nell'artigianato e in tutte quelle attività caratteristiche non di una popolazione barbarica (come ci è stato insegnato per secoli, intendendo la storia dal punto di vista della Romanità), ma di un popolo molto evoluto, che però non ebbe mai fortuna politica e militare a causa del continuo frazionamento e delle lotte interne tra tribù e tribù per questioni di egemonia sul territorio. Nonostante ciò, i Celti rappresentarono sempre un grosso problema per i Romani, anche dopo la Guerra di Gallia durata dal 58 al 51 a.C. e vinta da Giulio Cesare. I Romani li sconfissero militarmente, ma assorbirono una grandissima parte dei loro usi, tradizioni e bagaglio culturale: spesso li ritroviamo presenti, a distanza di due millenni, anche nel nostro modo di vivere attuale. E' incredibile la quantità di luoghi geografici, in Europa, che portano nomi derivati dalla lingua gallica e lo stesso accade per la denominazione di oggetti di uso comune. Emblematica è anche la derivazione celtica di alcuni dialetti lombardi.

Paradossalmente, a questa elevata influenza culturale non corrisponde una pari disponibilità di documenti scritti che testimonino l'attività intellettuale di questo popolo; anzi, i due rami della lingua celtica attualmente noti comprendono un vocabolario costituito da qualche migliaio di parole e poche stringate nozioni di grammatica. La spiegazione di questa carenza è da ricercarsi nel modello culturale celtico che riteneva la natura una cosa viva ed in continua evoluzione. Scrivere significava congelare un concetto, impedendone l'evoluzione; quindi i Celti tendenzialmente non scrivevano e, quando proprio era necessario, lo facevano con riluttanza.

C'era poi anche l'esigenza da parte della classe sacerdotale druidica di preservare il proprio ruolo dominante basato sulla profonda conoscenza della natura e delle sue manifestazioni. Scrive Giulio Cesare riguardo ai druidi: "...Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli affari, sia pubblici che privati, usano l'alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui essi evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché i discepoli non le studino con minore diligenza..." (De Bello Gallico, VI, 14). Era preferita una rappresentazione del mondo attraverso un linguaggio grafico, che ancora oggi possiamo ammirare sui reperti archeologici, con lo scopo di fissare l'essenza e il significato profondo delle cose più che rappresentare il loro aspetto esteriore. Un simile modo di pensare era certo adatto ad un'attività speculativa di tipo astratto, per cui si può ipotizzare che l'astronomia e la matematica fossero coltivate dalla classe sacerdotale. Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico attribuisce ai druidi grande conoscenza del cielo, delle stelle e dei loro moti, e la capacità di descrivere ed interpretare i fenomeni naturali. Infatti, riguardo al periodo ventennale di addestramento dei futuri druidi scrive: "...Vengono trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e sui loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della Terra sulla natura..." (De Bello Gallico, VI, 14). La stessa cosa viene affermata da Pomponio Mela, da Plinio il Vecchio, da Pompeo Trogo, da Posidonio e da altri storici latini e greci.

E' emblematico il fatto che Giulio Cesare, la cui competenza nelle scienze astronomiche era per quel tempo notevole, incaricò Sosigene di preparare la riforma del calendario romano proprio ai tempi della guerra di Gallia, cioè dopo il contatto con i druidi celti. Il calendario usato correntemente dai Romani a quell'epoca era decisamente poco accurato, mal conciliava i moti del Sole e della Luna, era in errore sulla durata dell'anno e si trovava perennemente in ritardo sulle stagioni. Il calendario gallico invece aveva una struttura più complessa, ma la sua precisione era decisamente più elevata.

Esistono documenti, di origine greca, che attestano fitti scambi di idee ed esperienze tra i pitagorici della scuola siracusana e i druidi celti che venivano a contatto con loro nelle varie colonie greche fiorenti sulla costa meridionale della Francia. A titolo di esempio, analizzando i rapporti tra le dimensioni delle decorazioni presenti su taluni manufatti, ci si può facilmente accorgere che le terne pitagoriche erano conosciute. In più, si osserva che i motivi decorativi prediletti erano basati su fregi eseguiti con il sapiente uso del compasso ad apertura variabile con continuità. Questo permette di eseguire raccordi mediante segmenti di curve di ordine elevato il cui tracciamento richiede la conoscenza di qualche algoritmo, per lo meno di natura grafica, per ottenerli. Ovviamente la carenza di documenti scritti rendeva impossibile la verifica di ogni ipotesi, ma da quando, verso la fine del secolo scorso, vennero ritrovati i frammenti del Calendario di Coligny, risalente al secondo secolo dopo Cristo e, successivamente, quello di Village d'Heria, gli studiosi iniziarono a rendersi conto di quanto doveva essere sviluppata la scienza astronomica celtica.

Il Calendario di Coligny è un sofisticato calendario luni-solare basato su cicli di cinque anni di 12 mesi lunari più sessanta giorni da intercalare, secondo talune regole, in modo da accordare tra loro i moti apparenti del Sole e della Luna. Il ciclo di cinque anni faceva parte di un ciclo lungo trent'anni, detto Saeculum dagli storici latini.

Il reale meccanismo con cui tale calendario fu sviluppato e come venisse utilizzato è ancora in parte coperto da mistero, nonostante gli importanti lavori di A.M. Duval, G. Pinault a altri. Da studi attualmente in corso risulta che l'abilità necessaria allo sviluppo di un siffatto calendario doveva implicare obbligatoriamente una notevole conoscenza sia astronomica, relativa ai moti del Sole e della Luna, che matematica. Va comunque ricordato che la fusione delle popolazioni scitiche con quelle autoctone portò all'assorbimento da parte degli invasori della cultura preesistente la quale, tra l'altro, aveva prodotto i monumenti megalitici che abbondano in vari luoghi del nord Europa.

La conclusione che possiamo trarre è che l'osservazione del cielo e la speculazione relativa ai fenomeni celesti ricoprirono un ruolo fondamentale nella cultura celtica. La carenza di reperti scritti, salvo i due calendari citati, non ci permette di avere a disposizione registrazioni chiare e oggettive, ma sia le citazioni di autori latini e greci sia le evidenze indirette ci spingono ad affermare che l'astronomia fosse praticata ad alto livello dai druidi celti.

Tra i reperti che possono aiutarci a renderci conto di ciò esistono le monete, coniate in grande quantità e con grande frequenza dalle varie tribù galliche, su cui possono essere identificati simboli astronomici.

E' vero che anche i Greci e i Romani coniarono monete con raffigurazioni di oggetti astronomici, ma esse rappresentano solo casi limitati e poco numerosi, mentre il numero delle coniature di monete galliche con simbologia astronomica è inusualmente elevato. In questa sede saranno descritti solo alcuni esempi significativi, al di là della famosa moneta d'oro fatta coniare da Vercingetorige (vedi a lato) intorno al 52 a.C., sul cui rovescio è rappresentata la falce della Luna sopra l'immagine di un cavallo, animale frequentemente rappresentato sulle monete galliche.



La numismatica celtica è un campo in cui la datazione dei reperti è estremamente problematica. Contrariamente a quanto avviene nel caso delle monete romane, in cui sia le iscrizioni che le effigi rappresentate sono di grande utilità dal punto di vista cronologico, nel caso delle monete celtiche risulta difficile ottenere una datazione precisa di ciascun pezzo. Questa difficoltà è dovuta, oltre che alla mancanza di reperti scritti, anche al fatto che le monete stesse forniscono usualmente poche informazioni utili per risalire alla data di conio.

Per quanto ci è dato sapere, esistono solamente due importanti riferimenti storici su cui basarsi ai fini cronologici e cioè la sconfitta di Bituitus (121 a. C.) che pose termine all'egemonia degli Arverni sulle altre tribù galliche e la guerra di Gallia, condotta da Giulio Cesare, che culminò nella sconfitta della coalizione delle tribù celtiche ad Alesia e che segnò la fine dell'indipendenza delle popolazioni celtiche della Gallia. La prima data è ritenuta empiricamente come il limite temporale più remoto a cui far risalire la consuetudine di battere moneta, mentre nel caso della battaglia di Alesia i ritrovamenti archeologici sono numerosi ed estremamente interessanti.

Dal punto di vista delle rappresentazioni e delle iscrizioni sulle monete, predominano teste di re e magistrati sul dritto e cavalli e cavalieri sul verso, ma non mancano casi curiosi ed interessanti, soprattutto dal punto di vista astronomico.

Tra la grande quantità di pezzi rinvenuti negli scavi archeologici sono da ricordare le serie complete di monete armoricane, cioè coniate dalle popolazioni celtiche stanziate in Armorica, regione geograficamente corrispondente all'odierna Bretagna, nella Francia settentrionale. In particolare, risultano di estremo interesse le monete coniate dalla popolazione celtica dei Coriosoliti, raccolte e classificate da Colbert de Beaulieu che pubblicò il suo documentato lavoro nel 1937.

Le monete dei Coriosoliti sono generalmente suddivise in sei classi, in successione cronologica, sulla base degli elementi stilistici presenti. Se si prende in esame ad esempio l'insieme di sei pezzi, cronologicamente ordinati, si nota un fatto estremamente interessante. Sul dritto delle sei monete è incisa una testa umana variamente stilizzata; sul rovescio invece è raffigurato un cavallo con un cinghiale tra le zampe, ma nella seconda e nella terza il cinghiale lascia il posto alla raffigurazione di una cometa vista sopra l'orizzonte.

Il cinghiale è chiaramente un simbolo sacerdotale, druidico, mentre il cavallo è un attributo della classe aristocratica, quella dei cavalieri, da cui provenivano coloro che esercitavano il potere temporale. Originariamente l'immagine della cometa era stata erroneamente interpretata come la raffigurazione di una lira, strumento musicale molto usato dai bardi, cioè i cantori gallici; solo nel 1987 J. Muller propose la più corretta interpretazione astronomica. L'ordine cronologico delle monete è tale per cui evidentemente il conio avvenuto durante il periodo di visibilità della cometa riportò la sua rappresentazione, mentre quando la cometa non fu più visibile ritornò ad essere raffigurato il tradizionale simbolo del cinghiale.

A Gaspani

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