mercoledì 1 giugno 2011




– STORIA DI UN ERETICO NOVARESE: FRA DOLCINO

I terribili e cruenti fatti di sangue che videro protagonisti da una parte fra Dolcino con i suoi discepoli e dall'altra il vescovo Raniero di Vercelli fra il 1306 e il 1307, ebbero un importante preambolo rappresentato dalla predicazione di Gerardo Segarelli, il fondatore della setta dei nuovi apostoli.

Tutto ebbe inizio a Parma nel 1260:

« Durante il mio soggiorno nel convento dei frati Minori di Parma, quando già ero sacerdote e predicatore, si presentò un giovane del luogo, di famiglia di basso rango, illetterato e laico, idiota e stolto, di nome Gherardino Segalello e chiese di essere accolto nell'ordine. Costui, non essendo stato esaudito, se ne stava tutto il giorno, quando gli era possibile, nella chiesa dei frati a meditare ciò che poi, nella sua stupidità, mise in atto.
Tutt'intorno al lampadario della fraterna comunità del beato Francesco, c'erano dipinti gli apostoli con i sandali ai piedi ed i mantelli tirati indietro sulle spalle, secondo l'antico uso invalso tra i pittori e ancor oggi in voga. Se ne stava li in contemplazione quando finalmente decisosi, lasciatisi crescere barba e capelli, si rivestì dei sandali e della corda dell'ordine dei frati Minori; questo perché come ho già avuto occasione di dire, chiunque intenda costituire una nuova congregazione, inevitabilmente usurpa sempre qualcosa dell'ordine del beato Francesco.
Si fece anche un vestito di bigello e un mantello bianco di stamigna robusta, che portava avvolto intorno al collo, credendo in tal modo di vestire come gli apostoli.
Venduta una piccola casa e intascatone il ricavato si mise sopra la pietra da cui un tempo i podestà di Parma solevano arringare il popolo. Il sacchetto dei denari che possedeva non lo distribuì ai poveri né "si rese amabile alla comunità dei poveri" (Ecl 4, 7), ma chiamati a sé dei poco di buono che se ne stavano a giocare sulla piazza gettò loro il denaro dicendo: "Chi lo vuole lo prenda e se lo tenga". Subito quei ribaldi raccolsero le monete e se ne andarono a giocare ai dadi bestemmiando il Dio vivente, e Gerardo li sentiva.
Era quanto mai convinto di adempiere così al consiglio del Signore; "Se vuoi essere perfetto va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi." (Mt 19, 21) »

Così la "Cronaca" del francescano Salimbene de Adam (1221-1288) ci riferisce degli esordi della setta.

Il 1260 era l'anno che secondo Gioacchino da Fiore doveva segnare l'inizio dell'era dello Spirito Santo: siamo quindi in un periodo di attesa, di cambiamenti radicali e forse epocali. Nella sua ingenua semplicità, Segarelli ebbe il merito di saper sintetizzare le prerogative patarine alle attese gioachimite. Il risultato sarebbe stato inquietante, e non solo per il suo movimento. La risposta della Chiesa fu, ancora una volta, sanguinosa e lontanissima dal Vangelo.

Entrare nel movimento dei nuovi apostoli significava dover votare la propria vita alla povertà, significava dover "seguire nudi il Cristo nudo", eper questo era previsto un rito, la "svestizione": erano fatti togliere ai neofiti gli abiti, segno della morte dell'uomo "vecchio", quindi gli abiti erano restituiti a caso.

« Costoro, riunitisi da diverse parti vennero per vedere il loro fondatore e ne tessero tante e tali lodi che egli stesso ne rimase sbalordito. E altro non dicevano se non che, standosene tutt'intorno a lui, per ben cento volte gridavano: "Padre, padre, padre"; e dopo una breve interruzione riprendevano questo ritornello e cantavano: "Padre, padre, padre", ne più ne meno come fanno i bambini che, quando sono istruiti dai maestri di grammatica, ripetono a voce alta e ad intervalli ciò che loro è stato insegnato.
Egli li ricompensò per tanto onore facendoli spogliare tutti nudi, senza mutande o altro vestimento che coprisse loro almeno i genitali, e se ne stavano appoggiati tutti intorno al muro, ma in maniera disordinata, sconcia e tutt'altro che decorosa e pudica. Voleva infatti togliere loro ogni bene perché d'ora in poi seguissero nudi Cristo nudo. Su ordine del maestro, ciascuno, affardellati i propri vestiti, li pose in mezzo alla stanza. Poi chiamata dal maestro, mentre costoro se ne stavano in quella maniera impudica, fu fatta entrare "una donna, origine del peccato, arma del demonio, causa della cacciata dal paradiso, madre di delitto, corruzione dell'antica legge". A lei Ghirardino Segalello, che era il loro maestro, ordinò di ridistribuire gli abiti come se li desse a dei poveri privati di ogni loro bene. Costoro poi, una volta rivestitisi, gridarono: "Padre, padre, padre". Questo diede loro per ricompensa e ringraziamento: si comportò da folle e fece comportarsi da folli pure loro…Fatte queste cose, li mandò nel mondo a farsi vedere ed essi andarono, chi verso la curia romana, chi a San Giacomo (di Compostella), chi a San Michele Arcangelo (Monte Santangelo del Gargano), chi in terra d'oltremare. »

In un primo momento gli apostolici non furono rifiutati dalla gerarchia; anzi, il vescovo Obizzo di Sanvitale li aiutò economicamente. Nel 1215, però, il IV Concilio Lateranense sentenziò:

« Perché l'eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio, proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini.
Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni degli ordini religiosi già approvati.
Proibiamo anche che uno sia monaco in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri. »

Il problema non fu sanato, e il Secondo Concilio di Lione (7 maggio - 17 luglio 1274) ritornò con maggior decisione sulla questione.

« Un concilio generale con apposita proibizione ha cercato di evitare l'eccessiva diversità degli ordini religiosi, causa di confusione. Ma l'inopportuno desiderio dei richiedenti in seguito ha strappato, quasi, il loro moltiplicarsi e la sfacciata temerità di alcuni ha prodotto una moltitudine di nuovi ordini, specie mendicanti, ancor prima di aver ottenuto un'approvazione di principio. Rinnovando la costituzione, proibiamo assolutamente a chiunque di istituire un nuovo ordine o una nuova forma di vita religiosa, o di prendere l'abito in un nuovo ordine. Proibiamo per sempre tutte, assolutamente tutte, le forme di vita religiosa e gli ordini mendicanti sorti dopo quel concilio, che non abbiamo avuto la conferma della sede apostolica e sopprimiamo quelli che si fossero diffusi. »

Segarelli non ebbe scelta: o si piegava o si ribellava. Optò per la seconda ipotesi.

Poteva contare sull'innegabile successo della sua semplice predicazione. Occorreva convertirsi, fare penitenza (penitentiam agite, deformato in penitençagite, che divenne il vero slogan del movimento), predicare il tempo nuovo nelle piazze e nelle cattedrali, abbandonare le ricchezze per rivestirsi di povertà. Una dottrina patarina, potremmo dire. Che ci siano stati influssi gioachimiti, è dimostrato da un altro passo riportato sempre dal Salimbene nella sua Cronaca:

« In altra occasione, mentre me ne stavo a Ravenna, gli apostolici fecero predicare un fanciullo nella basilica Ursiana, che è la chiesa arcivescovile di Ravenna. E fu tale l'affannoso affrettarsi di uomini e donne, che si guardavano bene dall'attendersi l'un l'altro. A punto che una gran nobildonna di quella città, a nome Giulietta, moglie di ser Guido Riccio da Polenta, si lamentò con i frati che a malapena era riuscita a trovare una vicina che andasse con lei. La chiesa Ursiana era poi talmente piena quando vi giunse che non trovò posto se non fuori della porta. Eppure è grande, visto che consta di quattro navate oltre quella centrale.
Facevano dunque gli apostolici girare questo fanciullo per le città e lo facevano predicare nelle chiese E grande era l'afflusso di uomini e donne e l'ammirazione, perché al giorno d'oggi si amano le novità …Così commenta l'abate Gioacchino (da Fiore) il passo di Geremia l,7: "Non dire sono un giovincello, perché andrai a fare tutto quello per cui ti manderà e tutto quello che t'ordinerà, tu farai" "Penso che come un tempo Dio scelse gli antichi padri per rivelare i suoi misteri, poi scelse apostoli più giovani che chiamò addirittura amici, ora, in questa terza fase, sceglie dei fanciulli veri e propri, perché annuncino il vangelo del regno a coloro per i quali il vecchio modo di vivere ha perduto valore. »

Chi ci parla del nostro eretico, il Salimbene, è un francescano fazioso, lontano anni luce dalla splendida figura del suo maestro, e oltre tutto lui pure in odore d'eresia, per quei tempi, perché sostenitore velato (ma non troppo) di Gioacchino da Fiore. La sua unica preoccupazione fu che gli apostoli potessero diventare i veri propagatori del messaggio pauperistico che era proprio di Francesco, e che, dato il loro successo, potessero ottenere l'appoggio economico dei vescovi. Senza volerlo il Salimbene ci fornisce un penoso spaccato di quel particolare momento storico. A pochi decenni dalla morte del grande Santo di Assisi, c'era già nell'ordine chi anteponeva gli interessi economici a quelli spirituali, ma di questo abbiamo già parlato.

Gerardo Segarelli fu in ogni modo un uomo coerente: si fece addirittura circoncidere. Ebbe come amico un vescovo che cercò anche di salvarlo dalle mani dell'Inquisizione lombarda, ma non vi riuscì. Sotto il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), "colpevole in molte eresie ed enormi delitti", Gerardo fu arso vivo. Correva il mese di luglio del 1300. Esattamente un mese dopo, fra Dolcino da Novara scriveva la sua prima lettera, prendendo in pugno la situazione e ridando vita, fortuna e notorietà al movimento, anche se per poco.

Una testimonianza qualificata (anche se certamente di parte) che possiamo analizzare è nientemeno quella di Bernardo Gui, inquisitore ed autore di numerose opere, fra cui "De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum", nella quale così riferisce sulla dottrina di Dolcino:

« Tolto di mezzo ed arso sul rogo l'eresiarca Gerardo Segarelli, gli succedette nel magistero dell'errore e della perversa dottrina Dolcino della diocesi di Novara, figlio naturale di un sacerdote, uno dei discepoli di Gerardo. Egli divenne il capo ed alfiere di tutta quella setta e congregazione non apostolica, come sostengono per ingannare, ma di fatto apostatica, ed aggiunse errori agli errori, come apparirà con maggiore evidenza più sotto, dove gli errori di costoro sono raccolti in una sorta di compendio, perché, una volta smascherati, i fedeli li possano evitare più facilmente.
Dolcino radunò nella sua setta ereticale molte migliaia di persone di entrambi i sessi, da ogni dove, soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana e nelle altre regioni vicine, e a loro trasmise una dottrina pestifera e predisse molti avvenimenti futuri con spirito, non tanto profetico quanto fanatico ed insensato, affermando e fingendo di avere da Dio delle rivelazioni e uno spirito profetico. Ma in tutte queste cose fu trovato falso, ingannatore ed illuso, insieme con Margherita, sua malefica ed eretica compagna nei delitti e nell'errore, come le seguenti vicende mostreranno.
Dolcino scrisse tre lettere che indirizzò a tutti i cristiani in generale, e in particolare ai suoi seguaci, in esse farnetica abbondantemente circa passi della S. Scrittura e finge nell'esordio di seguire la vera fede della Chiesa romana, ma la stessa serie delle lettere mostra a ragione la sua perfidia. Dal testo di due, che ebbi fra le mani, sfrondando ho raccolto in compendio quanto segue, omettendo, per motivi di brevità, il resto che non mi sembrava pertinente.
La prima di queste fu datata o scritta nel mese di agosto del 1300. In apertura Dolcino afferma che la sua congregazione ha carattere spirituale ed incarna in senso proprio ed esclusivo il modo di vita apostolico, con vera povertà, senza il vincolo di un'obbedienza esteriore, ma solo interiore. Aggiunge che in questi ultimi tempi essa è stata scelta e mandata da Dio nell'intento speciale di salvare le anime; e che il capo, cioè egli stesso, che chiamano fra Dolcino, è stato eletto e mandato da Dio con rivelazioni a lui fatte sul presente e sull'imminente futuro riservato ai buoni e ai malvagi, per svelare le profezie e il significato delle S. Scritture nel tempo attuale. Indica nel clero secolare i suoi avversari e ministri del demonio, insieme con molti del popolo, dei potenti e dei sovrani, e tutti i religiosi specialmente i Domenicani e i Francescani, ma anche gli altri, che continuano a perseguitare lui e i suoi, perché aderiscono a detta setta, che egli definisce congregazione spirituale ed apostolica. Per questo motivo Dolcino dice di fuggire e di nascondersi dai suoi persecutori, come hanno fatto i suoi predecessori di questa congregazione, fino a un tempo prefissato, in cui, sterminati gli avversari, egli e i suoi appariranno in pubblico e predicheranno a tutti. Inoltre dice che tutti i suoi persecutori e i prelati della Chiesa verranno uccisi e annientati entro breve; i superstiti si convertiranno alla sua setta e si uniranno a lui; allora egli e i suoi avranno il sopravvento su tutti.
Distingue poi nella storia quattro stati di santità secondo il proprio modo di vita: nel primo vi furono i padri dell'Antico Testamento, ossia i patriarchi e i profeti, e gli altri uomini giusti fino all'avvento di Cristo. In questo stato approva che il matrimonio, come fatto buono, ci fosse per favorire la moltiplicazione del genere umano. Ma poiché verso la fine i discendenti si allontanarono dallo stato spirituale e buono dei progenitori, allora venne Cristo con i suoi apostoli, discepoli e i loro imitatori, a sanare la debolezza di quelli. E questo fu il secondo stato di santi, che ebbero un altro particolare modo di vivere e rappresentarono la medicina perfetta per la debolezza del popolo precedente. Essi mostrarono la vera fede con i miracoli, l'umiltà, la pazienza, la povertà, la castità ed altri buoni esempi di vita in contrasto con tutto ciò da cui si erano allontanati quelli del primo stato. In questo secondo stato la verginità e la castità furono considerate migliori del matrimonio, la povertà migliore della ricchezza, il vivere senza nulla possedere migliore dell'avere proprietà di beni terreni. Questo stato durò fino al tempo del beato Papa Silvestro e dell'imperatore Costantino; e a quel tempo i posteri si allontanarono dalla perfezione dei primi.
Il terzo stato iniziò da san Silvestro, al tempo dell'imperatore Costantino, quando i pagani presero a convertirsi in numero sempre maggiore alla fede di Cristo; e fintantoché si convertivano e non si raffreddavano nell'amore di Dio e del prossimo, fu cosa più opportuna per il santo Papa Silvestro e per i successori accettare e mantenere i possessi terreni e le ricchezze che vivere nella povertà apostolica, e meglio fu governare il popolo piuttosto che non reggerlo per poter in tal modo mantenerlo fedele.
Ma quando nelle popolazioni cominciò a diminuire la carità di Dio e del prossimo e ci si allontanò dal modo di vivere di san Silvestro, allora più di qualsiasi altro fu eccellente il modello di vita del beato Benedetto, per il fatto che fu più severo verso l'accumulo dei beni terreni e più distaccato dal dominio temporale. E tuttavia allora - come egli dice - la vita dei buoni chierici era santa quanto quella dei monaci, se non che i buoni chierici diminuivano e i monaci si moltiplicarono. E quando i chierici e i monaci si furono raffreddati totalmente nella carità verso Dio e verso il prossimo allontanandosi dal loro stato primitivo, allora il modello più consono di vita fu quello di san Francesco e di san Domenico, che furono più severi circa il possesso delle cose terrene e il dominio temporale di quanto non lo fossero san Benedetto e i monaci. E poiché ora è giunto il tempo in cui tutti, sia i prelati che i chierici e i religiosi si sono raffreddati nell'amore verso Dio e verso il prossimo e sono decaduti dallo stato di vita santa dei loro predecessori, fu ed è necessario ristabilire il modo di vita proprio degli apostoli più che tenerne un qualsiasi altro. E questo tipo di vita apostolico, egli afferma che è stato mandato da Dio in questi ultimi tempi, adottato ed intrapreso da Gerardo Segarelli di Parma, amatissimo da Dio, e che durerà costantemente fino alla fine del mondo e darà frutti fino al giorno del giudizio.
Questo è il quarto ed ultimo stato, basato sul comportamento di vita proprio degli apostoli, che differisce da quello di san Francesco e dì san Domenico, perché il loro progetto di vita fu di avere molte case in cui raccogliere ciò che mendicavano; "ma noi, dice Dolcino, non abbiamo case né dobbiamo portarvi le elemosine: per questo la nostra vita è superiore in perfezione ed è la suprema medicina per tutti".
(...) Passa poi a predire il futuro, affermando che, se non si avverano quelle cose che afferma e che sostiene essergli state rivelate da Dio, lui e i suoi siano reputati dei mentitori, e i suoi persecutori dei veritieri, e viceversa.
Poi, da circa metà delle sua lettera fino alla fine, prosegue a parlare degli avvenimenti futuri che avrebbero dovuto accadere nel triennio successivo, e cioè che tutti i prelati della Chiesa e gli altri chierici, dal più grande al più piccolo, e tutti monaci e le monache, i religiosi e le religiose, e tutti i frati e le suore degli ordini dei Domenicani, dei Francescani e degli Agostiniani, che, come egli sostiene, si sono da tempo allontanati dal modo di vivere dei predecessori, che rappresentano la terza fase della Chiesa e sui quali insinua molte malignità, compreso anche Papa Bonifacio VIII, allora a capo della Chiesa, di cui in modo simile espone in quella lettera molte maldicenze, adducendo ed interpretando, a conferma di quanto sopra, con la sua malvagia intelligenza molti passi tratti dalla Scrittura, dei Profeti, dei Vecchio e del Nuovo Testamento, tutti, dico, i soprannominati verranno sterminati, uccisi e distrutti su tutta la terra, dalla collera divina ad opera di un nuovo imperatore e dei nuovi re da lui creati.
Indica e sostiene, nel testo, che si tratta di Federico, allora re di Sicilia, figlio del defunto Pietro d'Aragona. Federico deve essere innalzato al trono imperiale ed eleggere nuovi re, e con le arti impadronirsi dì Papa Bonifacio per farlo uccidere con gli altri meritevoli di morte. E a conferma di questo cita molti passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, interpretandoli e presentandoli con quel suo particolare e perverso spirito esegetico. E dice che allora tutti i cristiani vivranno in pace, e ci sarà un unico Papa santo, mandato ed eletto in modo straordinario da Dio e non dai cardinali, perché allora tutti i cardinali saranno già stati uccisi con gli altri. Saranno sottomessi a quel Papa coloro che ora vivono nello stato apostolico ed anche gli altri chierici e religiosi che si uniranno a loro, che per aiuto divino saranno risparmiati dalla spada imperiale. Essi riceveranno allora la grazia dello Spirito Santo, come la ricevettero gli apostoli nella Chiesa primitiva, e poi daranno frutti nei discendenti sino alla fine del mondo. Federico re di Sicilia, figlio di Pietro d'Aragona, nuovo imperatore, e quel Papa santo che seguirà Bonifacio ucciso dall'imperatore, e nuovi re creati dal nuovo imperatore, dureranno fino alla venuta dell'Anticristo, che comparirà e regnerà in quegli anni. »

Certamente il testo va purificato da tutti gli elementi faziosi che un personaggio come Bernardo Gui poté inserirvi, ma ciò non toglie che l'inquisitore abbia sintetizzato benissimo la predicazione di Dolcino, per quei tempi era veramente rivoluzionaria. In altro passo così parla:

"Questi che seguono sono gli errori di Gerardo Segarelli di Parma, eretico condannato e bruciato sul rogo e di Dolcino, della diocesi di Novara, suo successore, e dei loro seguaci (…)
1. Innanzitutto insegnarono, come principio indiscutibile (…) che tutta l'autorità conferita da Gesù Cristo Signore alla Chiesa di Roma si è dissipata totalmente e già da un pezzo è finita a causa della malvagità dei prelati, e che la Chiesa di Roma, che il Papa e i cardinali, i chierici e religiosi occupano e sostengono, non è la Chiesa di Dio, ma una Chiesa biasimata, senza frutto.
2. Che la Chiesa di Roma è quella meretrice che ha rinnegato la fede di Cristo, di cui scrive Giovanni nell'Apocalisse.
3. Che tutto il potere spirituale, che fin dall'inizio Cristo diede alla Chiesa, si è trasferito nella setta di coloro che si dicono Apostoli o dell'ordine degli Apostoli, setta che essi definiscono spirituale, mandata e prescelta da Dio in questi ultimi tempi; che essi soli, e nessun altro, possiedono il potere che ebbe l'apostolo san Pietro.
4. Che Gerardo Segarelli di Parma fu il fondatore di questa setta e - come dice e sostiene Dolcino - fu la nuova pianta di Dio, che produce germogli perché piantata sulle radici della fede (…)
5. Che soltanto essi, che si dicono Apostoli, appartenenti a detta setta o ordine, costituiscono la Chiesa di Dio e si trovano in quello stato di perfezione in cui vissero i primi apostoli di Cristo; e perciò non sono vincolati all'obbedienza verso alcun uomo, né al sommo pontefice né ad altri, poiché la loro regola, proveniente direttamente da Cristo, è libera e la loro vita è perfetta.
6. Che né il Papa, né alcun altro, può ordinare loro di lasciare quello stato così perfetto di vita, e neanche può scomunicarli.
7. Che ogni appartenente a qualsiasi stato ed ordine religioso può legittimamente passare al loro modo di vita, stato o ordine, sia egli religioso o laico; così che un marito senza il permesso della moglie e una moglie senza il consenso del marito, possono abbandonare lo stato di vita matrimoniale per entrare nel loro ordine. E che nessun prelato della Chiesa romana può sciogliere un matrimonio, mentre essi soltanto possono farlo.
8. Che a nessuno, appartenente alla loro vita o stato o ordine, è lecito entrare in altro ordine o sotto altra regola senza commettere peccato mortale, né sottomettersi all'obbedienza di qualsiasi uomo, perché ciò comporterebbe un decadimento da una vita più perfetta ad una meno perfetta.
9. Che nessuno si può salvare ed entrare nel regno dei cieli, se non appartiene al loro stato e ordine, poiché fuori dal loro stato o ordine, d'ora in poi, nessuno si salverà più.
10. Che tutti coloro che li perseguitano, peccano e si trovano in stato di dannazione e di perdizione.
11. Che nessun Papa della Chiesa di Roma può davvero assolvere qualcuno dai propri peccati, a meno che non sia tanto santo quanto fu l'apostolo san Pietro (...)
12. Che tutti i prelati della Chiesa di Roma, dai più alti ai meno importanti, dall'epoca di san Silvestro quando si allontanarono dal modo di vivere dei primi santi, sono prevaricatori e ingannatori, eccetto fra Pietro da Morrone che fu Papa col nome di Celestino.
13. Che tutti gli ordini dei religiosi, dei sacerdoti, dei diaconi, dei suddiaconi e dei prelati rappresentano un danno per la fede cattolica.
14. Che i laici non sono tenuti e non devono dare le decime ad alcun sacerdote o prelato della Chiesa di Roma, a meno che non sia tanto perfetto e povero quanto furono i primi apostoli; e perciò affermano che le decime non si devono versare se non a loro stessi, che si dicono Apostoli e sono i poveri di Cristo.
15. Che ogni uomo e ogni donna possono lecitamente, insieme e nudi, coricarsi nello stesso letto e lecitamente toccarsi l'un l'altra in ogni parte del corpo e scambiarsi baci senza commettere nessun peccato. E che non è peccato congiungersi sessualmente con una donna - se si è eccitati carnalmente - per far cessare la tentazione.
16. Che giacere con una donna e non accoppiarsi carnalmente con lei è un miracolo maggiore che far resuscitare un morto.
17. Che è vita più perfetta quella condotta senza voti che coi voti.
18. Che per pregare Dio una chiesa consacrata non è più idonea di una stalla per cavalli o di un porcile.
19. Che Cristo si può adorare cosi bene nei boschi come nelle chiese, o anche meglio.
20. Che per nessun motivo e in nessuna circostanza l'uomo deve prestare giuramento, a meno che non si tratti di articoli di fede o di precetti divini, e tutto il resto può tenerlo nascosto".

Nel tentativo di difendere ad oltranza questa loro fede, Dolcino e i suoi si asserragliarono il 10 marzo 1306 sul monte Rubello, in Valsesia, decisi a vendere cara la loro pelle. Dovettero ricorrere alle armi sia per difendere il loro credo, sia per rifornirsi di cibo, come ci racconta l'anonimo autore della "Storia di fra Dolcino eresiarca":

« Sopra Varallo spogliarono chiese, incendiarono diversi luoghi, tanto che in quel territorio per un raggio di circa dieci miglia pochi o nessuno osava abitarvi, la zona rimase deserta e la popolazione fu costretta ad emigrate in altri paesi vivendo di elemosine Se poi quei cani bastardi trovavano qualche cristiano, o lo uccidevano o ne chiedevano il riscatto. Procurarono danni alle persone e alle cose sia in diocesi di Vercelli sia in diocesi di Novara.
In seguito si trasferirono a Trivero, continuando le loro prave azioni. Alla fine si ridussero ad un tal stadio di inedia che mangiavano carne di topo, di cavallo, di cane e di altre bestie brute e fieno cotto col sego, anche in tempo di quaresima (…) Una volta giunti, discesero di prima mattina al paese e alla chiesa di Trivero, senza che gli abitanti se ne fossero affatto accorti e spogliarono la chiesa portando via calici, libri e altri beni e saccheggiarono diverse altre case, facendo anche prigionieri e portarono con sé sul monte Rubello, ora chiamato monte dei Gazzari o di fra Dolcino, tutto ciò che riuscirono ad arraffare (…)
Distrussero totalmente e bruciarono i paesi di Mosso, Trivero, Coggiola, Flecchia, numerosi borghi di Crevacuore e diverse case in Mortigliengo e Curino. Diedero fuoco alla chiesa di Trivero, imbrattarono affreschi e dipinti, divelsero le lastre di marmo dagli altari e amputarono un braccio ad una statua lignea della beata Maria Vergine; saccheggiarono libri, calici e arredi sacri; fecero crollare il campanile e spezzarono le campane; si impadronirono dei vasi sacri della comunità e dei beni del sacerdote. Tutte queste cose rapinate le portarono via e le ammassarono sul monte. »

Il vescovo Raniero di Vercelli organizzò un'imponente controffensiva per la primavera del 1307:

« Il successivo mese di marzo il Vescovo fece schierare contro i gazzari tutto il suo esercito, perché vedeva le sue terre quasi totalmente distrutte e gli uomini costretti a mendicare. Per questo, confidando nella clemenza divina e nell'aiuto di sant'Eusebio martire e di tutti i santi, volendo mettere alla prova la sorte, fece attaccare in forze i gazzari una e più volte durante la settimana santa. E il giovedì santo gli uomini che combattevano contro i gazzari presero il bastione che
Si trovava sul luogo chiamato Stavello e nella pianura di Stavello la battaglia durò per quasi tutto il giovedì santo e gran parte di quei dannati fu uccisa e anche molti cristiani furono feriti, tanto che molti infedeli furono gettati in un ruscello, ora chiamato Carnasco, e si dice che l'acqua del fiume fosse rossa come sangue per i morti che vi furono gettati.
Finalmente il giovedì santo del 1307, 13 marzo, dopo lungo combattere e strenui fatiche, l'eresiarca fra Dolcino fu preso vivo sui monti di Trivero insieme con Margherita di Trento sua compagna e Longino di Bergamo, della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco, che erano dopo Dolcino i personaggi di maggior spicco della setta; e il Vescovo desiderava quanto mai averli vivi per rendere loro la pariglia, visto i danni che avevano arrecati. Molti altri perfidi furono catturati e fatti prigionieri. I fortilizi furono dati alle fiamme, distrutti e dispersi lo stesso giorno. E sempre nello stesso giorno più di mille furono avvolti dalle fiamme o dal fiume, come si dice, o morti di spada o di morte quanto mai atroce. »

La sorte di Dolcino fu tremenda: la sua compagna Margherita di Trento arsa viva davanti ai suoi occhi.

"In seguito a disposizioni giudiziarie, fu crudelmente dilaniato con tenaglie roventi che gli strappavano le carni e gliele laceravano fino alle ossa, e fu condotto in tale stato per le contrade della città. (...) Lo si sarebbe potuto definire un martire, se fosse il supplizio a creare il martire e non l'intenzione volontaria di chi lo subisce.
Mentre poi veniva straziato fra i tormenti, di continuo esortava la sua Margherita ad essere costante, benché non fosse presente.
Costei, imbevuta dell'insegnamento di Dolcino, non venne mai meno alle sue esortazioni; anzi, si dimostrò più salda e costante di lui nell'errore, tenuto conto della naturale fragilità del sesso. Infatti, benché molti nobili la chiedessero in sposa, sia per la sua straordinaria bellezza, sia per le sue grandi ricchezze, non cedette in alcun modo. Per cui, sottoposta alla stessa pena del suo amatissimo Dolcino, straziata dal ferro e dal fuoco, coraggiosamente lo seguì all'inferno" (da Benvenuto da Imola, Commentum in Dantis Comoediam, in L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medi Aevi, I, Mediolani 1738 (rist. anast. Bologna 1965), coll. 1120-22)

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Dolcino e gli Apostolici
LA STORIA IN BREVE
Anno 1300: anno del Giubileo e del perdono universale. Perdono per tutti i malfattori, ma non per Gherardino Segalello, che viene posto al rogo a Parma. La sua colpa? Aver dato vita al movimento dei "Fratelli Apostolici". Nel 1260 circa, l'umile Gherardino aveva chiesto di essere ammesso nel convento dei frati minori (francescani) di Parma. Permesso rifiutato. Allora vende la sua piccola casa ed il suo piccolo orto, getta i soldi così ricavati ai poveri (proprio come aveva fatto San Francesco), ed inizia una vita nuova basata su pochi, essenziali concetti: l'imitazione di Cristo ("seguire nudi il Cristo nudo"), il rifiuto di ogni possesso e accumulazione (quindi la povertà assoluta) e dunque le elemosine in una esistenza itinerante, nella convinzione che solo una tale realtà esistenziale potesse interpretare nel giusto modo il messaggio del Vangelo. E' il rifiuto, messo in pratica, della via adottata dalla chiesa di Roma (possesso, ricchezza, potere).

Cominciano ad affluire seguaci di Gherardino (il quale tuttavia rifiuterà sempre di essere considerato "capo", in omaggio ad una concezione integralmente comunitaria ed antigerarchica), e via via il consenso popolare cresce, tanto che le file degli Apostolici si ingrossano e moltissimi, uomini e donne, aderiscono a questo movimento. Gherardino, nella sua semplicità, è un grande comunicatore: coloro che aderiscono al movimento vengono privati dei vestiti e indossano una tunica bianca (l'unica cosa che possiedono), rifiutano persino, dell'elemosina, il pane superfluo che non può essere consumato immediatamente, egli stesso si presenta sulla pubblica piazza attaccato al seno di una donna come fosse un neonato lattante (a simboleggiare la rinascita dello spirito cristiano in una nuova éra di purezza totale), fa predicare in chiesa persino i bambini. Insomma, il contenuto del messaggio degli Apostolici (che si chiamano anche "minimi" per segnare la differenza con i "minori"-francescani i quali si erano integrati, in fondo tradendo l'insegnamento del loro fondatore Francesco d'Assisi, nei meccanismi potere-ricchezza della chiesa di Roma), e le forme della predicazione ottengono via via un enorme successo e adesione popolare, al punto che la gente abbandona i riti cattolici per affluire in massa alle "prediche" degli Apostolici. Gherardino invia anche diversi Apostolici a portare il proprio messaggio in terre lontane.

Questo enorme successo (riconosciuto dalle più autorevoli fonti storiografiche cattoliche dell'epoca) non può più essere tollerato dalla chiesa romana: il mite Gherardino (pacifista integrale) viene imprigionato, alcuni apostolici vengono messi al rogo, e infine, nel 1300, Gherardino stesso viene arso vivo sulla pubblica piazza, nel nome del Signore.

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Ma il rogo di Gherardino Segalello, anzichè spegnere il movimento apostolico, per uno di quegli strani "scherzi" della storia, segna invece l'inizio di una vicenda del tutto originale, e di enorme portata, nel medioevo italiano. Tra i molti che erano venuti in Emilia anche da lontano per partecipare al movimento apostolico, vi è Dolcino, nativo di Prato Sesia (Novara). Dopo la morte del fondatore, Dolcino di fatto assume il ruolo di leader del movimento, il cui nucleo "dirigente", sotto la pressione dell'Inquisizione, si sposta nel 1300 dall'Emila al Trentino (vengono chiamati qui ed accolti da loro amici e compagni). La repressione tuttavia li segue anche lì, ove tre apostolici (due uomini e una donna) vengono posti al rogo. Nel 1303/1304 ecco allora Dolcino, con il gruppo degli Apostolici più fedeli (uomini, donne, vecchi e bambini), partire nel lungo viaggio che li porterà, attraverso le montagne lombarde (presso Chiavenna vi è tuttora un paese che si chiama Campodolcino) in Valsesia. La Valsesia è la terra d'origine di Dolcino, qui egli conta amici, ed è naturale che, per salvarsi, egli pensi a questa meta. Tra le donne che fanno parte di questo gruppo vi è la bellissima Margherita di Trento, di nobili origini, compagna di Dolcino.

La Valsesia era, però, da molto tempo in lotta aperta prima contro i grandi feudatari (conti di Biandrate), poi contro i comuni della pianura (Novara e Vercelli). Quando il gruppo degli Apostolici giunge a Gattinara e Serravalle, centri nella parte bassa della valle, e qui ricomincia la propria predicazione per una chiesa ed una società nuove, l'accoglienza popolare è entusiastica. I vescovi di Vercelli e Novara, in accordo con il papa, vedendo come l'avvento degli apostolici fa da catalizzatore per le istanze autonomiste delle popolazioni valsesiane, bandiscono allora una vera e propria crociata per debellare questi "figli del diavolo". Viene reclutato un vero e proprio esercito professionale (anche i balestrieri genovesi, abilissimi nel tiro) per farla finita una volta per tutte. Gli Apostolici, questa volta, uniti ai valsesiani ribelli, decidono di difendersi. Nel 1304 inizia dunque una vera e propria guerra di guerriglia tra un esercito cristiano e cristiani che credono in una chiesa diversa ed alternativa. Si susseguono scontri e battaglie, nelle quali Dolcino dà anche prova di notevole intelligenza militare. I ribelli si spingono in alto nella valle e, sul monte chiamato Parete Calva, che è ideale per la difesa, si installano con l'appoggio dei montanari fondando una vera e propria "comune" eretica, in attesa di quello sbocco finale che Dolcino, uomo colto, teologo e filosofo della storia, ritiene imminente. I crociati assediano la Parete Calva, ove sono asserragliati i ribelli (alcune fonti parlano di 4000 persone, altre di 1.400), e si susseguono scontri sanguinosi. L'inverno, per i rivoltosi, è terribile. Essi vivono in condizioni ormai disperate. Finchè, guidati da Margherita in un difficile passaggio tra metri di neve (ancora oggi quel luogo si chiama "Varco della Monaca"), riescono a devallare portandosi nel Biellese. Qui essi si fortificano sul Monte da allora chiamato Monte dei Ribelli, o Rubello.

Ma i crociati si riorganizzano e procedono ad un nuovo assedio. I ribelli sono allo stremo, e alla fine l'ultimo assalto provoca una carneficina: circa 800 ribelli sono trucidati sul posto, mentre Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo (luogotenente di Dolcino) sono catturati vivi. Margherita e Longino verranno posti al rogo in Biella. Margherita rifiuterà di abiurare, respingerà le proposte di matrimonio di alcuni nobili locali, che l'avrebbero salvata dal rogo, e sceglierà di restare fedele al suo ideale e al suo compagno fino in fondo. Dolcino prima dovrà assistere al supplizio della sua donna e poi, a Vercelli, verrà condotto al rogo si di un carro. Durante il tragitto viene torturato con tenaglie ardenti, ma tutti i commentatori sono concordi nell'attribuirgli un coraggio straordinario: non si lamenta mai, ma solo si stringe nelle spalle quando gli viene amputato il naso e trae un sospiro quando viene evirato. Infine, nel 1307, anche per lui la "giustizia" di Dio significa il rogo. Tre anni di resistenza armata nel nome di Cristo si concludono tra quelle fiamme, ma altri dolciniani un po' da ogni parte continueranno ad esistere: si hanno notizie fino al 1374. Di più, Dolcino, Margherita e gli Apostolici diverranno simboli di libertà ed emancipazione fino ai giorni nostri, e la memoria popolare non li dimenticherà. Addirittura nel 1907 (sesto centenario del martirio) vi saranno celebrazioni di enorme rilievo con l'edificazione di un obelisco alto 12 metri proprio sui luoghi della loro ultima resistenza.

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L'enorme, tragico fascino della vicenda non deve comunque porre in secondo piano i significati storico-teoretici di un movimento che, pur sconfitto, ha testimoniato la validità e la vitalità di una lettura "diversa" delle Sacre Scritture, indicando una via del tutto alternativa per la costruzione di una chiesa e di una società diverse. Per questo la bibliografia dolciniana è enorme, e Dolcino seppe suscitare l'ammirazione anche di Dante (Inferno, canto XXVIII).

venerdì 27 maggio 2011


"Stultifera Navis"

E’ a partire dalla scomparsa della lebbra in Europa che, anche se ancora a livello inconscio, l’esperienza dell’isolamento della follia e dell’internamento cominciano a farsi strada nella mentalità medioevale, fino all’esplosione che avranno nell’Età Classica. Gli ospedali e gli edifici sanitari che erano destinati ad ospitare i malati di lebbra si riveleranno allora i luoghi più adatti per quell’esperienza correzionaria di isolamento e prigionia che contraddistinguerà la follia nel XVII secolo.

Ma nel Medioevo la concezione di follia era ancora inserita nell’antica contrapposizione Bene/Male come parte inscindibile dell’umana tragicità, e sebbene già sulla via dell’alienazione e della punizione, il folle era largamente ammesso nella società come parte costitutiva di essa. L’isolamento non gli precludeva un ruolo sociale e simbolico che l’arte e la cultura dell’epoca non mancheranno di concedergli, e la sua fascinazione sulla filosofia e sulla religione era ancora molto influente. Ancor più che uomo in carne ed ossa, nel Medioevo il folle è un personaggio, oggetto di rappresentazione artistica e di allegoria, stereotipo dell’insensatezza della condizione umana e ricettacolo delle paure dei propri contemporanei.

Il campo in cui più la figura del folle ebbe successo fu sicuramente la pittura. "Sotto la superficie dell’immagine s’insinuavano tanti significati diversi a tal punto che essa non presentava più che un volto enigmatico. Ed il suo potere non era più di insegnamento ma di fascinazione". La definizione presente nel libro mostra in modo evidente il tipo di rappresentazione della follia che andava diffondendosi nei primi secoli dell’anno mille, e che saranno poi definitivamente codificati da geni visionari come Durer, Brueghel e Bosch. Proprio quest’ultimo è l’autore di un quadro fondamentale, la "Nave dei Folli", attorno a cui Foucault fa ruotare la propria interpretazione dell’esperienza medioevale della follia, analizzandone i significati impliciti. Nel dipinto di Bosch il folle è in tutto e per tutto stereotipo della sregolatezza e dell’insensatezza della condizione umana, reso protagonista di un viaggio insulso alla volta del nulla, o forse del sapere universale. La navigazione è al contempo simbolo dell’isolamento e della purificazione, preludio dell’internamento e rito misterioso che si riconduce ad antiche magie e cabale che nel Medioevo affiancavano costantemente l’immagine del folle.

Al fianco del viaggio verso l’ignoto, nella rappresentazione della follia di Bosch troviamo anche la tendenza a raffigurare animali fantastici ed il più delle volte mostruosi, uomini dai visi deformi e dagli arti mutilati, ed una serie di altre visioni sconcertanti in cui sono sfogate le paure inconsce della società sua contemporanea. Le figure fantastiche diventano allegoria delle incertezze dell’uomo, dell’incapacità di rispondere alle domande della vita, anche se a volte sono semplicemente sfruttate per la satira sociale o per l’esaltazione del mondo alla rovescia carnevalesco. Emblematici di questo sono anche alcuni quadri di Brueghel ed il sinistro libro di Brandt, il Narrenschiff, odissea dantesca della follia a bordo di una nave carica di tipi umani e personaggi simbolici.

Ma il folle è visto anche come il possessore di un sapere oscuro e proibito, capace di vedere realtà superiori che nascondono segreti misteriosi o rivelazioni religiose. Spesso è associato alla figura del mago e del sapiente, e non a caso è proprio la filosofia che tende a sconfinare nella follia durante il Medioevo; il primo canto del poema di Brandt è consacrato ai libri ed ai sapienti, e nell’incisione che appariva sulla copertina della prima edizione troneggia al centro della cattedra di libri il Maestro che porta dietro il suo berretto di dottore il cappuccio dei pazzi tutto cucito di sonagli. Anche Erasmo dedica molto spazio ai filosofi ed ai teologi nella sua ronda dei folli, come d’altra parte l’infinito di Cusano, che è la saggezza di Dio, non si distacca molto nella sua definizione dall’abisso della follia: "Nessuna espressione verbale può esprimerla, nessun atto di comprensione farla comprendere, nessuna misura misurarla, nessun compimento darle un compimento, nessun limite limitarla, nessuna proporzione proporzionarla, nessun paragone paragonarla, nessun simbolo simboleggiarla, nessuna forma darle forma…". Anche la teologia si trova quindi implicata nel paradosso della follia; la ragione umana al confronto di quella di Dio non è che follia.

La complementarità della follia con la ragione si ritrova nella distinzione che veniva fatta, a partire da Erasmo, di due tipi di follia: da una parte una "folle follia", che rifiuta la follia caratteristica della ragione e rifiutandola la raddoppia, cadendo nella più semplice, chiusa ed immediata delle follie; d’altra parte una "saggia follia" che accoglie la follia della ragione, la ascolta e la lascia penetrare nei propri pensieri: ma così facendo si difende dalla follia più di quanto possa fare l’ostinazione di un rifiuto sempre sconfitto in partenza.

giovedì 26 maggio 2011


Nascita del manicomio

La fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX hanno visto il compimento del grandissimo movimento di riforma conclusosi con la nascita dell’asilo moderno o manicomio, la conclusione di questo enorme cambiamento ha visto come protagonisti Tuke e Pinel.

Tuke è un quacchero, un socio di una di quelle innumerevoli "Società di Amici" sviluppatesi in Inghilterra alla fine del XVII secolo. Essi organizzano gruppi di assicurazione e società di soccorso, chiamate "ritiri" in cui si inserisce il malato in una dialettica semplice della natura e lo si mantiene nel mito della famiglia patriarcale. Essi vogliono essere una grande comunità nella quale i malati saranno i bambini della famiglia nella sua idealità primitiva; nel ritiro il gruppo umano è ricondotto alle sue forme originarie e più semplici, si tratta di riportare l’uomo ai rapporti sociali elementari e assolutamente conformi all’origine e questo grazie anche alla religione. Tuke e gli altri ricostruiscono in modo artificiale intorno alla follia un simulacro di famiglia.

Pinel vuole abolire le forme immaginarie della religione, non il suo contenuto morale; in essa infatti c’è, una volta decantata, un potere di combattere l’alienazione il quale dissipa le immagini, calma le passioni e restituisce l’uomo a ciò che vi è in lui di immediato e di essenziale: essa può avvicinarlo alla sua verità morale. L’asilo deve riprendere il compito morale della religione, al di fuori del suo contesto fantastico, esclusivamente sul piano della virtù, del lavoro e della vita; esso è dominio religioso senza religione e dominio della moralità pura.

L’asilo di Pinel è organizzato in tre modi principali:

IL SILENZIO. Prigioniero soltanto di se stesso, il malato è coinvolto in un rapporto colpevole con se stesso: la colpevolezza è spostata verso l’interno. L’assenza di linguaggio quindi ha per correlativo l’emergere della confessione.

IL RICONOSCIMENTO NELLO SPECCHIO. La follia vedrà se stessa e sarà vista da se stessa: sarà, contemporaneamente, puro oggetto e soggetto assoluto.

IL GIUDIZIO PERPETUO. La follia viene anche continuamente giudicata dall’esterno da una sorta di tribunale invisibile; il malato deve essere perfettamente consapevole di tutto questo, il legame tra colpa e punizione deve essere evidente.

Al silenzio, al riconoscimento nello specchio e al giudizio perpetuo si aggiunge una quarta struttura fondamentale: il personaggio medico. Fra tutte esso è senza dubbio l’elemento più importante perché guiderà infine tutta l’esperienza moderna della follia e diverrà la figura essenziale dell’asilo. L’homo medicus acquisterà autorità come sapiente e come saggio; sarà colui che delimiterà, conoscerà e dominerà la follia.

L’opera di Tuke e Pinel, così diverse nello spirito e nei valori, si incontrano proprio in questa trasformazione del personaggio medico.

giovedì 19 maggio 2011


Il pane nel medioevo

Gli uomini del Medioevo ebbero la capacità, soprattutto nei momenti di difficoltà alimentare, di trasformare in pane non solo grani di differenti tipologie ma, come vedremo, anche di ottenere farine da alcuni legumi e frutti.Il procedimento di panificazione iniziava con l’”abburattamento” , con cui si separava la crusca dalla farina per il quale veniva usato uno strumento apposito detto “buratto”, si procedeva poi a mescolare la farina con dell’acqua tiepida finchè si otteneva una pallottola di pasta che veniva fatta lievitare in un recipiente chiuso per tutta la notte: questa era chiamata “crescente” e serviva a lievitare la successiva massa. Una piccola quantità di questo impasto veniva tenuta da parte e serviva per la lievitazione successiva.Inizialmente il pane era venduto a misura e aveva la forma di una grande semisfera. Vi era la forma del valore di un denaro; una forma più grande o doppia ed un’altra più piccola chiamata obolo. Successivamente il prezzo iniziò a essere dettato dal tipo di farina usata: indubbiamente il pane più costoso era il pane di frumento come il provenzale “pain de bouche”, chiaro e morbido, poi vi era il pane “medianus” ottenuto impastando frumento e cereali inferiori e infine il pane di bassa qualità prodotto interamente con granaglie di scarto .I pani più originali però erano quelli che venivano prodotti nei tempi di carestia, quelli che Camporesi chiama del “pane selvaggio” , in cui non si esitò a panificare anche con materie prime che non erano cereali: tra queste quella che ebbe più successo fu la castagna. Questa pianta di origine europea, diffusa soprattutto in Italia, Francia e Spagna, iniziò ad essere coltivata già dai tempi dell’Impero Romano e dopo un periodo di stasi, cominciò a diffondersi per la seconda volta dopo l’anno Mille . Il fenomeno della panificazione del castagno è stato di una portata tale che alcuni studiosi hanno coniato per questo frutto, l’espresssione “civiltà del castagno” .Questa “civiltà” è identificabile con le popolazioni dell’alta collina e della montagna, specie quelle comprese tra i 300 e i 1000 metri, visto che è questa la fascia di diffusione naturale del castagno.La raccolta delle castagne avveniva tramite “bacchiatura”, dopodiché o le si mangiava fresche, oppure si procedeva a essiccarle al fine di ricavarne della farina. Quest’operazione avveniva nel “seccatoio”, un edificio costruito nel bosco, che disponeva di un piano inferiore adibito a forno. La farina ricavata aveva la peculiarità di possedere più amido e zucchero rispetto alla semplice castagna consumata fresca, ed era in grado, perciò, di assicurare all’organismo una valida alternativa in caso di mancanza di altre sostanze alimentari. Dalla sua farina, oltre al pane, si poteva ricavare una polenta dal sapore dolciastro ed anche fare il “castagnaccio”, tipico dolce toscano che si trova ancora oggi.Un altro tipo di pane che, per le sue particolarità, merita considerazione è sicuramente quello ottenuto dall’orzo. Per lo scarso contenuto di glutine, la poca elasticità e quindi la sua difficoltà a lievitare, l’orzo non si prestava facilmente alla panificazione e il suo consumo era abbastanza raro . Vi si ricorreva esclusivamente nei momenti di cattivo raccolto, ma lo stesso non si può dire di molti anacoreti e filosofi, che lo consumavano proprio in virtù di quell’"aridità”, per cui era tanto inviso. In quanto capace, secondo la mentalità del tempo, di asciugare l’umore umido, questo tipo di pane diventò il cibo d’elezione di tutti quelli che, passando per la mortificazione del piacere fisico, cercavano il distacco dal mondo.

mercoledì 18 maggio 2011




Jack Cade, il cui vero nome forse era John Mortimer ,è stato un rivoluzionario irlandese.

Nel 1450 capeggia una insurrezione popolare, scoppiata nella contea del Kent in Inghilterra, sotto il regno di Enrico VI.



La situazione in Inghilterra prima della ribellione[modifica]Tra il 1435 e il 1450 - l'anno della ribellione di Cade - l'Inghilterra, impegnata nelle fasi finali della guerra dei cent'anni, subiva pesanti sconfitte, perdendo quasi tutte le province francesi.

Il corso negativo della guerra, l'incoronazione di Carlo VII nel 1429 in Notre-Dame di Reims e il disconoscimento della sovranità inglese sulla Francia, precedentemente sancita dal Trattato di Troyes, concretizzavano la prospettiva di una rinuncia definitiva delle aspirazioni inglesi in terra francese.

Nel 1446 scoppiava, inoltre, uno scandalo per la restituzione alla Francia di alcuni territori; un atto di cui il parlamento era stato tenuto all'oscuro. I territori del Maine e dell'Anjou, venivano segretamente ceduti dalla corona inglese, su richiesta di Carlo VII, per acconsentire al matrimonio di Enrico con sua figlia Margherita di Anjou.

La debole condotta del Re, schiacciato fra la corruzione e le tensioni montanti con la casata York che sarebbero sfociate nella guerra delle due rose, paralizzava la politica interna.

L'impopolarità di Enrico VI, conseguentemente, era all'apice.

Successione degli eventi[modifica]Nella primavera del 1450, i contadini del Kent protestano contro l'incapacità del governo reale, la tasse elevate, la corruzione e gli effetti negativi della perdita della Francia.

Il 4 giugno, Jack Cade, leader dei ribelli, pubblica The Complaint of the Poor Commons of Kent ("La protesta dei poveri popolani del Kent"), una lista di rimostranze contro il parlamento e l'aristocrazia della corte reale, accusati di manipolare le decisioni del debole sovrano. Nell'intestazione, infatti, vi si legge:

« ..Noi, riconoscendo il re come nostro signore e sovrano, e che insaziabili e maligni manipolatori circondano notte e giorno sua altezza, convincendolo, ogni giorno, che ciò che è buono è malvagio e ciò che è malvagio è buono:... »


Ai primi di giugno, ventimila ribelli si concentrano presso la città di Blackheath (ora Lewisham, sobborgo parte dell'area metropolitana londinese), a sud-est della capitale. Ai rivoltosi, in gran parte contadini, si unisce una parte della cittadinanza e, soprattutto, un buon numero di soldati e marinai inglesi di ritorno dalla Francia, raddoppiandone il numero.

Mentre il re cerca rifugio nella contea shire di Warwickshire, i quarantamila uomini, guidati da Jack Cade, raggiungono Southwark (che all'epoca non faceva parte ancora del nucleo cittadino) e, stabilito il quartier generale nella locanda The White Hart[1], il 3 luglio attraversano il London Bridge[2]. Il Lord Tesoriere (una delle più alte cariche dello stato) e diversi membri della corte reale, vengono arrestati e decapitati e la città, nonostante le promesse contrarie di Cade, viene messa al sacco dai ribelli, fino al sopraggiungere della notte, quando i rivoltosi fanno ritorno a Southwark. La notte del giorno seguente, i ribelli subiscono ingenti perdite in uno scontro con l'esercito regolare organizzatosi presso il London Bridge.

Conclusa la battaglia, il Lord Cancelliere, l'arcivescovo John Kemp[3], convince Cade a porre fine alla rivolta in cambio del perdono e la promessa che il governo ottempererà alle richieste del manifesto. La ribellione si conclude, i contadini si disperdono, ma la settimana successiva, Cade viene condannato come traditore e viene posta una taglia sulla sua testa. Catturato e ucciso, il corpo di Jack Cade viene trasportato a Londra e squartato per essere esposto come monito in diverse città. La sua testa, assieme a quelle degli altri capi della rivolta, viene esposta sul London Bridge. Dopo la sua morte, i ribelli sono perdonati, tranne 34 che vengono giustiziati.

Jack Cade e la rivolta da lui guidata figurano nel dramma teatrale Enrico VI, parte II di William Shakespeare. Un seguace di Cade, in una discussione con il capopopolo, pronuncia la celebre frase:

« E la prima cosa che faremo sarà uccidere tutti gli avvocati »
(William Shakespeare, Enrico VI, Atto Secondo)

lunedì 16 maggio 2011


Fina Ciardi
San Gimignano

Nata nel 1238 a San Gimignano dai Ciardi, nobili decaduti, nella casa ancora esistente nel vicolo che porta il suo nome, Fina (abbreviazione di Iosefina) a dieci anni fu colpita da una malattia che la paralizzò completamente. Già orfana di padre, Fina perse anche la madre e rimase in assoluta povertà, aiutata solo da un'amica di nome Beldia. Dopo cinque anni di indicibili sofferenze sopportate con serenità e devozione, Fina si spense il 12 marzo 1253, festa di San Gregorio Magno, di cui era devota e dal quale avrebbe avuto l'annuncio della morte. Secondo la leggenda, trascritta nel Trecento dal domenicano Giovanni del Coppo, al momento del suo trapasso le campane di San Gimignano suonarono a festa senza che mano alcuna toccasse le corde, e quando il suo corpo fu sollevato dall'asse di quercia che era stato il suo giaciglio, questo si coprì di fiori. Contemporaneamente, torri e mura si ornarono di migliaia di viole gialle, e ancor oggi questa fioritura si ripete ogni anno, per quanto rigido sia l'inverno. Il culto della Santa fu molto vivo fin dagli inizi, tanto che grazie alle offerte lasciate sul suo sepolcro già nel 1258 si poté costruire uno spedale. Nel 1457 il Consiglio del Popolo deliberò la costruzione di una magnifica cappella nella collegiata, realizzata da Giuliano da Maiano e ornata di sculture di Benedetto da Maiano ed affreschi del Ghirlandaio. La città volle la piccola Fina come propria protettrice al fianco del patrono ufficiale, Geminiano, e a lei ricorse nella calamità con fiducia e devozione. Le feste annuali in suo onore sono due. La prima cade il 12 marzo - anniversario della sua dipartita; la seconda si celebra la prima domenica d'agosto, per ricordare che nel 1479 Fina salvò la città dalla peste e dalla guerra.

domenica 15 maggio 2011





Emily Dickinson
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Emily Dickinson nasce il 10 dicembre 1830 ad Amherst (Massachussetts), in un piccolo centro di religione e cultura puritana, da Edward, celebre avvocato destinato a diventare deputato del Congresso, ed Emily Narcross, donna dalla personalità piuttosto debole. È la seconda di tre figli. Austin è il fratello maggiore, Lavinia la sorella minore: a entrambi sarà sempre legata da un grande affetto. Dal 1840 al 1947 frequenta la Amherst Academy e successivamente si iscrive alle scuole superiori di South Hadley, da cui viene ritirata dal padre dopo un anno. Manifesta intanto un carattere fiero e indipendente. A casa continua i propri studi da autodidatta, orientata nelle letture anche da un assistente del padre, Benjamin Newton, con il quale resterà in seguito in corrispondenza. Scrivere lettere sarà un'attività fondamentale per la poetessa, un modo intimo per entrare in contatto coni l mondo: non a caso molte delle sue poesie verranno allegate ad esse. Nel 1850 scrive alcune "valentine" per gli amici. Nel 1852 conosce Susan Gilbert, con la quale stringe un forte legame, testimoniato da importanti lettere. Nel corso degli anni successivi compie qualche raro viaggio. Incontra il reverendo Charles Wadsworth, un uomo sposato, del quale (a quanto pare) si innamorerà vanamente. Nel 1857 conosce lo scrittore-filosofo trascendalista Ralph W. Emerson, ospite di Austin e Susan, sposi da pochi mesi.La poetessa entra in amicizia con Samuel Bowles, direttore dello Springfiel Daily Republican giornale su cui appariranno (a partire dal 1861) alcune sue poesie. Conosce anche Kate Anton Scott. Sia con Bowles sia con quest'ultima stabilisce un profonod rapporto anche epistolare. La casa dei Dickinson è praticamente il centro della vita culturale del piccolo paese, dunque uno stimolo continuo all'intelligenza della poetessa, che in questo periodo incomincia a raccogliere segretamente i prpri versi in fascicoletti. Nel 1860 è l'anno del futore poetico (365 liriche) e sentimentale. Il suo amore (probabilmente per Bowles) rimane però senza sbocco. Nello stesso anno avvia una corrispondenza con il colonnello-scrittore Thomas W. Higginson, a cui si affida per un giudizio letterario: egli rimarrà impressionato dall'eccezionalità dello spirito, dell'intelligenza e del genio della poetessa, pur ritenendo "impubblicabili" le sue opere. D'altronde ella non intende nè ha mai inteso dare alle stampe i propri versi. Tra il 1864 e il 1865 Emily trascorre alcuni mesi a Cambridge, Massachusetts ospite delle cugine Norcross, per curare una malattia agli occhi. Va maturando la decisione di autorecludersi, e diminuisce i contatti umani e superficiali. Mantiene viva la corrispondenza con amici ed estimatori, divenendo sempre più esigente e cercando, a un tempo, intensità ed essenzialità. Intanto continua a scrivere poesie. La sua produzione, pur non raggiungendo la quantità del 1862, rimane cospicua. Nel 1870 riceve la prima visita, molto attesa, di Higginson, che tornerà a trovarla nel 1873. Incomincia un periodo durissimo per Emily, ormai da anni "reclusa" in casa propria. Muore il padre (1874). La madre si ammala gravemente (1875). Muore Bowles (1878). Nello stesso anno ella si innamora di Otis Lord, un anziano giudice, vedovo, amico del padre, e a quanto pare, l'amore è ricambiato (ma sulla qualità del rapporto con lui non sappiamo quasi nulla). Intanto può anche godere dell'ammirazione della scrittrice Helen Hunt Jackson. Nel 1881 i coniugi Todd si trasferiscono ad Amherst: Mabel Todd diventerà l'amante di Austin, creando dissidi nella famiglia Dickinson. La catena delle tragedie riprende: muoiono la madre a Wadsworth (1882), l'amatissimo nipotino Gilbert (1883), il giudice Lord (1884). Emily è prostrata. Nel 1885 si ammala, e il 15 maggio 1886 muore nella casa di Amherst. La sorella Vinnie scopre i versi nascosti e incarica Mabel Todd di provvedere alla loro pubblicazione, che sarà sempre parziale fino all'edizione critica completa (1955) curata da Thomas H. Johnson, comprendente 1775 poesie.



La "sete", nei confronti delle persone che più ama, caratterizza la sua vita alla ricerca continua di un affetto che cerca di strappare soprattutto ai suoi migliori amici e alle più care amiche, confidandosi con loro attraverso lettere colme di struggenti riflessioni sulla vita, sull'amicizia, sull'amore... sulla morte.
"Dove sei, amica mia antica, o amica mia carissima e giovane - come preferisci tu - il rivolgermi a te potrebbe di per sé sembrare presunzione, dal momento che non so se dimori qui, né, se sei volata via, in quale mondo "il mio uccello" abbia ripiegato l'ala. Quando penso agli amici che amo e al poco tempo che abbiamo da stare qui, quando penso che poi "ce ne andiamo", provo una sensazione di sete, un desiderio forte, un'ansia impaziente per paura che mi vengano rubati, per paura di non poterli più guardare. Vorrei averti qui, vorrei avervi tutti qui, dove posso vedervi, dove posso sentirvi e dove ho la possibilità di dire "No" se il "Figlio dell'Uomo" mai "verrà"!"
Al momento della sua morte erano state pubblicate solo 10 sue poesie, ma i circa 1800 componimenti poetici furon prova della vastità del suo lavoro, riconosciuto ora dal mondo intero. Emily è una dei poeti più sensibili e rappresentativi di tutti i tempi. Quanto ritenuto all'epoca 'stranezze', è considerato ora aspetto inconfondibile del suo stile: digressioni enfatiche, uso delle maiuscole, lineette telegrafiche, ritmi salmodianti, rime asimmetriche, voci multiple e elaborate metafore sono marchi di riconoscimento per i lettori.
Emily Dickinson morì di nefrite nello stesso posto dove era nata, ad Amherst, nel Massachusetts.

mercoledì 11 maggio 2011


La Battaglia di Stirling Bridge e cosa portò ad essa.

Prologo

La situazione che portò al confronto fra i leali Scozzesi comandati da Sir William Wallace contro il potente esercito Anglo-Normanno delle Forze Inglesi del Nord di Edoardo I a Stirling Bridge è leggermente complessa.
Dopo un prospero e relativamente pacifico regno sotto il re Alessandro III la Scozia stava assaporando un successo economico e un certo grado di pace con il suoi vicino del sud, l'Inghilterra. Con la tragica morte di Alessandro nel 1286 D.C., tutti i vecchi problemi, insieme a dei nuovi ritornarono a galla, portando a quella che è adesso chiamata la "Prima guerra di Indipendenza Scozzese".

Scozia, 1286 D.C.

Edoardo I di Inghilterra aveva appena completato la prima fase della sua conquista del Galles sconfiggendo le forze del Principe Llerwelyn ap Gruffyd. Edoardo, nonostante tutte le sue disonorevoli caratteristiche, fu uno dei più potenti e vigorosi regnanti Inglesi, particolarmente riguardo alle campagnie militare. A quel tempo, l'Inghilterra Anglo-Normanna disponeva dell'esercito più potente e meglio armato ed equipaggiato di tutta l'Europa. Edoardo diede prova che le sue tattiche militari in battaglie in Galles, Inghilterra e Francia, sebbene crudeli e spietatate, erano molto efficaci. Era quindi un nemico temibile. Fu la sfortuna Gallese la scelta di combattere contro uno dei più potenti Re Inglesi.

Come altri Re medioevali, Edoardo aveva le sue gatte da pelare in Francia, ma durante il suo regno questi passarono in second'ordine dalla sua determinazione di accrescere l'influenza Inglese in Britannia. Questa focalizzazione di interessi, unita alla sua grande esperienza militari fu micidiale per i regni Celtici dell'isola, in quanto, dopo il Galles, Edoardo pose le sue mire sulla Scozia. Nel 1286, nonostante il parere contrario dei suoi consiglieri, Alessandro III, re di Scozia, si avventurò in una passeggiata notturna per Kinghorn per vedere la sua nuova, giovane moglie. "Ne tempeste ne inondazioni ne scogliere rocciose potevano fermarlo dal visitare matrone, vergini e vedove, di giorno o di di notte, quando si incapricciava di qualcuna", disse un contemporaneo. Sembra però che quella notte, Alessandro fosse intento a recarsi dalla sua giovane moglie. Costui, nelle scure ed erte montagne, precipitò da una scogliera e venne trovato con il collo fratturato.
Gli eredi di Alessandro, sua moglie e sua figlia erano morti prima di lui, e nessun erede diretto era disponibile per riempire il vacante trono di Scozia. Invece di un legittimo sovrano, ora in Scozia regnavano caos e confusione.

L'unico erede diretto di Alessandro era sua nipote, Margherita, una bambina infante conosciuta come la "Vergine di Norvegia", la figlia di Re Eric di Norvegia e la figlia di Alessandro, che si chiamava anche essa Margherita . L'intempestiva morte di Alessandro non avrebbe potuto venire in un momento peggiore per la Scozia. Segnò la fine di un periodo di pace e prosperità durante il quale i confini del regno, sempre un'affare spinoso, erano stati definiti e le varie tribù di Celti, Sassoni e Normanni dei bassopiani (Lowlands) stavano cominciando a fondersi, finalmente identificandosi in una riconoscibile nazione. Gli altopiani (Highlands) e le isole continuavano ad essere terre di poplazioni Celtiche e Norvegesi, ma i bassopiani da dove i Re Scozzesi governavano, erano un miscuglio di gruppi etnici ed il Gaelico erano divenuto una lingua secondaria rispetto all'Inglese e, in qualche posto, il Francese Normanno ed il Latino prevalevano ancora.

Edoardo si intromette nella situazione politica

Edoardo abilmente cercò di combinare un matrimonio lampo tra suo figlo, il Principe di Galles e la piccola Margherita, la "Vergine di Norvegia". Con quello che può essere definito, ad essere buoni, pessimo giudizio da parte della nobiltà Scozzese, l'accordo di matrimonio tra Edoardo di Caernavon e la giovane Margherita venne siglato in un trattato, chiamato il Trattato di Birgham.

Tuttavia il fato assestò un altro crudele colpo alla Scozia quando la piccola Margherita si ammalò nel viaggio tra la Norvegia e la Scozia e mori di febbe alle Isole Orcadi. Ora il trono ed il futuro della Scozia erano nelle mani di 13 pretendenti alla corona. Su richiesta del Vescovo, di sangue Normanno, di Scozia Fraser, una lettere venne spedita urgentemente ad Edoardo con la richiesta di farsi arbitro della sempre più volatile situazione Scozzese. Ansioso di utilizzare questa nuova opportunità per unire l'intera isola di Bretannia, Edoardo prontamente acconsentì ad arbitrare con la speranza di portare tutta la Scozia sotto il suo controllo.

Riconoscendone la sua superiorita' feudale e militare, gli Scozzesi permisero ad Edoardo di decidere chi avrebbe regnato in Scozia. I maggiori pretendenti erano Giovanni (John) Balliol e Roberto Bruce (Robert the Bruce) il vecchio. Entrambi questi signori erano discendenti di cavalieri di Guglielmo il Conquistatore. A quel tempo, la Scozia, specialmente i bassopiani, erano dominati dai possidenti Anglo-Normanni, che governavano tenute lungo tutto il reame. Vi era da tenere in considerazione anche Sir "Rosso" Giovanni (John) Comyn. John Balliol aveva vasti possedimenti in Francia; Roberto Bruce il giovane, duca (earl) di Carrick, possedeva terreni in Essex. Questa conquista della celtica Scozia era stata ottenuta mediante affari di corte (Malcom III Canmores (grossa testa), incoronato nel 1057 dopo aver sconfitto MacBeth e Davide I), matrimoni ed accordi pacifici. Nel Nord vi erano ancora molti possidenti Scozzesi e capiclan con discendenze dirette Celtiche o Celtico/Norvegese, ma le decisioni importanti erano in mano ai condottieri di Normanni o almeno parzialmente Normanni. Qualcuno afferma che la seguente guerra Anglo-Scozzese fu quindi più una lotta di potere fra dinastie Anglo-Normanne che una guerra intenzionale di Scozzesi contro Inglesi, come era forse più vero in Galles ed Irlanda. E' però parere più comune che sia stato una misto di queste ragioni. Certamente nei bassopiani questo era vero, ma negli altopiani Scozzesi, senza menzionare le ferocemente indipendentiste Isole, la gente Celtica e Celtico/Norvegese non era comandata dai Normanni.Quindi il confronto era : uno scontro fra dinastie Normanne ed una guerra fra i Celti e gli Inglesi, per l'indipendenza della Scozia. Ricordiamoci che la gente comune di tutta la Scozia, la piccola nobiltà e i capiclan, erano Celti e parlavano ancora il Gaelico. Furono queste persone, aderendo alla causa dei loro padroni Scozzesi Normanni, che possono averla immaginato la loro battaglia contro gli Inglesi invasori come una lotta nazionale o Celtica per l'indipendenza. Come poi si vide, avevano molte ragioni.

Edoardo voleva dominare la Scozia. Se non poteva diventarne il re, allora avrebbe scelto il contendente più malleabile. Scelse Giovanni Balliol, (sebbene secondo il costume Celtico -- Roberto Bruce avesse maggiori diritti). Il vecchio Roberto Bruce passò le redini della famiglia a suo figlio, duca di Carrick, Roberto Bruce il giovane. Bruce rifiutò di rendere omaggio al nuovo re. Stanco dell'umiliante ruolo di facciata per le ambizioni di Edoardo, Re Giovanni Balliol rinunciò all'alleanza con il Re Inglese e rinnovò la Vecchia Alleanza con la Francia, aprendo la strada alla guerra con l'Inghilterra. Roberto Bruce rifiutò la chiamata alle armi per svariate ragioni. A quel tempo, leale a Edoardo, sembrò ora che Balliol potesse ora spostarsi in favore delle pretese di Bruce. Vi era molta politica da parte dei Bruce e le indecisioni che sembravano indebolirlo, erano invece un piano molto ben congegnato per eventualmente sedere sul trono di Scozia.
Balliol era un quarantenne, non molto intelligente e di poca volontà. Edoardo lo trattò in modo brutale, utilizzandolo soltanto come un pupazzo per eseguire le politiche Inglesi in Scozia. In ultimo, stanco di tutte queste umiliazioni, Balliol rinunciò al suo giuramento di alleanza e si oppose ad Edoardo. Il re Inglese, duramente impegnato in una guerra con la Francia in Guascognia e con un'altra ribellione Gallese, si lanciò a Nord per sbrigarsela con Balliol ed i suoi seguaci.

Sebbene in guerra con Francia e Galles, Re Edoardo cavalcò verso Nord con un'armata di cavalieri Inglesi ed arcieri Gallesi. Qualcuno potrebbe pensare di fare commenti sul fatto che i Gallesi formassero un gran parte dell'armata di Edoardo così presto dopo la loro sconfitta per sua mano. Ma gli sconfitti erano la nobiltà Celtica Gallese, mentre il comune Gallese era felice di combattere per soldi e cibo, data la carestia, per chiunque. Il cronista Francese Froissart, per esempio, menziona un Owain di Galles che offri i suoi servizi al Re Francese durante la guerra dei Cento Anni.
L'armata inglese arrivò fuori la città di Berwick alla fine del Marzo 1296 per trovare i cittadini ed il castello preparati per un lungo assedio. Gli abitanti erano talmente fiduciosi che schernirono l'esercito Inglese sul campo di battaglia. Ma le veterane truppe Inglesi, ora inferocite, e spronate dal loro re, catturarono la città vicina in pochi sanguinosi minuti e poi passarono il resto della giornata ad ucciderne i cittadini, uomini, donne e bambini, eseguendo gli ordini diretti di Edoardo I "Martello degli Scozzesi". Si racconta che venne uccisa talmente tanta gente che alle mura della città non si poterono toglierne le macchie di sangue per decenni, come un marchio.

Vedendo lo spaventoso risultato di un'ulteriore resistenza ad Edoardo, il castello abbassò il ponte e si arrese ad Edoardo. Ma la sete di sangue di Edoardo non si era ancora placata. Con Berwick nelle sue mani, mandò il suo luogotenente più anziano, Giovanni (John) de Warrenne, a prendere Dunbar. Il distaccamento di de Warrenne consisteva della migliore cavalleria, diversi ariceri Gallesi ed una buona forza di fanteria reclutata nel Nord. Arrivando a Dunbar il 29 Aprile 1296, de Warrenne trovò anche lui il castello preparato per un lungo assedio, e l'armata principale Scozzese al di fuori delle sue mura, in un luogo chiamato Spottsmuir. Era comandata da Giovanni "Rosso" Comyn, duca di Buchan. De Warrenne ignorò il castello e diede battaglia all'armata Scozzese. Gli Scozzesi, coraggiosi ma indisciplinati (e questa sarà una costante), ruppero le fila e si lanciarono contro le truppe Inglesi, solo per essere bersagliati da centinaia di freccie Gallesi. Disorientati e confusi, vennero letteralmente travolti dalla cavalleria di de Warrenne, che schiantò gli Scozzesi uccidendone perfino i pochi sopravissuti con lance, spade, asce e mazze. De Warrenne mise in rotta l'armata Scozzese che perse più di diecimila uomini, molti dei quali feriti lasciati morire sul campo.

Il risultato fu una totale vittoria inglese e la perdita di uomini, donne, bambini e dell'orgoglio Scozzese. Fra i pochi scampati, Giovanni "Rosso" Comyn, tre altri duchi Scozzesi ed più di un centinaio dei più importanti seguaci di Comyn vennero catturati. Edoardo fece seguire la sua vittoria a Dunbar da una marcia trionfante attraverso la Scozia, portando le sue armate più avanti di ogni precedente regnante di Britannia dal tempo dei Romani.

La caduta di Balliol, la Scozia sotto la dominazione Inglese

In parata trionfante attraverso la Scozia, Edoardo domandò l'abdicazione di Balliol. a Montrose in due Re si confrontarono l'un l'altro. Di fronte alle corti sia Inglese che Scozzese, lo stemma di Balliol gli venne strappato e lanciato per terra. La sua umiliazione fu totale. Ma l'arroganza di Edoardo non aveva ancora raggiunto il culmine. Mediante la paura, ricevette omaggi dai magnati Scozzesi. A Perth, comandò che la Sacra Pietra di Scone -- sulla quale generazioni di Re Scozzesi erano stati incoronati -- venisse rimossa e portata all'Abbazia di Westminster. Ignorando le pretese di Bruce, Edoardo designò un vicere Inglese sugli Scozzesi. La Scozia sembrava ora divenuta parte dell'Impero Inglese.
Come Edoardo ritornò oltre il confine, un cronista registrò il suo pesante commento sulla Scozia:
"E' un buon lavoro per un uomo, levarsi (di torno) questa merda (Scozia)."

Un eroe emerge dalla Scozia

Questa era ben lungi da essere la fine del conflitto fra i due paesi, però. Nella primavera del 1297, l'intera Scozia, con la possibile eccezione del Lothian (da tempo un'area Anglo-Sassone) era in piena insurrezoine armata. A Lanark tutta la guarnigione di truppe Inglesi venne massacrata da truppe leali a colui descritto come un gigantesco uomo chiamato William Wallace, figlio di un cavaliere piccolo possidente locale di Ellersie, vicino Paisley. Costui divenne rapidamente un simbolo della resistenza Scozzese all'occupazione Inglese della Scozia. Ma chi era questo William Wallace?

William Wallace - un breve ritratto dell'uomo

Riprendendosi dalla guerra-lampo di Edoardo, alcuni condottieri Scozzesi cominciarono a riconquistare la loro dignità. Fra costoro vi era il condottiero di lingua gaelica William Wallace. Su costui non è che si conosca realmente molto.

Un uomo di basso o minore status e chiamato da alcuni un fuorilegge o bandito, può essere che Wallace sia stato usato dai maggiori aristocratici Scozzesi come copertura per la loro ribellione, in modo da non rompere il loro giuramento di fedeltà ad Edoardo. Nei "Lanercost Chronicle", (una cronaca dell'Inghilterra del Nord), William Wallace viene chiamato "Willelmus Wallensis" -- William il Gallese -- forse riferendosi alla sua lingua Celtica o più probabilmente alla sua discendenza dai Bretoni di Strathclyde, (un popolo Celtico fortemente imparentato con i Gallesi). Tormentato dagli esattori Inglesi e nascosto nella foresta di Selkirk, Wallace radunò attorno a se una banda di ladri e combattenti (chiamati fuorilegge da alcune fonti Inglesi). Secondo la leggenda, una sera fece un tentativo di vedere la sua compagna (moglie o amante). Sorpreso da una pattuglia Inglese, si rifugiò in casa della donna sparendo dalla porta posteriore. Frustrati dalla fuga, gli Inglesi appiccarono fuoco alla casa ed uccisero la donna assieme alla sua famiglia. Il grande ed infuriato Scozzese giurò vendetta. E dovette attendere poco. Lui e la sua banda catturarono la pattuglia Inglese colpevole quella notte e li tagliarono a pezzi.

Questo colpo contro gli Inglesi incoraggiò diversi aristocratici Scozzesi ad alzare i loro vessilli per ribellarsi. Fra di loro vi era Sir William Douglas, il precedente comandante di Berwick e testimone dell'uccisione della popolazione per ordine di Edoardo I. Inoltre vi era James Stewart, un grosso possidente Scozzese. E forse il più importante, e molto spesso sorvegliato, era Sir Andrew de Moray (più tardi chiamato Murray), che era all'altro capo della Scozia costruendo forze contro gli Inglesi come stava facendo Wallace.

Che de Moray, un piccolo nobile, e Wallace si incontrassero e divenissero buoni amici ed alleati era inevitabile. Cosi accadde, Wallace e Moray divennero ottimi amici e lavorarono all'unisono particolarmente bene.

Re Edoardo I di Inghilterra, "Longshanks" o "Martello degli Scozzesi", sperò di sedare l'insurrezione con i suoi alleati Scozzesi e mandò Roberto Bruce dalla sua base a Carlisle a catturare Castello Douglas. Ma Roberto non era troppo sicuro della giustezza di questi ordini. Sua madre era celtica ed i suoi profondi sentimenti per la nazione Scozzese (qualcosa che gli viene raramente attribuito), scorrevano contrari alle amicizie politiche familiari.
Inoltre, i Bruce erano stati precedentemente usati con la promessa, sempre poi disattesa, del trono. Al castello di Douglas, Roberto Bruce prese la sua suprema decisione, che avrebbe mostrato più avanti nel corso della sua vita. Non avrebbe combattuto i suoi compatrioti, non contro di loro.

Nel frattempo, di Wallace si diceva che avesse combattuto in nome del deposto re "Toom Tabard" (stemma vuoto), John Balliol, sebbene diverse fonti dicano diversamente -- che nei fatti Wallace combattè unicamente per la Scozia ed invocò il nome di Balliol solo per aver aiuto ed assistenza da alcuni nobili. Se Wallace a quel tempo combattesse oppure no per riportare Toom Tabard al trono è dubbio, visto che non vi sono prove decisive pro o contro.

William Wallace era un leader nato. Dei pochi fatti certi che abbiamo di Wallace, è assolutamente sicuro che ispirò e guidò i suoi uomini con efficenza, talvolta barbaramente, in una guerriglia contro gli Inglesi alimentato dalla sua voglia di vendetta e dal suo amore per la Scozia. Divenne rapidamente il capo di un'armata leale che attraversò lunghe distanze dei terreni impervi, prendendo di sorpresa avamposti Inglesi. Per terrorizzare il nemico, Wallace prese come principio di uccidere ogni Inglese con cui avesse discusso, e le sue continue intimidazioni ed a volte brutali vessazioni della popolazione civile locale (quella leale agli Inglesi), rese impossibile al tesoriere Inglese incaricato della Scozia (High Justicar), Sir Hugh de Cressingham, la raccolta delle tasse.

Il Duca di Surrey e Sussex, nominato da Edoardo I reggente di Scozia, John de Warrenne, era in Inghilterra quando arrivarono gli ordini da Edoardo di sedare la ribellione Scozzese. Re Edoardo si stava imbarcando, ancora, per la Francia (Fiandre) per incontrare il Re di Francia, Filippo il Bello, riguardo territori disputati. Edoardo supponeva che le sue forze del nord al comando di de Warrenne e di de Cressingham avrebbero facilmente socnfitto i rivoltosi. Un calcolo completamente errato.

Quando l'armata Inglese di cavalleria pesante, arceri Gallesi, armigeri e fanteria arrivò a Castello Stiling nel settembre 1297, Wallace abbe notizia del loro imminente arrivo e marciò rapidamente per intercettarli. Sugli argini del fiume Forth, le truppe Inglesi furono in vista degli uomini di Wallace.

La Battaglia di Stirling Bridge inizia

Fra le varie vittorie di Wallace, quella di Stirling Bridge, l'11 Settembre 1297 svetta. Edoardo I, impegnato con le politiche continentali, diede a John de Warrenne, Duca di Surray e Sussex e Hugh de Cressingham, pieni poteri per reprimere totalmente qualsiasi resistenza; per questo scopo un'armata di 50.000 (supposti, ma molto più probabilmente 15-20.000) e un gran numero di cavalli, marciò attraverso i bassopiano del Sud in cerca di Wallace, che stava allora assediando Dundee con tutti gli uomini che aveva potuto radunare -- 10.000 in tutto. Costui abbandonò Dundee, passò il Tay e marciò per disputare il passaggio del fiume Forth, passaggio obbligato dell'armata Inglese per raggiungere le parti settentrionali del regno.

Wallace posizionò i suoi uomini sulle colline attorno ad un ponte sul Forth, a nord di Stirling. Non tutti gli Scozzesi erano fiduciosi sullo scontro. James Stewart si recò dal condottiero Inglese con un'offerta di pace. De Warrenne rifiutò ed i suoi cavalieri iniziarono ad avvicinarsi allo stretto ponte. Il ponte lungo il Forth vicino Stirling era allora di tronchi, ed era a Kildean, mezzo miglio oltre il ponte antico visibile oggi. Veniva descritto come talmente stretto che solo due persone potessero passare di fianco, eppure i capi Inglesi proposero di far passare 20.000 (numero alquanto incerto) persone, non contando i cavalli e le masserizie, col nemico di fronte. Waler de Hemingferd, canonico (Canon) di Guisborough nello Yorkshire racconta che un traditore Scozzese al soldo degli Inglesi si oppose strenuamente a questa decisione, ed indicò un guado a breve distanza dove sessanta uomini avrebero potuto passare fianco a fianco il fiume; ma non venne dato credito al suo suggerimento.

Nonostante le sue forze superiori, Surrey non era per nulla ansioso di incontrare Wallace, i cui precenti successi gli avevano fatto guadagnare una formidabile reputazione.

Cercando di temporeggiare, mandò due frati domenicani a Wallace, le cui forze si erano accampate vicino l'abbazia di Cambuskenneth, sulla collina conosciuta come Abbey Craig; cosi entrambe le armate potevano vedersi perfettamente l'un l'altra, e separate solo da un fiume, attorno a campi verdi e fertili. La richiesta dei frati fu breve -- Wallace ed i suoi seguaci dovevano gettare le armi ed arrendersi.

"Tornate da li amici vostri", disse Wallace, "e dite loro che siamo qui senza intenti pacifici, ma pronti per la battaglia, determinati a vendicare i nostri torti e liberare il nostro paese. Che li signori vostri venghino e ci attacchino; siamo pronti per incontrarli faccia a faccia."

Infuriati da questa replica, molti cavalieri Inglesi ora chiedevano a gran voce l'attacco. Questo era esattamente quello che Wallace e de Moray volevano ... fare in modo che l'esercito Inglese attraversasse lo stretto ponte. E' ricordato dai cronisti Inglesi che in questo momento, il traditore Scozzese, il Duca di Lennox, disse al Duca Surrey, "Datemi soltanto cinquecento cavalli ed un poco di fanteria, e potrò aggirare il fianco del nemico dal guado, mentre voi, mio signore Duca, potrete passare il ponte in tranquillità."

L'attraversamento del Ponte

Surrey era esitante, quando il grottescamente grasso Hugh de Cressingham, esattore delle tasse Scozzesi per Edoardo disse, "perché dobbiamo protrarre la guerra e sprecare il regal tesoro? Combattiamo, è nostro preciso dovere." Surray, contrariarmente al buon senso, acconsentì, ed all'alba del giorno le forze Inglesi cominciarono a passare il ponte; Wallace udii i preparativi con gioia.

Quando metà degli Inglesi attraversarono, Wallace avanzò, avendo precedentemente mandato un forte distaccamento a presidiare il guado già citato. Nel momento in cui gli Scozzesi cominciarono a muoversi, Sir Marmaduke Twenge, un cavaliere appartenente ai North Riding di Yorkshire, che, insieme a de Cressingham, guidava l'avanguardia di cavalleria, innalzò lo stendardo reale fra le urla di "Per Dio e San Giorgio d'Inghilterra!" ed alla testa della sua cavalleria pesante lanciò una furiosa carica sul pendio alla fanteria Scozzese, mentre gli arcieri di quest'ultima bersagliavano rapidamente e in sicurezza da dietro, causando l'oscillazione e l'indietreggiamento delle forze Inglesi.

La battaglia mise alla prova gli Scozzesi, quelli di Wallace fecero una carica lungo la collina verso il ponte; nel frattempo un movimento magistrale venne eseguito da Sir Andrew de Moray, che con le sue truppe si infiltrò fra coloro che avevano già passato il ponte, tagliandone ogni via di ritirata. La confusione si diffuse fra gli Inglesi, e la disciplina svani. Wallace, appena visto il movimento, pressò con forza maggiore. Le colonne mezze-formate degli Inglesi sull'argine Nord del fiume cedettero, e molti dei cavalieri pesantemente armati caddero nel fiume ed annegarono.

Surrey, cercò di capovolgere le sorti della battaglia mandando oltre il fiume, in un momento nel quale il ponte era libero, un forte rinforzo con il suo stendardo; ma, incapaci di mantenere la formazione fra la porpia fanteria in ritirata, aggiunsero solo confusione e massacro, venendo assalite da ogni lato da lancieri Scozzesi (probabilmente schiltrons).

Gli schiltrons, secondo molti storici vennero usati per la prima volta con successo a Falkirk, non a Stirling. Ma è probabile che queste unità, inesperte come furono sempre, fossero già esistenti contro lo schiacciante numero di cavalieri e guerrieri a cavallo Inglesi. Accreditato dell'invenzione di questa formazione è lo stesso William Wallace.

Nel momento in cui i rinforzi di Surrey erano sul ponte, questo si sfasciò e cadde nel Forth sotto il peso delle truppe e della tensione della battaglia. Questo collasso, di cui esistono svariate versioni, fu una catastrofe per gli Inglesi, insieme con il passaggio del fiume di un corpo di Scozzesi dal guado, quando apparverò alle spalle del nemico, decidendo la vittoria per gli Scozzesi. Un gran numero di Inglesi annegò tentando di attraversare il fiume.

I baroni Scozzesi traditori che servivano nelle file di Surrey -- uno dei quali era il Duca di Lennox -- ora gettarono la maschera, e, con i loro seguaci, si unirono all'inseguimento, quando il combattimento divenne, come di norma in quei giorni, una scena di barbaro massacro. Era normale per l'esercito vincitore tentare di disarcionare quanti più nemici in ritirata possibile e passarli a fil di spada. Quello che spesso pensiamo come una guerra "cavalleresca" era in realtà uno dei più brutali e sanguinari modi di combattere corpo a corpo mai praticati dagli uomini di ogni era.

Surrey, dopo aver tentativo finale di riprendere il controllo dei suoi soldati battuti nel Torwood, ancora assalito da Wallace, si ritirò a Berwick e da qui mandò al suo padrone le notizie sulla sua umiliante disfatta.

Dopo la battaglia

Diverse fonti affermano che William Wallace cenò quella sera in una grande festa di vittoria con i suoi compagni nel castello di Stirling. Tutti tranne uno -- Sir Andrew de Moray, il più abile alleato ed amico di Wallace, venne mortalmente colpito e non si riprese mai dalle ferite ricevute nella battaglia. Morì di infezione in un letto alcune settimane dopo e Wallace fu solo nella difesa del regno di Scozia. Altre fonti affermano che venne fatto cavaliere da Roberto Bruce, nella foresta di Selkirk, e nominato "Guardiano del Regno di Scozia", una carica che tenne con onore, fedeltà e dignità.

Come risultato di questa battaglia gli Inglesi vennero cacciati dalla Scozia, tranne per Roxburgh e Berwick, nei cui castelli due forti guarnigioni Inglesi mantennero una caparbia resistenza, fino a quando vennero rimpiazzate da Surrey nel Gennaio 1298.

martedì 10 maggio 2011


Quindici fichi secchi
Una delle più curiose (e divertenti) classificazioni degli anacoreti è quella che ci offre Teodoreto, vescovo di Cirro (vicino ad Aleppo) dal 423, nella sua Storia di monaci siri. È quasi inevitabile che a occhi moderni questi campioni di ascetismo del monachesimo primitivo sembrino delle macchiette, impegnati come sono in una specie di olimpiade della mortificazione. Tuttavia, è altrettanto inevitabile una strana fascinazione per questo rivolgere contro se stessi il disgusto del mondo (di un mondo concreto, di una società), e provare un brivido di fronte a questa feroce disciplina, a questo spietato masochismo ante litteram, per quanto probabilmente amplificati dall’apologetica. E colpisce come il «bersaglio», l’ossessione radicale, di questi individui, siano proprio quegli impulsi e bisogni che caratterizzano l’(animale) uomo.

Come nella coppia di opposti rappresentata dagli «ipetri» e dai «reclusi», che estremizzano il tema del riparo, della casa. I primi infatti scelgono di vivere all’aperto, sempre, con qualsiasi condizione climatica – come il «grande Giacomo» che, incurante di una forte nevicata durata tre giorni, «ne fu sepolto a tal punto che non si vedeva neppure un piccolo brandello dei cenci che lo ricoprivano» (e fu salvato soltanto da un gruppetto di spalatori); o come il «grande Eusebio» che, «giunto a vecchiaia così avanzata da aver perduto la maggior parte dei denti, non mutò né il nutrimento né la dimora; ma, gelato d’inverno e bruciato d’estate, sopportò con fermezza le avverse condizioni dell’aria e […] logorò il suo corpo con molte fatiche, tanto che la cintura non gli restava ai fianchi, ma gli cadeva a terra». I reclusi, da parte loro, se la prendono con la più normale delle «boccate d’aria» e, visto che tanto lì dobbiamo finire, si portano avanti e si seppelliscono vivi, come il «meraviglioso Zenone» che, da corriere imperiale qual era, si precipitò «in una tomba (la regione di Antiochia ne ha molte) e visse da solo per purificare la sua anima e tenerne costantemente terso lo sguardo. […] Perciò non ebbe un letto, né una lucerna, né un focolare, né una pentola, né un’ampolla, né una cassetta, né un libro, né alcuna altra cosa».

Oppure come nella coppia di simili rappresentata dagli «stiliti» e dagli «stazionari», che sopprimono il bisogno di muoversi. E se i famosi stiliti si piazzano su una colonna, per essere più vicini al Signore, gli stazionari scelgono la costante immobilità (magari con l’aggravio di qualche catena di ferro) – come il «meraviglioso Abramo, che domò il suo corpo con veglie, con lo stare in piedi e con digiuni tali che per moltissimo tempo rimase come immobile, non potendo affatto camminare».

Come si vede, la lotta contro il sonno e il cibo è data quasi per scontata. E a proposito di quest’ultimo si può trovare anche qualche indicazione concreta su cosa effettivamente mangiassero questi anacoreti per non morire di fame: «lattughe, cicorie, prezzemolo e altre erbe siffatte», «quindici fichi secchi» per sette settimane, «ceci e fave bagnate con acqua», «una libbra di pane [300 g ca.] divisa in quattro parti e distribuita in quattro giorni», ecc. Una dieta, tra l’altro, che procurava un sacco di problemi intestinali, anche gravi, il cui «sollievo» cozzava ad esempio con l’imperativo di non muoversi mai…

Questi uomini e queste donne («ritengo utile ricordare che anche le donne hanno lottato non meno, anzi di più»), ci ricorda Teodoreto, «indussero il corpo a far pace con l’anima», furono campioni nella lotta contro il demonio, chiudendo gli occhi, le orecchie e la bocca, negando la fame e la «dolce tirannide del sonno (e in quel dolce Teodoreto si tradisce…), abolendo il riso e scegliendo «la durezza del suolo».

Cioè non essendo uomini e donne.

Teodoreto di Cirro, Storia di monaci siri, Città Nuova 1995.

domenica 8 maggio 2011




Sisto IV fra banchetti e diete,estimatore di Torquemada,afflitto da nepotismo,grande venditore di indulgenze e creatore della festa dell'8 Maggio





Sisto IV (1414-1484)
La vita di Francesco della Rovere sembra snodarsi tra politica, lusso, tavole imbandite, abbuffate e digiuni. Questo è il Papa che, pur avendo inventato l’Inquisizione, trasformò Roma in una vera capitale del Rinascimento.
Sisto IV, nonostante i lussi della sua corte, non fu un assiduo mangiatore, ma un patito di diete, al punto che gli esperti medici erboristi dell’epoca gli dedicarono trattati di grande interesse.
In realtà il Papa, protettore degli umanisti, appoggiava vivamente sia produzioni d’opere morigerate che pubblicazioni inneggianti voluttà e lusso come quelle del Platina.
Sisto IV esigeva l’organizzazione di grandi banchetti per le occasioni ufficiali, con pasticci in crosta e piatti a base di carni pregiate, come cervo, daino, beccafico, fagiano, pernice. Fra le sue feste celebri, oltre a quella in onore di Eleonora d'Aragona, c’è anche la cena offerta al Duca di Sassonia dopo una stupefacente battuta di caccia.
Dagli eccessi d’abbondanza gastronomica di Sisto IV, passiamo alle sue altrettanto eccessive diete a base di verdure, latticini o baccalà. Egli era estimatore del consumo d’erbe dolci o amare, fresche o bollite, e dell’uso dei formaggi (piacentino o marzolino) a scapito delle carni portatrici di gotta.
Questo Papa, consigliato dai suoi terribili nipoti, per ingraziarsi la plebe affamata rinnovò anche i fasti delle celebrazioni per strade del carnevale, con l’offerta di cibo e lo svolgimento di una corsa rodeo consistente nel catturare due maiali lustri, lavati e profumati.
Il mecenatismo e lo sperpero di denaro fatto per imprese guerresche velleitarie, come la Crociata contro i Turchi, ridussero le casse di Sisto IV a un tale deficit che i generi di prima necessità andarono alle stelle, costringendo i fornai a tenere in bottega una guardia pontificia con l’alabarda, al fine di sedare gli eventuali
tumulti.
In seguito si impegnò nell'aggressione del Ducato di Ferrara da parte dei Veneziani, che egli incitò all'attacco nel 1482, determinando l'inizio della Guerra del Sale. Il loro assalto combinato venne bloccato da un'alleanza tra gli Sforza di Milano, i Medici di Firenze, e il re di Napoli, suo alleato ereditario e di solito braccio forte del papato. Per essersi rifiutata di desistere dalle ostilità che egli stesso aveva istigato (e per essere una pericolosa rivale alle ambizioni papali sulle Marche), Sisto pose Venezia sotto interdizione fino al 1483.

Sisto acconsentì all'inquisizione spagnola, emanò una bolla nel 1478 che istituiva un inquisitore a Siviglia, sotto pressione politica di Ferdinando II di Aragona, che minacciava di ritirare l'appoggio militare del suo Regno di Sicilia. Cionondimeno, Sisto discusse su protocollo e prerogative della giurisdizione, fu scontento degli eccessi dell'inquisizione e prese misure per condannare gli abusi più plateali nel 1482. Nelle questioni ecclesiastiche, Sisto IV istituì la festa (8 dicembre) dell'Immacolata concezione della Vergine Maria e annullò formalmente (1478) i decreti riformisti del Concilio di Costanza.

Contro Sisto IV furono scritte diverse pasquinate, tra le quali la più velenosa è questa:

Sisto, sei morto alfine: ingiusto, infido, giace, chi la pace odiò tanto in sempiterna pace.
Sisto, sei morto alfine: e Roma ecco in letizia, che te regnante, fame soffrì, stragi e nequizia.
Sisto, sei morto alfine: tu di discordia eterno, motor fin contro Dio, scendi nel cupo inferno.
Sisto, sei morto alfine: in ogni inganno destro, in frodi, in tradimenti altissimo maestro.
Sisto, sei morto alfine: orgia di sozzi piant iti dan ruffian, cinedi, meretrici e baccanti.
Sisto, sei morto alfine: obbobrio e vitupero del papato, sei morto alfine, Sisto, è vero?
Sisto, sei morto alfine: su, su, gettate a bran le scellerate membra in pasto ai lupi e ai cani!

mercoledì 4 maggio 2011


Elizabeth Barton

Born probably in 1506; executed at Tyburn, 20 April, 1534; called the "Nun of Kent." The career of this visionary, whose prophecies led to her execution under Henry VIII, has been the source of a historical controversy which resolves itself into the question: Was she gifted with supernatural knowledge or was she an impostor?

In 1525, when nineteen years of age, being then employed as a domestic servant at Aldington, Kent, she had an illness during which she fell into frequent trances and told "wondrously things done in other places whilst she was neither herself present nor yet heard no report thereof." From the first her utterances assumed a religious character and were "of marvellous holiness in rebuke of sin and vice."

Her parish priest, Richard Masters, convinced of her sincerity, reported the matter to the Archbishop of Canterbury, who sent a commission of three Canterbury Benedictines, Bocking, Hadleigh, and Barnes, two Franciscans, Hugh Rich and Richard Risby, a diocesan official, and the parish priest to examine her again. Shortly after the commission pronounced in her favour, her prediction that the Blessed Virgin would cure her at a certain chapel was fulfilled, when in presence of a large crowd she was restored to health. She then became a Benedictine nun, living near Canterbury, with a great reputation for holiness. Her fame gradually spread until she came into wide public notice.

She protested "in the name and by the authority of God" against the king's projected divorce. To further her opposition, besides writing to the pope, she had interviews with Fisher, Wolsey, and the king himself. Owing to her reputation for sanctity, she proved one of the most formidable opponents of the royal divorce, so that in 1533 Cromwell took steps against her and, after examination by Cranmer, she was in November, with Dr. Bocking, her confessor, and others, committed to the Tower. Subsequently, all the prisoners were made to do public penance at St. Paul's and at Canterbury and to publish confessions of deception and fraud.

In January, 1534, a bill of attainder was framed against her and thirteen of her sympathizers, among whom were Fisher and More. Except the latter, whose name was withdrawn, all were condemned under this bill; seven, including Bocking, Masters, Rich, Risby, and Elizabeth herself, being sentenced to death, while Fisher and five others were condemned to imprisonment and forfeiture of goods. Elizabeth and her companions were executed at Tyburn on 20 April, 1534, when she is said to have repeated her confession.

Protestant authors allege that these confessions alone are conclusive of her imposture, but Catholic writers, though they have felt free to hold divergent opinions about the nun, have pointed out the suggestive fact that all that is known as to these confessions emanates from Cromwell or his agents; that all available documents are on his side; that the confession issued as hers is on the face of it not her own composition; that she and her companions were never brought to trial, but were condemned and executed unheard; that there is contemporary evidence that the alleged confession was even then believed to be a forgery. For these reasons, the matter cannot be considered as settled, and unfortunately, the difficulty of arriving at any satisfactory and final decision now seems insuperable.