martedì 30 novembre 2010
SILVESTRO II, IL PAPA MAGO
Parliamo di uno dei personaggi storici più controversi, oscuri e chiacchierati mai esistiti: Silvestro II, il Papa che alcuni hanno a più riprese accusato di esoterismo ed altri di aver intrattenuto addirittura rapporti col Diavolo che sarebbe stato artefice della sua ascesa al soglio pontificio…
Silvestro II, al secolo Gerberto di Aurillac nasce nel 950 da una famiglia poverissima in un villaggio dell'Alvernia, zona della Francia notoriamente definita come "la terra dei maghi"; in tenera età rimane orfano e in conseguenza di ciò viene accolto nel monastero di Saint-Géraud dove ben presto ha modo di distinguersi per una viva intelligenza anche se il suo carattere vivace lo porta in più occasioni ad avere problemi con i quieti monaci. Giovanissimo Gerberto si reca in Spagna, nazione all'epoca governata dai musulmani e, cosa inaudita per un sacerdote cattolico del tempo, segue a Cordova gli insegnamenti degli eruditi arabi e si appassiona alla cultura islamica. In questo periodo il giovane entra in contatto con il mondo delle arti magiche e per far ciò non esita ad abiurare la fede cristiana e a sottoporsi ad arcane pratiche di iniziazione. Cosa Gerberto apprenda dagli studiosi musulmani non lo sapremo mai di certo però, una volta ritornato in Francia, si guadagna immediatamente la fama di uomo più dotto dei suoi tempi al punto di venire nominato precettore del figlio dell'Imperatore, addirittura su segnalazione di Papa Giovanni. La sua immensa conoscenza ed intelligenza fanno si che Gerberto attiri rapidamente su di sé le invidie e l'inimicizia di molte persone: in conseguenza di ciò è costretto a trasferirsi a Reims. Nel 999 viene nominato arcivescovo di Ravenna e qualche mese dopo, il 2 aprile, diviene Papa col nome di Silvestro II; da questo momento in poi governa la chiesa con enorme fermezza, esemplare rettitudine e, soprattutto, con grande umanità sino al 12 maggio 1003 giorno della sua dipartita. Quella che abbiamo delineato sino ad ora potrebbe sembrare la banalissima biografia di un normale personaggio storico, ma molti sono i misteri e le leggende che avvolgono la figura di Silvestro II, il Papa a cui spettò l'incombenza di traghettare il genere umano nel temuto Anno Mille.
31 dicembre 999: la Basilica di San Pietro è stracolma di fedeli inginocchiati, con la testa cosparsa di cenere, che in preda al terrore e alla disperazione attendono la fine del mondo al cospetto del Papa intento a celebrare quella che si teme possa essere l'ultima messa…il Papa in questione è il nostro Silvestro II e non sembra affatto casuale che proprio lui, con il suo oscuro passato, si trovi ad officiare la messa più inquietante della storia…Ma cosa si nasconde nel passato di Silvestro II? Lo hanno accusato di essere un mago, per alcuni era un eretico, in molti lo hanno definito un genio assoluto ma c'è chi ha visto in lui addirittura l'Anticristo fattosi uomo: vediamo di scoprire qualche cosa di più sul suo conto.
Un momento cruciale nella storia di Silvestro II è rappresentato dal suo fantomatico incontro con la Fata Meridiana. Si narra che in Gioventù Gerberto riuscisse a distinguersi per le sue capacità, per il suo carattere e per la volontà di superare in intelligenza e nel parlare tutti gli studenti della scuola di Reims; nonostante la sua superiorità, egli rimane turbato dalla bellezza di una fanciulla, che riesce a stregarlo: unico desidero del giovane diventa quello di conquistarne il cuore. Per questa ragione egli dissipa tutte le sue ricchezze e si copre di debiti e di ridicolo; un giorno però, vagando da solo in un bosco, disperato per lo stato in cui versa vede apparire davanti a se la Fata Meridiana che in cambio della sua fedeltà, promette al giovane ricchezza, dignità, onore e gloria. Dapprima impaurito, poi rassicurato, Gerberto accetta: ha così ha inizio la leggenda sui legami di Silvestro II con l'occulto. Il giovane si risolleva di colpo dalle terribili condizioni in cui si trova ed ottiene tutto quello che aveva sempre desiderato; Meridiana lo aiuta a raggiungere anche l'illuminazione della mente con studi notturni e pratiche segretissime. In questa leggenda compaiono tantissimi elementi tipici della cultura medievale come l'amore passionale e struggente nei confronti di una donna-strega, che si rivela non degna di questo sentimento; la distruzione fisica e morale del personaggio centrale ed infine l'intervento esterno, divino o diabolico, che fa cambiare direzione al corso della storia del protagonista. La figura di Meridiana può essere considerata una metafora: lo studio e la brama di conoscenza porteranno Gerberto a trovare la sua strada. Egli non si preoccupa di abiurare la sua fede: gli interessa solamente raggiungere la perfetta conoscenza in piena libertà morale e religiosa. Il rapporto con la Fata continua fino a che ella non gli predice il giorno della sua morte: questa gli rivela che avverrà solo quando "dirà messa in Gerusalemme". Reale o no, dopo tale l'incontro la salita al potere di Gerberto risulta veloce ed inarrestabile. Uno degli interrogativi più inquietanti che si aggirano attorno alla controversa figura di Silvestro II è quello relativo all'esistenza di tracce del suo presunto patto con il diavolo, indubbiamente va messo in evidenza che la nomina a Papa di Gerberto suscita un enorme spavento in gran parte del mondo ecclesiastico come testimoniano ad esempio le parole del Vescovo di Worms che, animato da pura angoscia, scrive: "Gli affidano le chiavi della Chiesa di Roma perché stringa patti col Maligno, perché si allei con Asmodeo, Abadon e con Astaroth, per combattere insieme a questi gli altri Spiriti Mendaci, contro Mammon il Seduttore e contro i Vasi di Scelleratezza, contro Meririm, Behemoth, Sammael e Belzebub. Egli, il mago, il negromante, è ora divenuto pontefice, a condurre scellerati negozi con il Potere Inquietante, insinuando tenebre spesse nelle nostre deboli menti, blandendole con la sua vana saggezza, la sua falsa sapienza, la sua cupa furbizia. Eccolo, il segno. Sarà dunque un francese, il primo francese sul trono di Pietro, a farci rotolare nell'abisso finale, provocando con i suoi arditi disegni l'ira del padre, un'ira senza rimedio".
Ma la messa dell’Anno Mille è il punto di svolta. Silvestro, di fronte alla possibile fine del mondo, decide di rompere il suo presunto patto demoniaco e mette a punto un piano: poco prima della mezzanotte dell’ultimo giorno del 999 sposta il calendario in avanti, e cancella, di fatto, l’Anno Mille. Un banale trucco matematico, che sembra funzionare. Ma la vendetta diabolica non tarda ad arrivare. Si avvera la profezia: Silvestro dice messa a Roma in Santa Croce in Gerusalemme e muore. Esiste però anche un’altra versione dei fatti che lo vuole ucciso dai nobili romani e dato in pasto ai cani.
lunedì 29 novembre 2010
SAN BRANDANO
UN NAVIGATORE LEGGENDARIO
Chi è arrivato per primo in America? Da sempre questa domanda ossessiona la mente degli storici e dei geografi che vedono nelle tradizione di numerosi popoli l'arrivo nel Nuovo Mondo ben prima di Cristoforo Colombo. La civiltà che presenta più possibilità di essere giunta in America ben prima del genovese è quella nordica, o meglio, la civiltà dei Normanni (Uomini del Nord), conosciuti anche col nome leggendario di Vichinghi. Quando parliamo di scoperta dell'America da parte di altri popoli, ci vogliamo riferire in realtà a tutto il continente americano senza trarre nessuna specifica terra in ballo. In quest'articolo però ci vogliamo riferire a un pezzo dell'America in particolare, ovvero, quello che oggi sono gli Usa, o anche il Nord America, dove secondo gli storici spetta proprio ai Vichinghi sopra citati il primato di essere giunti loro per primi in questa terra, il cui clima è molto simile a quello delle terre dal quale provengono questi intrepidi navigatori. Ricordiamo le vicende di Erik il Rosso, un principe Norvegese che trasferitosi in Islanda intraprese la navigazione dei Mari Nordici giungendo a toccare le coste meridionali della Groelandia, giungendo poi nelle terre a largo di Terranova, oggi territorio Canadese.
Accantonando per un attimo i Vichinghi, come popolo nordico che può vantare la scoperta (forse, traiamo quanto ci dicono le leggende) delle terre americane c'è il popolo dei Celti, sebbene questo non abbia una tradizione marittima lunga e famosa come quella Normanna. Tuttavia, anche a loro è attribuita la scoperta dell'America, forse molto di più dei Normanni. Una figura nordica, molto probabilmente di razza celtica, che può vantare la scoperta di terre americane è San Brandano(485-577), figura non molto ben definita, avvolta nella leggenda. Fondatore e abate del monastero di Clonfert, in Irlanda, avendo sentito parlare di una terra promessa abitata da santi al di là dell'oceano, decise di cercarla. Dopo esseri ritirato per 40 giorni in montagna, si avventurò in mare con 17 monaci a bordo di un coracle costruito da lui medesimo e costituito da una leggera ossatura integrata da giunchi e ricoperta da pelli bovine. La leggenda vuole che il viaggio sia durato sette anni, e che non fu privo di pericoli; si dice infatti che nel suo cammino, abbia incontrato demoni, draghi, serpenti di mare e isole vulcaniche.
Dopo questi pericoli, il frate arrivò presso l'isola promessa e, raccolti succosi frutti e pietre meravigliose, ritornò a casa. Sebbene sia una leggenda, questa avventura ha fornito lo spunto per la redazione, da parte di un anonimo dell'XI secolo d.C., del "Navigatio Sancti Brendani", diffusissimo nel Medioevo; naturalmente non privo di varianti e aggiunte. Per alcuni, il viaggio è troppo ricco di elementi fantastici e in realtà è la trasposizione di una navigazione fino all'Islanda, dopo aver toccato le Ebridi, le Orcadi e le Faer Oer. Per alcuni invece, la leggenda ha un fondamento reale e sembrerebbe veramente che il frate abbia posto piede in America, secondo alcuni nelle vicinanza dell'attuale Boston. Noi cosa potremmo dire in merito? Ci sarebbero tante cose da dire, ma in genere quello che diciamo quando sentiamo queste storie non è mai sicuro e rimaniamo così nell'incertezza più profonda. Tuttavia, certe domande sono importanti per una riflessione o una teoria in merito a questo caso del mondo del mistero: Veramente esistette questo frate? Raggiunse l'America o l'Islanda? Come giustifichiamo le presenze di draghi, mostri marini e demoni incontrati durante il suo viaggio? Da chi ricevette la notizia dell'esistenza di questa terra paradisiaca? Chi erano questi fratelli santi?
Personalmente, penso che tutto alla fine possa ricollegarsi ad Atlantide, che risulta in modo naturale collegata all'America. Per questo legame però enunceremo più teorie, poiché una non ci soddisfa, col rischio tra l'altro di escludere elementi altamente importanti per la ricerca:
1) Forse, San Brandano, spinto dal mito di Atlantide, come è accaduto per altri antichi popoli, è veramente giunto in America e gli elementi come draghi, mostri e demoni forse sono frutto della sua immaginazione (considerato che eravamo nel Medioevo) o di aggiunte postume.
2) Oppure, potrebbe essere giunto presso quelle isole rimaste in piedi dopo l'abissamento di Atlantide, che forse prima dell'anno mille erano ancora (chissà come) lì presente. Li, potrebbe aver trovato frutti e pietre preziose (ricordiamo che Atlantide è sempre stata descritta come un paradiso in Terra, ricco di minerali magici).
3) Forse giunse veramente in America, e quelle pietre appartenevano agli Atlantidei che si erano lì rifugiati; e i santi nominati erano proprio gli ultimi superstiti che in quegli anni (tra il 400 e il 500 d.C.) vivevano ancora lì.
4) Qualcuno dice anche che il frate possa aver toccato anche l'Islanda o le isole a nord della Scozia! Chi ci vieta di pensare che queste terre fossero state rifugio di quei superstiti sopra citati? Ed i draghi e i serpenti, mostri di quel continente perduto che si aggiravamo ancora per quelle terre.
5) San Brandano dice di aver sentito parlare di questa terra misteriosa, ma chi gli riferì ciò? Molto probabilmente dovette contare tra i suoi avi qualche Celtico (come è stato già detto in precedenza) che aveva raggiunto o stava per raggiungere questa terra, non ci riuscì e passò la notizia ai suoi figli col compito di verificarne l'autenticità. Questo compito venne trasmesso per generazioni fino ad arrivare all'era Cristiana dove un frate (diretto discendente di questi Celti) sentì la notizia e esaudì la richiesta di questo suo antico antenato, mettendosi alla ricerca di questo paradiso in terra.
Oppure, il celtico era discendente di razze Atlantidee? Razze che soffrirono molto per il fatto di aver perso un mondo così bello? Stabilitisi in Inghilterra o Irlanda e divenuti un popolo col nome di Celti, decisero che un giorno qualcuno sarebbe dovuto ritornare a cercare i tesori (le pietre trovate da San Brandano) di casa propria ancora presenti nelle ultime isole sopravissute alla catastrofe, oppure presenti in quella che oggi è il Nord America, dove forse una parte degli Atlantidei (i santi) si sarebbe potuta rifugiare. La notizia venne tramandata, ma nessuno fu capace di arrivarci. Vi furono dei tentativi senza successo (ricordiamo tutte quelle navigazioni effettuate dai Celti per i mari del Nord, il mito di Avalon e i campi Elisi Celtici). Arrivò così l'era Cristiana, i Celti si convertirono alla parola del Signore, ma il compito/notizia non si spense e un frate irlandese (i cui padri celtici avevano deciso il reinsediamento del loro popolo in quel paradiso di nome Atlantide) prese la palla al balzo e compì la missione dettata tanti secoli fa dai suoi avi.
Forse, queste teorie non hanno fondamento, perché forse il viaggio, San Brandano, Atlantide, le pietre e l'arrivo in America sono solo fantasie. Tuttavia, se un giorno ci fosse solo il minimo sospetto dell'esistenza di queste cose qui citate, le nostre teorie potrebbero aver un fondamento e risultare straordinarie.
Fonte:
Peter Kolosimo, Italia mistero cosmico, Sugarco Edizioni
San Brendano ed il suo viaggio
L’Irlanda entrò in contatto con il fenomeno del monachesimo, iniziato in oriente e diffusosi ben presto anche in Europa.
Lo spirito monastico irlandese si caratterizzò sin dalle origini nel senso di un forte ascetismo: le regole erano molto severe e prevedevano mortificazioni di ogni genere, lunghi digiuni, privazione del sonno. I temperamenti più eroici, non ancora soddisfatti, cercavano la solitudine assoluta per chiudersi nella contemplazione di Dio.
Se i monaci orientali si arrampicavano in cima alle colonne o si isolavano nel deserto, i loro confratelli irlandesi disponevano anch’essi di un deserto immenso e disabitato: il mare. Nasceva così la peregrinatio pro Christo, la ricerca della solitudine peregrinando tra le onde. Gli aspiranti eremiti giungevano addirittura a imbarcarsi e a lasciarsi trasportare dalla corrente dove il caso, o meglio, la volontà di Dio stabiliva. Isole grandi e piccole vennero popolate da comunità monastiche.
San Brandano nacque verso la fine del V secolo a Traigh Li, l’attuale città di Tralee, o in una località dei dintorni. Si diede alla vita monastica e compì numerosi pellegrinaggi per mare, giungendo in Scozia, forse in Bretagna, nelle isole Orkney e nelle Shetland. Al suo nome è connessa la fondazione di diversi monasteri.
Dopo la sua morte il ricordo dei suoi viaggi venne amplificato dalla tradizione orale, mescolandosi alle leggende del folclore celtico e perdendo ogni connotazione reale.”
Non si sa se la Navigazione (un secondo testo è la Vita, che però racconta un’altra versione del viaggio), sia stata scritta nel IX o nel X secolo, in latino, da un ignoto autore, probabilmente un ecclesiastico, in Irlanda, oppure direttamente in Europa da uno dei profughi che erano fuggiti dalle incursioni vichinghe. Certo è che ebbe larghissima diffusione nel corso di tutto il Medioevo e fu tradotta in molte lingue (anglo-normanno, francese, provenzale antico, catalano, inglese, olandese, vari dialetti germanici, e in Italia, veneziano e toscano).
La navigazione appertiene al genere letterario degli Imram. L’Imram è la narrazione di un avventuroso viaggio per mare, compiuto da uno o più eroi. (...) Il genere era congeniale agli Irlandesi, popolazione isolana in larga parte legata al mare, e poteva recepire suggestioni tratte dalla cultura classica, dall’Eneide, ad esempio, e forse dall’Odissea. È evidente l’influsso di questo genere letterario sulla genesi della Navigazione di San Brandano.”
La Navigazione
Nel primo paragrafo, dei ventinove che compongono la Navigazione (alcuni stralci sono riportati a parte), viene presentata quella che sarà la meta di Brandano: l’isola dei Beati, che gli viene descritta dall’abate Barindo, suo ospite. Troviamo qui un altro genere letterario, gli Echtrai, nei cui racconti si trovano protagonisti condotti su un’isola avvolta dalla nebbia, dove si trovano le anime dei morti. L’idea di queste isole paradisiache era diffusa tra i Celti e trova riscontro in altre tradizioni culturali. Nel nostro caso, il concetto è calato in una prospettiva cristiana e si è fuso con l’idea della Terra Promessa desunta dalla Bibbia.
I quattro paragrafi seguenti descrivono la preparazione del viaggio, la scelta dei compagni e la costruzione della nave.
Dal paragrafo VI al XXVII è narrata la navigazione vera e propria, con i diversi avvenimenti e incontri: l’Isola dalle alte scogliere, l’Isola delle pecore giganti, la grande balena, il Paradiso degli Uccelli, i vegliardi della comunità di sant’Albeo, l’Isola degli Uomini Forti, l’eremita Paolo, tutti episodi nei quali risuonano analogie con i testi degli Imram, elementi tratti dall’Apocalisse o dai testi medievali che descrivono i viaggi in Terra Santa o ancora dall’Eneide, dall’Odissea o dalla mitologia germanica.
Il paragrafo XXVIII descrive di nuovo l’isola dei beati, con l’approdo, e il XXIX, che manca in alcuni codici, racconta il ritorno in patria e la serena morte del santo.
Il paradiso terrestre
(XXVIII) Trascorsi quaranta giorni, verso sera li avvolse una nebbia così fitta che quasi non riuscivano a vedersi l’uno con l’altro. Ma il benefattore (un personaggio incontrato nel viaggio e che ora guida la loro rotta - n.d.r.) disse a San Brandano: “Sapete di che nebbia si tratta? (...) Questa nebbia circonda l’isola che avete cercato per sette anni”. (...) un’isola piena d’alberi carichi di frutta come in autunno. (...) Venne loro incontro un giovane (...) (che) si rivolse a San Brandano: “Ecco la terra che hai cercato per tanto tempo. Non hai potuto trovarla prima, perchè Dio ha voluto mostrarti molti dei suoi segreti nella vastità dell’oceano. Ora potrai tornare nella tua terra d’origine portando con te i frutti e le gemme di questa terra, quanti ne può contenere la tua nave (...)”. Allora, dopo aver raccolto la frutta e ogni genere di gemme, ed essersi congedato dal benefattore e dal giovane, San Brandano si imbarcò con i frati e riprese a navigare nella nebbia. la attraversarono (...) e infine (...) San Brandano rientrò in patria con rotta sicura.
L 'isola infernale
E avendo detto queste parole, e' venne un gran vento e molto forte, e menò la
nave presso a questa isola, e si come piacque a Dio questa nave passò oltre con
salvazione; essendo la nave di lungi un tratto di balestro e' frati udivano uno
smisurato vento e romore di martelli e battevano i martelli su per l’ancudini. E
udendo San Brandano questo romore e' si comincia a segnare e disse cosi: «O
signore Iddio debbiaci iscampare da questa isola se a voi piace» E avendo cosi
detto, inmantenente e' venne uno uomo di questa isola inverso loro el quale era
vecchio e aveva la barba molto lunga, e nero e piloso a modo d’uno porco, e
apuzzava molto forte. E così, tosto come questi servi di Dio ebbeno veduti,
questo uomo cosi tornò subitamente indietro, e ll'abate si segna e racomandasi a
Dio e disse cosi: «O figliuoli miei, levate più alta la vela e navichiamo più
forte acciò che noi possiamo fuggire di questa isola, ché c'è male stare». E
avendo detto queste cose, cioè parole, incontanente e' venne uno mal vecchio
barbuto in su lo lido del mare e recava in mano una tanaglia e una pala di ferro
tutta ardente di fuoco, e veggendo egli che la nave era partita, elli la gitta
lor dietro quella pala di ferro, ma come piacque a Dio ella no lli giunse, ma
dove ella diede tutta l'acqua fe bollire fortemente. E avendo veduto questo
fatto eglino ebbono veduti in sulla riva una grande multitudine di sozzi uomini
come fu lo primo; e aveva ognuno in mano una gran mazza di ferro tutte ardente
di fuoco e rendeva una gran puzza. E di queste mazze e dell'altre traevano loro
dietro, mai non gliene giunse veruna, ma un gran puzzo faceva, e faceva bollire
l' acqua ben tre d^; anche vedemmo ardere quella isola molto forte e andando via
i frati egli udivano un grande urlamento e romore il quale faceva quella brutta
gente. E San Brandano confortava tutti e' suoi frati e diceva: «Non temete,
figliuoli miei, lo signore Iddio si è e sarà nostro aiutatore, io voglio che voi
sappiate che noi siamo nelle parti del Ninferno e questa isola è delle sue, e
avete veduto de' suoi segni e perciò dobbiate orare divotamente acciò che non vi
bisogni temere di queste cose». E dette queste parole eglino udivano boci che
gridavano molto dolorosamente e dicevano: «O padre santo e servo di Dio, priega
per noi miseri tapini, sappi che noi siamo presi a mal nostro grado e contra a
nostra voglia, volentieri verremo da voi ma noi non possiamo, dolente a noi che
mai nascemo al mondo el quale è pieno d'ogni inganno e tradimenti; noi non siamo
legati molto forte e non veggiamo da chi ne chi ci tiene, onde la nostra vita è
sempre dolorosa e sempre sarà». E quando i frati udirono queste parole ebbono
grande compassione e priegano Iddio che gli guardasse da queste pene. E
guardando eglino inverso l'isola e' viddono questo uomo ch'era ignudo et era
menato al tormento e udiva le boci che gridava e diceva: «Al fuoco, al fuoco!».
E altri diceva: «All'acqua!». E molte altre parole udivano assai piggiori, e in
queste parole l'acqua del mare venne tutta torbida e pareva che gittasse fiamma
e puzzo molto orribile, e per questo e' frati vennono molto sbigottiti tal che
non sapevano dove si fossono ne dove dovessono andare, ma coll'aiuto di Dio pur
si partirono di cosi brutto luogo.
SBF
domenica 28 novembre 2010
Anne Boleyn the second wife of Henry Tudor,the king
Anne Boleyn was probably born in 1500 or 1501. Her father was an English diplomat, Sir Thomas Boleyn, and her mother, Elizabeth, was the daughter of one of the powerfull families of that time. Anne spent part of her childhood at the court of the Archduchess Margaret of Austria, the regent of the Netherlands. Fraser puts her age at 12-13, as that was the minimum age for a 'fille d'honneur'. It was from there that she was transferred to the household of Mary, Henry VIII's sister, who was married to Louis XII of France. Anne's sister Mary was already in 'the French Queen's' attendance. However, when Louis died, Mary Boleyn returned to England with Mary Tudor, while Anne remained in France to attend Claude, the new French Queen. Anne remained in France for the next 6 or 7 years. Because of her position, it is possible that she was at the Field of Cloth of Gold, the famous meeting between Henry VIII and the French King, Francois I.
During her stay in France she learned to speak French fluently and developed a taste for French clothes, poetry and music.
Anne returned to England around 1521 for details for her marriage with the heir of the earldom of Ormonde, in Ireland, were being worked out. Meanwhile she went to court to attend Queen Catalina. Her first recorded appearance at Court was Mar 1, 1522 at a masque.
After her marriage to the heir of the Earl of Ormonde fell through, she began an affair with Henry Percy, heir of the earldom of Northumberland.
They became secretly betrothed because Percy was already promised to Mary Talbot, daughter of the Earl of Shrewsbury, and his family would not approve of his marrying the less aristocratic Anne Boleyn. But the lord chancellor, Cardinal Wolsey, heard of the engagement and alerted the King, who told Wolsey to end the relationship. Wolsey did just that, lecturing Percy for becoming involved with a "foolish girl" and summoning Percy's father, who forbade him to see Anne again. Percy was forced to marry Mary Talbot, and Anne never forgave Wolsey.
Anne was banished from the royal court after the abrupt ending of her romance with Percy and did not return until 1524 or 1525. Somewhere in this time, Anne also had a relationship of some sort with the poet Sir Thomas Wyatt. Wyatt had married Elizabeth Brooke, Lord Cobham´s daughter, in 1520, so the timing of the supposed affair is uncertain. Wyatt was separated from his wife, but their could be little suggestion of his eventual marriage to Anne. Theirs appears to be more of a courtly love.
Exactly when and where Henry VIII first noticed Anne is not known. It is likely that Henry sought to make Anne his mistress, as he had her sister Mary years before. Maybe drawing on the example of Elizabeth Woodville, Queen to Edward IV (and maternal grandmother to Henry VIII) who was said to have told King Edward that she would only be his wife, not his mistress, Anne denied Henry VIII sexual favors. "I would rather lose my life than my honesty". We don't know who first had the idea marriage, but eventually it evolved into "Queen or nothing" for Anne.
At first, the court probably thought that Anne would just end up as another one of Henry's mistresses. But, in 1527 we see that Henry began to seek an annulment of his marriage to Catalina, making him free to marry again.
King Henry's passion for Anne can be attested to in the love letters he wrote to her when she was away from court. Henry hated writing letters, and very few documents in his own hand survive. However, 17 love letters to Anne remain and are preserved in the Vatican library.
The legend of Anne Boleyn always includes a sixth finger and a large mole or goiter on her neck. However, one would have to wonder if a woman with these oddities (not to mention the numerous other moles and warts she was said to have) would be so captivating to the King. She may have had some small moles, as most people do, but they would be more like the attractive 'beauty marks'. Ambassador and courtiers described her in his letters.
She was considered moderately pretty. But, one must consider what 'pretty' was in the 16th century. Anne was the opposite of the pale, blonde-haired, blue-eyed image of beauty. She had dark, olive-colored skin, thick dark brown hair and dark brown eyes which often appeared black. Those large dark eyes were often singled out in descriptions of Anne. She clearly used them, and the fascination they aroused, to her advantage whenever possible.
She was of average height, had small breasts and a long, elegant neck. The argument continues as to whether or not she really had an extra finger on her left hand.
In 1528, Anne's emergence at Court began. Anne also showed real interest in religious reform and may have introduced some of the 'new ideas' to Henry, and gaining the hatred of some members of the Court. When the court spent Christmas at Greenwich that year, Anne was lodged in nice apartments near those of the King.
The legal debates on the marriage of Henry and Catalina de Aragon continued on. Anne was no doubt frustrated by the lack of progress. Her famous temper and tongue showed themselves at times in famous arguments between her and Henry for all the court to see. Anne feared that Henry might go back to Catalina if the marriage could not be annulled and Anne would have wasted time that she could have used to make an advantageous marriage.
Anne was not popular with the people of England. They were upset to learn that at the Christmas celebrations of 1529, Anne was given precedence over the Duchesses of Norfolk and Suffolk, the latter of which was the King's own sister, Mary.
In this period, records show that Henry began to spend more and more on Anne, buying her clothes, jewelry, and things for her amusement such as playing cards and bows and arrows.
The waiting continued and Anne's position continued to rise. On the first day of Sep 1532, she was created Marquess of Pembroke, a title she held in her own right. In Oct, she held a position of honor at meetings between Henry and Francois I, the French King in Calais.
Bewitched by Anne's sparkling black eyes, long dark hair and vivacious personality, the King began scheming to end his marriage to Catalina. He claimed that it had never really been a marriage because she had been his brother's wife. Catalina insisted that her first marriage didn't count because it hadn't been consummated, and church authorities agreed. For years Henry struggled unsuccessfully to have his marriage annulled. In the end, determined to have his way, he broke free of the Catholic Church, established the Church of England, banished Catalina from court, had his first marriage declared invalid, and married Anne Boleyn.
Queen Anne was crowned in Jun 1533. Later that year she gave birth to her only surviving child, Elizabeth. The years of waiting had been hard on Anne. She was in her thirties now, moody and sharp tongued, and Henry was falling out of love with her. She had friends at court, but also many enemies. She had brought about the downfall of Cardinal Wolsey, who died in 1530, and she also plotted against Catalina de Aragon and her daughter Mary.
Catalina died on 7 Jan 1536, and Anne rejoiced. She was pregnant again, and if she gave birth to a healthy son her position as Queen would be secure. But on the day of Catalina's funeral Anne found the King with one of her maids of honor, Jane Seymour, sitting on his knee. She became hysterical and had a miscarriage. "She has miscarried of her savior", the Spanish Ambassador wrote.
Anne's enemies at court began to plot against her using the King's attentions to Jane Seymour as the catalyst for action. Cromwell began to move in action to bring down the Queen. He persuaded the King to sign a document calling for an investigation that would possibly result in charges of treason.
On 30 Apr 1536, Anne's musician and friend for several years, Mark Smeaton, was arrested and probably tortured into making 'revelations' about the Queen. Next, Sir Henry Norreys was arrested and taken to the Tower of London. Then the Queen's own brother, George Boleyn, Lord Rochford was arrested.
On 2 May, the Queen herself was arrested at Greenwich and was informed of the charges against her: adultery, incest and plotting to murder the King. She was then taken to the Tower by barge along the same path she had traveled to prepare for her coronation just three years earlier. In fact, she was lodged in the same rooms she had held on that occasion. According to a letter from John Husee, Viscount Lisle's man of business in London, dated 24 May 1536, "the first accusers" against Queen Anne Boleyn were "the Lady Worcester, and Nan Cobham and one maid more". Lady Worcester was Elizabeth Browne, wife of the Earl of Worcester, but "Nan Cobham" is more difficult to identify. A letter written by Queen Anne to her long time firend, Bridget Wiltshire, lady Wingfield, was used as evidence in the trial of the Queen for adultery, incest and conspiring against the life of the King. As Bridget had died, she could not refute the interpretation the prosecution placed on the Queen's words:
'I pray you as you love me, to give credence to my servant this bearer, touching your removing and any thing else that he shall tell you on my behalf; for I will desire you to do nothing but that shall be for your wealth. And, madam, though at all time I have not showed the love that I bear you as much as it was in deed, yet now I trust that you shall well prove that I loved you a great deal more than I fair for. And assuredly, next mine own mother I know no woman alive that I love better, and at length, with God's grace, you shall prove that it is unfeigned. And I trust you do know me for such a one that I will write nothing to comfort you in your trouble but I will abide by it as long as I live. And therefore I pray you leave your indiscreet trouble, both for displeasing of God and also for displeasing of me, that doth love you so entirely. And trusting in God that you will thus do, I make an end. With the ill hand of Your own assured friend during my life, Anne Rochford'
There were several more arrests. Sir Francis Weston and William Brereton were charged with adultery with the Queen. Sir Thomas Wyatt was also arrested, but later released. They were put on trial with Smeaton and Norreys at Westminster Hall on 12 May 1536. The men were not allowed to defend themselves, as was the case in charges of treason. They were found guilty and received the required punishment: they were to be hanged at Tyburn, cut down while still living and then disemboweled and quartered.
On Monday the 15th, the Queen and her brother were put on trial at the Great Hall of the Tower of London. It is estimated that some 2000 people attended. Anne conducted herself in a calm and dignified manner, denying all the charges against her. Her brother was tried next, with his own wife, Jane Parker, testifying against him (she got her due later in the scandal of Catherine Howard). Even though the evidence against them was scant, they were both found guilty, with the sentence being read by their uncle, Thomas Howard , the Duke of Norfolk. They were to be either burnt at the stake (which was the punishment for incest) or beheaded, at the discretion of the King.
On 17 May, George Boleyn was executed on Tower Hill. The other four men condemned with the Queen had their sentences commuted from the grisly fate at Tyburn to a simple beheading at the Tower with Lord Rochford.
Anne knew that her time would soon come and started to become hysterical, her behavior swinging from great levity to body- wracking sobs. She received news that an expert swordsman from Calais had been summoned, who would no doubt deliver a cleaner blow with a sharp sword than the traditional axe. It was then that she made the famous comment about her 'little neck'.
Interestingly, shortly before her execution on charges of adultery, the Queen's marriage to the King was dissolved and declared invalid. One would wonder then how she could have committed adultery if she had in fact never been married to the King, but this was overlooked, as were so many other lapses of logic in the charges against Anne.
They came for Anne on the morning of 19 May to take her to the Tower Green, where she was to be afforded the dignity of a private execution.
This morning she sent for me, that I might be with her at such time as she received the good Lord, to the intent I should hear her speak as touching her innocency alway to be clear. And in the writing of this she sent for me, and at my coming she said, "Mr. Kingston, I hear I shall not die afore noon, and I am very sorry therefore, for I thought to be dead by this time and past my pain ". I told her it should be no pain, it was so little. And then she said, "I heard say the executioner was very good, and I have a little neck", and then put her hands about it, laughing heartily. I have seen many men and also women executed, and that they have been in great sorrow, and to my knowledge this lady has much joy in death. Sir, her almoner is continually with her, and had been since two o'clock after midnight.
She wore a red petticoat under a loose, dark grey gown of damask trimmed in fur. Over that she was a mantle of ermine. Her long, dark hair was bound up under a simple white linen coif over which she wore her usual headdress. She made a short speech before kneeling at the block, recorded by Edward Hall:
Good Christian people, I am come hither to die, for according to the law, and by the law I am judged to die, and therefore I will speak nothing against it. I am come hither to accuse no man, nor to speak anything of that, whereof I am accused and condemned to die, but I pray God save the King and send him long to reign over you, for a gentler nor a more merciful prince was there never: and to me he was ever a good, a gentle and sovereign lord. And if any person will meddle of my cause, I require them to judge the best. And thus I take my leave of the world and of you all, and I heartily desire you all to pray for me. O Lord have mercy on me, to God I commend my soul.
After being blindfolded and kneeling at the block, she repeated several times: To Jesus Christ I commend my soul; Lord Jesu receive my soul.
Her ladies removed the headdress and tied a blindfold over her eyes. The sword itself had been hidden under the straw. The swordsman cut off her head with one swift stroke.
Anne's body and head were put into an arrow chest and buried in an unmarked grave in the Chapel of St. Peter ad Vincula which adjoined the Tower Green. Her body was one that was identified in renovations of the chapel under the reign of Queen Victoria, so Anne's final resting place is now marked in the marble floor.
SBF
sabato 27 novembre 2010
Perchè i popoli non dimenticano
La battaglia di Washita
Era una notte di cielo terso, con un freddo intenso che faceva star male al solo pensarci. I cavalli dovevano essere spostati con grande prudenza e circospezione perché il terreno, ricoperto di ghiaccio, scricchiolava sotto i loro zoccoli e il rumore poteva essere udito a grande distanza nel silenzio.
Terminato il dispiegamento delle forze, ai soldati fu consentito di riposare un pochino dandosi il cambio nelle postazioni. Gli uomini avevano i nervi a fior di pelle e la paura che era quasi palpabile. Ovviamente quasi nessuno riuscì a dormire veramente e neppure a distendersi, perché ciascuno di loro sapeva bene che quelle ore di attesa potevano essere anche le ultime della vita. Gli indiani sarebbero stati sorpresi nel sonno, certamente, ma avrebbero poi venduto cara la pelle e una freccia poteva arrivare da qualsiasi parte.
Nel campo indiano quelle ultime ore della notte trascorrevano pigramente. Dai colmi dei tepee usciva un sottile filo di fumo che si disperdeva immediatamente nel freddo dell’aria. I cani, sempre così attenti a ogni minimo segnale di pericolo, non si accorsero della minaccia incombente. Anche i cavalli si scaldavano stringendosi l’uno all’altro senza un nitrito di inquietudine. Il capo Pentola Nera sapeva di poter dormire sonni tranquilli: lui aveva scelto, poco tempo prima, di porre il “segno” sui fogli di pace dei bianchi a Medicine Lodge.
Era sicuro di avere messo la sua gente al riparo dai guai, a rafforzare questa certezza c’era anche la tranquillità di sapere che nessuno tra i giovani si era reso colpevole di attacchi ai coloni o alle carovane o ai posti di scambio. Questa convinzione, nonostante l’attacco sconsiderato subito a Sand Creek da quell’assatanato di Chivington, gli consentiva di potere dormire senza ansiosi patemi… Ad ogni buon conto una bandiera bianca sventolava sul suo tepee.
Il primo raggio di sole mattutino vide i soldati del VII° Cavalleria ormai pronti all’attacco, tutti in postazione, i cavalli al fianco e i fucili con cento proiettili di riserva pronti all’uso.
Custer ordinò ai suoi ufficiali: “Gli uomini si tolgano i cappotti e appoggino le bisacce a terra” e questi si curarono di trasmettere prontamente quell’ordine perché fosse eseguito. La manovra serviva a liberare i soldati da ogni intralcio ritenuto superfluo nel corso della battaglia che stava per iniziare. I cappotti e le bisacce sarebbero stati raccolti dai soldati al seguito dei carri.
Si spara a tutto ciò che si muove
Improvvisamente esplose uno sparo. Era stato un indiano che aveva avvistato un soldato. Da quel momento gli eventi precipitarono, l’azione divenne rapidissima. Le forze di Custer assalirono il villaggio dai quattro punti in cui si disposti. Un gruppo di cavalleggeri, tra il furioso abbaiare dei cani, attraversò al galoppo il villaggio in direzione dei ponies indiani, per catturarli e impedire la fuga dei Cheyenne. A questi cavalieri il villaggio parve deserto perché tutti gli occupanti erano ancora all’interno delle tende.
I soldati sbucarono improvvisamente dai loro nascondigli, dalle forre circostanti, dai cespugli e dai macchioni di salvia gelata e si gettarono all’attacco coi loro enormi cavalli americani che tanto spaventavano gli indiani. La banda musicale prese a incitare i cavalleggeri suonando “Garry Owen”.
Il villaggio si animò di colpo in un inferno di spari, sciabolate, urla e pianti, cavalli al galoppo, gente che fuggiva da tutte le parti. I guerrieri non riuscirono ad organizzare una seria azione difensiva e il loro unico pensiero fu di agguantare qualunque arma e gettarsi nella mischia contro i soldati per consentire alle donne di scappare e portare in salvo i bambini. La battaglia si trasformò rapidamente in combattimenti corpo a corpo che impegnarono i cavalleggeri contro adulti e ragazzini, persino alcune donne che disperatamente tentavano di difendere la propria vita e i figlioletti. Le distruttive galoppate dei cavalieri attraverso il villaggio li portarono ad inseguire i fuggitivi in tutte le direzioni, fino nel fiume, tra i canneti, dentro i cespugli. Le “prede” venivano stanate e uccise sul posto, senza alcuna pietà. Ovunque si vedesse movimento iniziavano le sparatorie. Gesti nervosi, a volte disperati, tutto era concitato, frenetico. I soldati avevano ricevuto ordini precisi: tutti i guerrieri dovevano essere annientati senza alcuna pietà e la stessa sorte doveva essere riservata a chiunque mostrasse ostilità, uomini, donne e bambini. Accadde proprio così! Nonostante la bandiera bianca che sventolava sulla tenda del capo, gli indiani, colti alla sprovvista, in pieno inverno e nel chiaroscuro dell’alba, furono sconfitti senza aver potuto realmente combattere. Morti dappertutto e feriti moribondi, senza speranza di essere curati, si potevano trovare anche a molta distanza dal campo indiano.
Nel frattempo, mentre il grosso delle truppe di Custer prendeva possesso del villaggio, una parte dei soldati era andata a presidiare una collinetta vicina, dalla quale si poteva osservare tutta la zona circostante. “Ma è enorme – disse con stupore il Tenente Godfrey – saranno centinaia e centinaia!” Si riferiva alle tende dell’enorme villaggio indiano che si stendeva a pochissima distanza da quello di Pentola Nera. Come era consuetudine, gli indiani di diverse tribù condividevano parte dei mesi invernali ponendo gli accampamenti in zone contigue. Il campo di Pentola Nera era solo uno dei villaggi della zona. Da tutti gli altri stavano avvicinandosi al galoppo ingenti forze di guerrieri, armati di tutto punto, per tentare di soccorrere gli amici Cheyenne.
Contro queste centinaia di guerrieri andarono letteralmente a sbattere un manipolo di soldati guidati dal maggiore Joel Elliott, che nella foga di inseguire i fuggitivi si era allontanato troppo dal grosso delle truppe. Dopo una breve e disperata resistenza, vennero sterminati fino all’ultimo uomo dai guerrieri di Mano Sinistra.
Godfrey nel frattempo era corso al campo galoppando a rotta di collo e appena incontrato Custer gli fece una relazione dettagliata di quanto aveva potuto vedere. Custer si mostrò visibilmente preoccupato ma decise di non prestare soccorso a Elliott nonostante le critiche degli ufficiali, ordinò solamente di accelerare le operazioni.
Molti soldati mostrarono forte interesse per certi manufatti e capi di abbigliamento lasciati dagli indiani; venne loro consentito di prelevare dai tepee alcuni oggetti personali e altre cose utili per il viaggio di ritorno, poi parte delle tende venne smontata rozzamente dai soldati per accatastarle in un mucchio enorme al quale venne dato fuoco. Lo stesso fuoco fu esteso al resto delle tende e a tutti gli oggetti a cui si poteva appiccarlo. Niente che potesse aiutarli a riorganizzarsi doveva essere lasciato agli indiani. Ai prigionieri fu infine permesso di scegliere un pony ciascuno.
Dalle creste dei rilievi intorno al campo si affacciavano gli altri indiani, indecisi sul da farsi e incapaci a qualsiasi reazione, preoccupati per quanto era accaduto e per quanto stavano ancora facendo i soldati. Fremevano vedendo le loro donne e i bambini prigionieri dell’odiato nemico.
Custer decise un ennesimo gesto di sfida molto emblematico. Fece raggruppare in un corral improvvisato gli oltre 900 ponies indiani in maniera che non potessero sfuggire. Organizzò i soldati in più batterie e scatenò una gigantesca sparatoria contro quelle povere bestie indifese. Le file dei soldati sparavano a turno e non smisero di sparare finché anche l’ultimo cavallo non cadde a terra morente. Ci fu un caos di fumo e spari, nitriti disperati, neve che schizzava dappertutto, fango e sangue. Tanto sangue, al punto che la neve divenne presto rossa. Gli indiani assistevano da lontano disgustati, rabbiosi e impotenti.
Quando anche quest’ultimo eccidio venne completato le truppe iniziarono a muoversi. Per spaventare gli indiani che li stavano osservando, Custer simulò l’intenzione di voler rivolgere la sua cavalleria in direzione dei loro villaggi. I guerrieri fecero immediatamente dietrofront per avvisare la loro gente e organizzare la difesa. La manovra diversiva durò poco, quel tanto che bastò ad ottenere lo scopo. A quel punto le truppe puntarono decise verso il forte di provenienza. Fino a tarda notte i pellerossa seguirono i soldati ma non fecero gesti ostili. Era troppo forte la paura di fare del male, sia pure involontariamente, ai prigionieri tra i quali c’erano anche i propri cari .
La battaglia del Washita era finita. L’esercito riuscì a contare 103 nemici morti ma di questi solo 11 erano guerrieri.
Perchè i popoli non dimenticano
Black Kettle (Pentola Nera)
Si hanno a disposizione solo poche note sulla vita del capo dei Cheyenne del Sud Pentola nera (????-1868), ma i suoi ripetuti sforzi per assicurare al suo popolo una pace dignitosa, nonostante le promesse non mantenute dall’uomo bianco e diversi attentati di cui fu vittima, ci fanno capire che grande condottiero sia stato e ci insegnano quanto fosse determinata la sua fiducia nella coesistenza tra la società dei bianchi e la cultura dei popoli delle pianure.
Pentola Nera visse nei vasti territori del Kansas dell’Ovest e del Colorado dell’Est, territori che secondo il Trattato di Fort Laramie del 1851 appartenevano al popolo Cheyenne.
A meno di dieci anni dalla firma dell’accordo, ad ogni modo, la corsa all’oro del Pikes Peak (1859), causò un enorme aumento della popolazione in Colorado, con una conseguente intensificazione degli insediamenti di bianchi in territorio Cheyenne.
Anche le autorità locali americane, poste di fronte all’accaduto ammisero che i bianchi “si erano sostanzialmente appropriati del territorio e avevano privato gli indiani dei loro mezzi di sostentamento”.
Purtroppo, invece di prendere provvedimenti nei confronti dei nuovi insediati, il Governo decise di risolvere la questione proponendo ai Cheyenne un nuovo trattato. Fu chiesto loro di cedere tutti i territori appartenenti alla tribù eccezion fatta per la piccola riserva di Sand Creek nel Sud-Est del Colorado.
Pentola nera, conoscendo lo schiacciante potere dell’esercito dell’unione e temendo che un possibile rifiuto non avrebbe fatto altro che portare ad un accordo ancor più sfavorevole per il suo popolo, firmò il trattato nel 1861, e da quel momento in poi fece il possibile affinché i Cheyenne lo rispettassero. Ad ogni modo la riserva di Sand Creek non era in grado di produrre il sostentamento necessario all’intera popolazione che vi era confinata. Tutto fuorché adatta all’agricoltura, la striscia di terra non era altro che terreno fertile per le epidemie che, in breve tempo, iniziarono a mietere vittime nell’accampamento. Nel 1862 la mandria di bufali più vicina al campo distava oltre duecento miglia.
Presto molti Cheyenne, specie quelli più giovani, iniziarono ad allontanarsi dalla riserva per far razzia delle merci stipate nei magazzini dei vicini insediamenti e per assaltare i vagoni dei treni.
Una di queste scorribande fomentò a tal punto l’ira degli abitanti del Colorado che la milizia locale fu mobilitata, con l’ordine di aprire il fuoco sui primi Cheyenne avvistati. Nessun membro della tribù di Pentola Nera aveva partecipato al raid e il capo Cheyenne si era subito mobilitato per parlamentare con l’esercito dei bianchi, eppure gli abitanti non attesero e iniziarono subito i combattimenti.
L’incidente tra indiani ed esercito provocò un insurrezione incontrollata in tutta la zona delle Grandi Pianure, dove popoli quali i Comanche e i Lakota sfruttarono il coinvolgimento dei bianchi nella guerra civile per sferrare decisivi attacchi agli invasori.
Solo Black Kettle, che ben conosceva troppo bene la supremazia dell’ esercito nemico decise di rimanere fuori dai combattimenti. Parlò con il comandante delle milizie del Colorado e con un accordo a Fort Weld pensò di aver assicurato al suo popolo una promessa di pace e protezione in cambio del rientro incondizionato a Sand Creek.
A destra, Black Kettle
Eppure il Colonnello John Chivington, comandante del Terzo Volontari del Colorado, non aveva alcuna intenzione di rispettare la promessa. Le sue truppe non erano riuscite a trovare un gruppo di Cheyenne con cui combattere quindi, avuto notizia del ritorno di Black Kettle nella riserva, l’ufficiale decise di attaccare gli accampamenti all’alba del 29 Novembre 1864. I morti furono circa 200, specie donne e bambini, e dopo il massacro gli uomini del Colonnello mutilarono molti dei corpi, solo per poi esibire i resti come trofei in una parata a Denver. Pentola Nera riuscì miracolosamente a sfuggire alla morte nel ‘Massacro di Sand Creek’.
Nonostante tutto il capo Cheyenne decise di continuare a trattare la pace, mentre gli altri indiani avevano deciso di rispondere agli atti delle milizie americane con scorribande isolate lungo le linee ferroviarie e nei ranch vicini. Nell’Ottobre 1865 lui e altri capi erano riusciti ad assicurarsi, tramite un nuovo ma svantaggioso accordo, la cessione di nuovi territori nel sud del Kansas in cambio di Sand Creek. L’accordo, comunque, di fatto privava le tribù di gran parte dei territori di caccia su cui da centinaia di anni si basava la vita del popolo.
Solo parte della Nazione dei Cheyenne del Sud seguì Black Kettle e gli altri capi nelle nuove riserve. Altri si spostarono a Nord, in territorio Lakota.
Molti altri ancora semplicemente ignorarono il trattato e continuarono le scorribande nelle terre dei loro antenati. Quest’ultimo gruppo, che perlopiù consisteva di giovani guerrieri alleatisi con il capo di guerra Naso Romano (Roman Nose), riuscì semplicemente ad attirare le ire del Governo. Fu così che il Generale William Tecumseh Sherman intraprese una campagna volta a ricacciare i dissidenti nelle riserve prestabilite. Roman Nose e i suoi uomini risposero con le armi, conseguendo ,come unico risultato, il merito di aver causato il blocco del traffico di merci nel Kansas dell’Ovest.
A questo punto, i diplomatici del Governo americano cercarono di trasferire i Cheyenne del Sud ancora una volta, in due piccole riserve nella zona dell’attuale Oklahoma, con la promessa di rifornire le tribù di diversi tipi di provvigioni annue. Anche in quell’occasione Pentola Nera fu tra i capi che firmarono il trattato (Il Medicine Lodge Treaty del 1867), ma, appena la sua gente giunse nei territori stabiliti, gli aiuti promessi non furono più spediti e per la fine dell’anno un numero maggiore di guerrieri Cheyenne si unì a Roman Nose.
George A. Custer
Nell’Agosto del 1868 Roman Nose comandò una serie di incursioni nelle fattorie del Kansas, provocando un’altra risposta armata da parte dei coloni. Sotto la guida del generale Philip Sheridan, tre colonne di truppe intrapresero una campagna invernale contro gli accampamenti Cheyenne. In testa alle truppe era il Settimo Cavalleggeri, guidato da George Armstrong Custer.
Nel pieno di una bufera, Custer seguì le tracce lasciate da un gruppo di indiani a cavallo, fino a un piccolo villaggio Cheyenne sul fiume Washita, dove giunse l’ordine d’attaccare. Il villaggio in questione era quello di Pentola Nera, sito entro i confini prestabiliti dal trattato del 1867, con una bandiera bianca che sventolava in cima al Tipi del capo. Nonostante ciò, all’alba del 27 Novembre 1868, quasi in corrispondenza dell’anniversario del ‘Massacro di Sand Creek’, la truppe di Custer diedero la carica.
Questa volta Black Kettle non fece in tempo a scappare: sia lui che sua moglie caddero sulla rive del fiume Washita, con il corpo crivellato dalle pallottole, dopodiché i loro cadaveri vennero più e più volte calpestati dai cavalli dei soldati. Custer, in seguito, dichiarò che fu una guida Osage a prendere lo scalpo del capo indiano il cui corpo non fu più trovato.
Sulle sponde del Fiume Washita, le speranze d’indipendenza e di libertà del popolo Cheyenne morirono con il capo Pentola Nera: nel 1869 furono tutti cacciati dalle Pianure e confinati nelle riserve.
venerdì 26 novembre 2010
L'evoluzione,dal Medioevo al Rinascimento, dei canoni di bellezza femminile nella società.
Tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'eta` moderna, i canoni della bellezza femminile cambiarono radicalmente.Se prima del Rinascimento l'ideale del corpo femminile era stato quello della donna pallida,magra e con il seno piccolo,con l'aumento del divario economico fra le classi ricche e classi povere,le dame manifestarono la loro superiorità` di Status, anche attraverso il fisico. Si passò quindi da un'ideale di donna grassoccia,con i fianchi larghi ed il seno procace,che si distinguesse nettamente dalle emaciate e denutrite donne delle classi Subalterne. Il concetto di bellezza fra la fine del medioevo e la prima parte del periodo rinascimentale, subì una serie di cambiamenti: si passò dalla forma slanciata a quella grassoccia e per quanto riguarda l'estetica della donna acqua e sapone a quella molto truccata. L'ideale medievale della signora nobile, inizialmente dai fianchi stretti e dal seno piccolo, confluì in un modello di bellezza più rotondeggiante con fianchi larghi e del seno abbondante. Tutto questo avvenne parallelamente ad un'importante evoluzione alimentare che prediligeva le salse acide, grasse, in uso nelle corti più importanti. È per questo che a ingrassare erano le aristocratiche anziché le contadine le quali mangiavano male e poco. La bellezza femminile seguiva un preciso schema, tanto che la donna meno fortunata economicamente aveva difficoltà nel procurarsi prodotti necessari a rendere l'aspetto conforme ai canoni dell'epoca. I principi estetici fondamentali erano: pelle rigorosamente bianca, pallida, capelli lunghi e biondi, labbra e guance rosse, sopracciglia scure, collo e mani lunghe e sottili, seno prosperoso e occhi dai colori variabili dal verde al nero (colore amato dagli italiani). Possiamo pensare che anche le dame della famiglia vitelli rispecchiassero questi canoni di bellezza. Un colorito bianco era privilegio di delicatezza, di femminilità, mentre i toni scuri denominavano la forza maschile, questo infatti spiega il perché gli uomini usavano tingersi la barba di nero. La carnagione bianca, però non doveva essere uniforme, ma occorreva dare della punte di rosso sugli zigomi, sulle guance e sul mento, al fine di trasmettere un senso di benessere e attirare l'attenzione. A volte si esagerava nel modo di truccarsi, dando troppi strati sulla pelle così vistosamente applicati da divenire una vera e propria maschera, il cui spessore impediva alla donna sia di sorridere, sia di parlare. Il trucco, in questo periodo, era anche un segno necessario per distinguere i vari ranghi sociali, infatti il rossetto ad esempio, veniva detto il "vestito" del corpo, che distingueva il suo portatore come d'altronde anche le stoffe, la biancheria raffinata usata dalle dame rinascimentali. Le vesti lunghe e voluminose,misero in evidenzia la vita,stretta dal busto e scoprirono il seno,nelle ampie scollature.Il petto, incipriato ed imbellettato,divenne,con la sua abbondanza,un indice preciso di delicatezza e "morbidezza" ,qualità fondamentale di una dama. L'ampiezza delle scollature dipendeva dall'eta` della dama..Le stoffe si arricchirono notevolmente,comparvero sete e velluti molto spessi,a volte intarsiati con oro e argent.Poiche` molto pesanti,queste stoffe erano tagliate in modo da non interferire troppo con la liberta` dei movimenti delle dame.Le maniche persero molta della loro ampiezza,divenendo piu` aderenti,ma anche piu` lunghe,tanto che a volte venivano ripiegate all'indietro.Il polsino arrivava fino alla punta delle dita,dalla parte del dorso della mano,e sotto invece si apriva a "V" a partire dal polso,in modo da lasciare liberi i palmi delle mani. I vestiti erano spesso composti da due lembi,uno dietro ed uno davanti. La parte anteriore del vestito era composta da due strisce di stoffa che si riunivano all'altezza del costato,e sopra erano tenute insieme da nastrini abbottonati. Anche lateralmente le due meta` del vestito erano unite da laccetti,che lasciavano intravedere la biancheria candida delle signore.La dame ricche evidenziavano,infatti il loro distaccamento della Plebe anche attraverso la pulizia ed il candore della loro biancheria. Questa traspariva nelle scollature,nelle gonne e nelle attaccature delle manichei alcuni vestiti,nei quali i bottoncini che tenevano le maniche unite al corpo del vestito,lasciavano degli spazi tali da intravedere il candore delle camicette. I vestiti,cosi` stretti in torno al busto,e ampi fino ai piede,erano cuciti in modo da formare molte pieghe longitudinali,che rendevano il vestito morbido e comodo.
SBF
martedì 23 novembre 2010
GASPARA SPAMPA cantò il suo amore per Collaltino di Collalto
Gaspara Stampa, la voce più autentica e spontanea della poesia erotica italiana del sedicesimo secolo, nacque a Padova nel 1523 da una famiglia milanese nobile e colta ma di scarse risorse economiche, perciò costretta a passare al commercio e, nel 1531, alla morte del padre Bartolomeo, si trasferì a Venezia con la madre, il fratello Baldassarre (anche lui poeta) e la sorella Cassandra.
A Venezia tutti e tre i giovani ebbero una buona educazione letteraria ed artistica purtroppo Baldassarre, dalla solida cultura umanistica e ottimo verseggiatore, morì a soli vent’anni, però quest’evento, che pure colpì le donne dolorosamente, non le spinse ad isolarsi e a chiudersi, anzi, ben presto la loro casa divenne centro di vita mondana, aperta ai nobili e ai letterati veneziani, che la frequentavano attratti dalle due sorelle, di bell’aspetto e brave suonatrici e cantatrici; in particolare Gaspara, che conduceva vita libera e spregiudicata, si meritò grande ammirazione per la sua vivacità intellettuale, per l’arte dimostrata nel canto e nella poesia, e per la straordinaria bellezza.
Pare che Gaspara fosse anche socia dell’Accademia dei Dubbiosi col nome arcadico di Anassilla, nome pastorale che aveva tradotto dal termine latino del Piave (Anaxum), il fiume che bagnava il feudo di Collaltino, l’uomo amato perdutamente, e che prendesse parte alle feste pubbliche allestite dai soci della "Compagnia della Calza", apprezzata e vezzeggiata insieme alla sorella Cassandra.
La sua breve vita di donna libera e spregiudicata trascorse intensa tra amori fugaci e appassionati, tra i quali dominò la tormentosa relazione d’amore, poi troncata dall’amante, che dal 1548 al 1551 la legò al conte Collaltino di Collalto, di cui pianse la lontananza quando il conte andò in Francia al servizio del re e poi l’abbandono.
Il conte, suo coetaneo, era un mediocre rimatore, un mecenate molto lodato dall’Aretino, che apparteneva ad una valorosa famiglia feudale della Marca Trevigiana, proprietaria di tre feudi nella marca trevigiana: il castello di Collalto, non lontano dal Piave, quello di San Salvatore, su una pittoresca collina, e quello di Credazzo e Rai nella pianura.
Tra i frequentatori di casa Stampa, Collaltino entrò in relazione con le due sorelle, e presto Gaspara ne restò affascinata. Da parte sua fu un amore sincero, accolto con dedizione totale, un sentimento quasi disperato, specie quando nella giovane si accentuò il senso d’inferiorità rispetto al suo signore, che deve averla amata senza slancio, se pur l’amò, più per vanità che per trasporto.
Collaltino si assentava spesso, era lontano da lei, nei suoi feudi, a Parigi, al seguito del re di Francia o, attratto dal mestiere delle armi, a combattere in giro per l’Italia, e Gaspara soffriva immensamente della lontananza, seguendone le imprese con ansia, aspettandolo con trepidazione e, quando lo sapeva nei suoi feudi, lo raggiungeva al castello, umiliandosi in un amore che riconosceva essere disuguale, ma al quale non sapeva rinunziare.
Tempestoso e doloroso fu dunque il suo legame con il conte, ma tutto perdonò e tutto accettò in profonda sottomissione per tre anni, infine, sopraffatta dalla propria gelosia, e dalla lontananza e indifferenza dell’uomo, pur essendone ancora innamorata si legò ad un secondo amore, il patrizio veneto Bartolomeo Zen.
In seguito alla separazione dal conte tuttavia il cuore della giovane non si rasserenò, anzi, Gaspara cominciò a ripensare alla tumultuosa vicenda, e ciò fu da preludio a un distacco da quanto avevo reso agitato e febbrile la sua breve esistenza.
E così, insieme ai sonetti di trepido sbigottimento, troviamo quelli animati da fervore religioso, che pure non placano l’ardore del suo cuore.
Testimonianza di questo grande amore, sicuramente blandamente ricambiato, se non addirittura unilaterale per il conte Collaltino di Collalto, uomo ricco e vanitoso, sfuggente e infedele, sono le Rime, un canzoniere, dedicato a Giovanni Della Casa, che raccoglie trecentoundici composizioni, sonetti, madrigali, canzoni, sestine e capitoli, su modello petrarchesco.
Così si espresse Benedetto Croce sulle Rime:
Il canzoniere di Gaspara Stampa non attirò l’attenzione dei contemporanei, troppo letterati per gustare quelle disadorne rime, e poco sensibili alla commossa realtà umana;rimase obliato per circa due secoli, quando fu ridato in luce per la storica vanità dei discendenti di quel feudatario veneto che ella aveva amato ed esaltato nei suoi versi;e, in questa ricomparsa, venne collocato in luce alquanto falsa.E diversamente falsa fu anche la luce che vi riverberò la critica romantica o romanticheggiante, disposta a vedersi raffigurata la vergine illusa, ingannata, tradita e morta dallo schianto. Ma ora che si può leggerlo senza preconcetti sentimentalistici e moralistici, aiutati altresì dalle indagini degli eruditi su quei circoli della società veneziana nei quali Gaspara visse la sua calda e rapida vita d’arte e di amore, ha ripreso le genuine sembianze e piace in quello che vuol essere ed è: non già alta poesia, ma, come si è detto, un epistolario o un diario d’amore. Altre letterature, e segnatamente la francese, hanno molti di tali famosi epistolari e diari: nella letteratura italiana c’è almeno quest’uno schietto e sincero, in versi.
Nei suoi versi Gaspara confessò l’esaltazione dei momenti felici e mise a nudo le ansie e i turbamenti dell’animo, scosso dai fremiti della gelosia e del sospetto, che si trasformò in dolorosa certezza nel momento dell’abbandono definitivo.
La struttura di questo diario d’amore è dichiaratamente petrarchesca: il canzoniere si apre con un sonetto proemiale, Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, e si chiude con una poesia di pentimento. Le citazioni dal Petrarca sono innumerevoli, ma la Stampa non riesce a dominare lo stile e adopera il lessico e i moduli petrarcheschi in modo superficiale ed ingenuo, fermandosi ad un’imitazione di maniera.
Ciò che conferisce grande fascino ai suoi versi è l’ispirazione sincera, che risiede specialmente nella forza e nel tormento della passione, e che l’autrice riesce a far vivere nel testo poetico con accenti di autentica drammaticità. Questa umanità è resa più intensa, in alcuni momenti, dall’acume con il quale la poetessa coglie e indaga le contraddizioni legate al suo stato di cortigiana, non protetta dal matrimonio o da una condizione socialmente accettata; tuttavia la confessione dei moti dell’animo, se ha grande interesse umano e psicologico, nuoce alla riuscita stilistica, perché ostacola il pieno controllo degli strumenti espressivi e danneggia l’equilibrio formale.
Si pensa che Gaspara abbia soggiornato per un certo periodo a Firenze, di certo morì a Venezia nel 1554, dopo quindici giorni di febbre; poco dopo la sorella Cassandra fece pubblicare le sue poesie e tre anni dopo Collaltino di Collalto si sposò.
Le Rime, dopo la prima pubblicazione, caddero nell’oblio per quasi due secoli, solo verso la metà del Settecento, per iniziativa del conte Antonio Rambaldo di Collalto, discendente di Collaltino, ne fu preparata la seconda edizione e, insieme alle poesie della Stampa, furono pubblicati undici sonetti di Collaltino e i versi del fratello di lui, ma è soprattutto in epoca romantica che sarà amata la sua poesia, e ancora ai primi del Novecento un suo celebre verso, viver ardendo e non sentire il male, è fatto proprio dal personaggio più autobiografico di Gabriele d’Annunzio, Stelio Effrena, protagonista del romanzo "Il fuoco" che, a suggello di una particolare concezione della vita, diceva della Stampa: Io so di lei un verso magnifico: Vivere ardendo e non sentire il male.
Fuorviante può essere però questa considerazione estetizzante per la comprensione della Stampa, il cui valore poetico rimane quello d’aver rifiutato l’esperienza retorica dei contemporanei e l’aver piegato la poesia all’uso immediato dell’espressione della sua verità autobiografica, il suo diario amoroso, riconducendo termini e luoghi del dettare sublime al linguaggio privato, talvolta in trascrizione meccanica del petrarchismo o con l’uso di un linguaggio parlato e prosastico, ma in passione e sincerità, che non può non renderla voce unica nel panorama letterario del Cinquecento.
SFB
GASPARA STAMPA :una cortigiana "onesta"
Nella prima metà del ‘500 a Venezia le cortigiane erano dette mamole e si distinguevano, per categoria e prezzi richiesti, dall’abito che indossavano.
Le “oneste” indossavano eleganti soprabiti di velluto con i bottoni d’oro, con pellicce di scoiattolo e con sottane lunghe di raso. Si arricciavano i capelli e li tingevano di biondo, raccogliendoli con cordelline di seta in una reticella d’oro.
Quelle di“basso rango” indossavano giubbotti di tela, camicie e braghe da uomo. In capo avevano un mezzo velo bianco, acconciato con una visiera, e ai piedi calzavano scarpe rialzate, simili agli attuali zatteroni.
Gaspara Stampa fu una delle più famose e belle cortigiane oneste.
Aveva un incedere fiero ed elegante, lo sguardo fisso in avanti, la fronte alta ed altera, il passo lieve e regolare. Più che da cortigiana, aveva modi da intellettuale aristocratica. Ed intellettuale lo era davvero, perché oltre che di vivissima intelligenza, fu anche donna di grande cultura, tanto da essere la voce femminile più autentica e spontanea della poesia erotica italiana.
Nata a Padova, si trasferì a Venezia per poter entrare, giovanissima, nel bel mondo della Serenissima.La sua bellezza non passò inosservata e ben presto molti occhi dell’aristocrazia e della nobiltà veneziana si posarono su Gaspara.
La fanciulla, intelligente e scaltra, tenne a lungo in sospeso molti pretendenti, ma quando dinanzi a lei si presentò il conte Collatino di Collalto, ella se ne innamorò perdutamente, ma non fu un amore fortunato e Collatino, dopo poco tempo, l’abbandonò per cercare nuove emozioni altrove.
Gaspara, per dimenticare il suo grande amore perduto, tra una passeggiata e l’altra lungo le calle ed i ponti sul Canal Grande, compose “Le Rime”, un canzoniere che raccoglie composizioni, sonate, madrigali, canzoni e sestine.
La bella cortigiana morì giovane nel 1554.
SBF
domenica 21 novembre 2010
Dormi, amica Ibárruri. Riposa, compagna Pasionaria. Riposa, presidente. Sogna dolcemente, madre Dolores.
Da resistenze –
XXI anniversario della morte di Dolores Ibarruri
Dicono, Dolores, che sei morta. Sciocchezze. Vivi ancora in tutti quelli che ti amano e sono tanti! Pasionaria, non dimenticheremo mai il tuo esempio.
di David Arrabalí (Mundo Obrero)
Sono 20 anni che è morta la nostra presidente, Dolores, La Pasionaria.
È difficile definire il percorso di una donna dell’entità di Dolores Ibárruri, figlia del nascente movimento operaio dai primi fuochi dei grandi sconvolgimenti sociali di quel tempo nelle Cuencas Mineras. Questa ragazza divenne ben presto la “madre” di tutti i comunisti.
Dolores studiò per acquisire cultura e per un tempo accarezzò l’idea di fare la maestra, ma la sua vera scuola fu il partito. Da subito cominciò a scrivere opuscoli, articoli nei bollettini e nei giornali delle Cuencas Mineras. In quei primi anni, lavorò come ricamatrice, come domestica, sposò un minatore, conobbe la povertà, le lotte sociali e divenne una militante. Per lei, come per tanti operai, la Rivoluzione d’ottobre significò un avvenimento decisivo nella propria militanza.
L’affermazione di Dolores Ibárruri, che per molti anni fu militante di base nella nuova formazione comunista, arrivò dopo la dittatura con l’avvento della II Repubblica. Il 23 agosto del 1930, il partito cominciò a produrre un giornale settimanale chiamato Mundo Obrero, che si trasformò alla fine di quell’anno, in un quotidiano. La necessità di disporre di un organo di stampa, del quale allora il partito era sprovvisto, era urgente, per questo motivo Mundo Obrero si trasformò nell’organo di stampa del Partito Comunista di Spagna.
Dolores si trasferì a Madrid nel 1931 per lavorare alla redazione di Mundo Obrero, segno di grande riconoscimento alla sua dedizione e fedeltà; poco dopo entrò nel Comitato Centrale del Partito… Nella stampa comunista firma alcuni articoli come “La Pasionaria” e, dimostrando capacità come oratrice nei discorsi, comincia ad essere riconosciuta dagli operai.
Eusebio Cimorra, ex direttore di Mundo Obrero, scrisse nel suo libro “Un mito chiamato Pasionaria” che Dolores aprì il passo, con José Díaz, alla battaglia contro la concezione settaria e dogmatica del gruppo di Bullejos, che minacciava la trasformazione del partito in una setta. Quando José Díaz arrivò alla segreteria centrale del PCE, Dolores Ibárruri divenne una dirigente del Partito.
La nuova squadra della direzione comunista, con in testa José Díaz e Dolores Ibárruri, con quello che sarà la politica del Fronte Popolare, trasformerà il Partito Comunista di Spagna, PCE, in un partito di massa con sempre più influenza politica e sociale. E’ in quegli anni che nasce la leggenda della “Pasionaria” tra i lavoratori, nello sfondo privilegiato della rivoluzione sociale delle Asturie, nell’ottobre del 1934.
Seguirono periodi di carcere che fecero della sua immagine sociale l’incarnazione di una forza inusitata, che crebbe ulteriormente quando dopo gli eventi del 1934, si mise alla testa di dure manifestazioni. Nelle elezioni generali del 16 febbraio 1936, Dolores Ibárruri si presentò come deputata per le Asturie. La sua nomina non fu né casuale né arbitraria, poiché per anni lottò insieme ai minatori nelle battaglie per la dignità lavorativa e salariale ed in favore della libertà.
Il Fronte Popolare vinse e Dolores ne uscì eletta, insieme ad altri 16 compagni, come deputata della minoranza comunista… Nelle Asturie si batté per la liberazione dei carcerati della prigione di Oviedo, detenuti per aver partecipato alla rivoluzione di Ottobre del ‘34.
L’attivismo di questa donna straordinaria, durante la guerra civile e specialmente i suoi interventi a capo delle Mujeres Antifascistas, la trasformarono in un mito della rivoluzione. Il prestigio di questa comunista infiammò l’animo di poeti, come Rafael Alberti, Antonio Machado o Miguel Hernández. Ma si perse la guerra e Dolores dovette abbandonare il paese, esiliata in Francia e successivamente a Mosca.
Dopo la morte di José Diaz, Dolores Ibarruri fu eletta segretario generale del PCE, una carica ricoprì fino al 1960. A quell’epoca Dolori Ibárruri è già, senza dubbio, una delle figure più importanti del movimento comunista internazionale. Nel VI congresso, Santiago Carrillo sarà eletto Segretario Generale del PCE, mentre Dolores Ibarruri diventerà Presidente del Partito.
Dolores a Madrid
I più anziani ricordano ancora l’incontro che probabilmente ha riunito più gente in un atto politico e di cui lei era protagonista. In quell’incontro migliaia di spagnoli si trovarono per omaggiare il massimo simbolo del comunismo spagnolo, Dolores Ibárruri ed utilizzarono nello stesso tempo quell’occasione per il confronto sulla problematica di conquista della legalità.
Manuel Vázquez Montalbán ricorda che il fervore degli applausi e l’emozione delle lacrime si manifestavano con un’emotività collettiva trattenuta 38 anni, una necessità di riconoscere Dolores e, riconoscendola, fornirsi di un’identità; recuperare quello che si era tenuto nascosto per tanto tempo o dichiarato nella solitudine delle celle e dei commissariati.
Il Partito Comunista di Spagna, fu protagonista di una lunga ed implacabile battaglia contro la dittatura: non fu l’unico, ma il più costante ed il più soffocato dal franchismo. Dal 1939 fino a pasqua del 1977, trascorse 38 anni di clandestinità, durante i quali il partito fece tutto il possibile, riuscendo a creare una speranza di cambiamento democratico.
Dopo la morte di Franco e la fine della dittatura militare, Dolores ritorna dopo 38 lunghi anni di forzato esilio. L’accoglienza è un’apoteosi: dalle scale dell’aeroplano discende una donna, Dolores Ibárruri che ha già 80 anni, ma che conserva un’energia eccezionale. Dolores è un simbolo, è molto più che un mito.
È di nuovo eletta deputata delle Asturie nelle prime elezioni democratiche e presiede la prima sessione della Corte di Giustizia con Rafael Alberti, fatto che non venne condiviso da molti mentre a noi ed ai nostri genitori, rese felici. Le aspettative del PCE, tuttavia, rimasero disattese dai venti seggi che finalmente ottenemmo.
La Pasionaria non ha mai abbandonato la sua attività politica, partecipando ancora alle manifestazioni di solidarietà per le Madri di Plaza de Mayo. Dolores era una comunista di profonde convinzioni ed è stata una militante fino alla fine dei suoi giorni. Ci lasciò il 12 novembre del 1989 a Madrid, a 94 anni di età. L’abbiamo sepolta nel cimitero pubblico di Almudena , accanto a Pablo Iglesias…
Il funerale di Dolores fu il primo atto politico a cui, coscientemente, assistetti nella mia vita. Julio Anguita, pronunciò le seguenti parole, rivolgendosi direttamente alla Pasionaria:
“Dicono, Dolores, che sei morta. Sciocchezze. Vivi ancora in tutti quelli che ti amano e sono tanti! In ogni immagine di umana nobiltà, in ogni gesto di austera semplicità, in ogni parola che afferma la giustizia, in ogni voce di sonora rotondità. La tua immagine, i tuoi gesti, la tua parola, la tua voce…”
“Tu hai fatto dal tuo partito qualcosa di straordinario: l’hai trasceso, l’hai superato. Il tuo comunismo esemplare è esempio per tutti: per quelli che hanno alzato il pugno e per quelli che si sono fatti il segno della croce.”
“Ci hai insegnato una lezione politica: si è comunisti nella misura in cui si è per il popolo. Il partito non è organizzato per sé stesso, bensì per gli altri. Per questo il tuo partito è turbato e felice. Turbato per la grandezza della tua lezione che ci smuove fin dalla base. Felice perché si sente confermato nella sua sfida.”
“Davanti a te, presidente, raccogliamo il tuo ultimo insegnamento. Con la passione del cuore, Pasionaria, che tu hai messo nella causa dell’emancipazione umana. Con la serenità ordinata del pensiero e della riflessione. Il PCE, il tuo PCE, si riconosce in te e si impegna su tutto quello che ha dato senso alla tua vita di combattente. Saremo la forza politica comunista che i tempi esigono.”
“Donna, quanto hai fatto per le tue compagne. Donna, che esempio per donne e uomini. Donna, che roccia piena di tenerezza. Donna, che fragranza di fermezza. Dolores, è stata molto, molto e molto dura la tua battaglia. Socchiudi gli occhi e sogna nel tuo paese.”
“Dormi, amica Ibárruri. Riposa, compagna Pasionaria. Riposa, presidente. Sogna dolcemente, madre Dolores.”
da El Tribuno del Pueblo http://arrabali.blogspot.com
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
sabato 20 novembre 2010
Battaglia di Stirling Bridge - Scozia 1297
Fra le varie vittorie di Wallace, quella di Stirling Bridge, l'11 Settembre 1297 svetta. Edoardo I, impegnato con le politiche continentali, diede a John de Warrenne, Duca di Surray e Sussex e Hugh de Cressingham, pieni poteri per reprimere totalmente qualsiasi resistenza; per questo scopo un'armata di 50.000 (supposti, ma molto più probabilmente 15-20.000) e un gran numero di cavalli, marciò attraverso i bassopiano del Sud in cerca di Wallace, che stava allora assediando Dundee con tutti gli uomini che aveva potuto radunare -- 10.000 in tutto. Costui abbandonò Dundee, passò il Tay e marciò per disputare il passaggio del fiume Forth, passaggio obbligato dell'armata Inglese per raggiungere le parti settentrionali del regno.
Wallace posizionò i suoi uomini sulle colline attorno ad un ponte sul Forth, a nord di Stirling. Non tutti gli Scozzesi erano fiduciosi sullo scontro. James Stewart si recò dal condottiero Inglese con un'offerta di pace. De Warrenne rifiutò ed i suoi cavalieri iniziarono ad avvicinarsi allo stretto ponte. Il ponte lungo il Forth vicino Stirling era allora di tronchi, ed era a Kildean, mezzo miglio oltre il ponte antico visibile oggi. Veniva descritto come talmente stretto che solo due persone potessero passare di fianco, eppure i capi Inglesi proposero di far passare 20.000 (numero alquanto incerto) persone, non contando i cavalli e le masserizie, col nemico di fronte. Waler de Hemingferd, canonico (Canon) di Guisborough nello Yorkshire racconta che un traditore Scozzese al soldo degli Inglesi si oppose strenuamente a questa decisione, ed indicò un guado a breve distanza dove sessanta uomini avrebero potuto passare fianco a fianco il fiume; ma non venne dato credito al suo suggerimento.
Nonostante le sue forze superiori, Surrey non era per nulla ansioso di incontrare Wallace, i cui precenti successi gli avevano fatto guadagnare una formidabile reputazione.
Cercando di temporeggiare, mandò due frati domenicani a Wallace, le cui forze si erano accampate vicino l'abbazia di Cambuskenneth, sulla collina conosciuta come Abbey Craig; cosi entrambe le armate potevano vedersi perfettamente l'un l'altra, e separate solo da un fiume, attorno a campi verdi e fertili. La richiesta dei frati fu breve -- Wallace ed i suoi seguaci dovevano gettare le armi ed arrendersi.
"Tornate da li amici vostri", disse Wallace, "e dite loro che siamo qui senza intenti pacifici, ma pronti per la battaglia, determinati a vendicare i nostri torti e liberare il nostro paese. Che li signori vostri venghino e ci attacchino; siamo pronti per incontrarli faccia a faccia."
Infuriati da questa replica, molti cavalieri Inglesi ora chiedevano a gran voce l'attacco. Questo era esattamente quello che Wallace e de Moray volevano ... fare in modo che l'esercito Inglese attraversasse lo stretto ponte. E' ricordato dai cronisti Inglesi che in questo momento, il traditore Scozzese, il Duca di Lennox, disse al Duca Surrey, "Datemi soltanto cinquecento cavalli ed un poco di fanteria, e potrò aggirare il fianco del nemico dal guado, mentre voi, mio signore Duca, potrete passare il ponte in tranquillità."
Surrey era esitante, quando il grottescamente grasso Hugh de Cressingham, esattore delle tasse Scozzesi per Edoardo disse, "Perchè dobbiamo protrarre la guerra e sprecare il regal tesoro? Combattiamo, è nostro preciso dovere." Surray, contrariarmente al buon senso, acconsentì, ed all'alba del giorno le forze Inglesi cominciarono a passare il ponte; Wallace udii i preparativi con gioia.
Quando metà degli Inglesi attraversarono, Wallace avanzò, avendo precedentemente mandato un forte distaccamento a presidiare il guado già citato. Nel momento in cui gli Scozzesi cominciarono a muoversi, Sir Marmaduke Twenge, un cavaliere appartenente ai North Riding di Yorkshire, che, insieme a de Cressingham, guidava l'avanguardia di cavalleria, innalzò lo stendardo reale fra le urla di "Per Dio e San Giorgio d'Inghilterra!" ed alla testa della sua cavalleria pesante lanciò una furiosa carica sul pendio alla fanteria Scozzese, mentre gli arcieri di quest'ultima bersagliavano rapidamente e in sicurezza da dietro, causando l'oscillazione e l'indietreggiamento delle forze Inglesi.
La battaglia mise alla prova gli Scozzesi, quelli di Wallace fecero una carica lungo la collina verso il ponte; nel frattempo un movimento magistrale venne eseguito da Sir Andrew de Moray, che con le sue truppe si infiltrò fra coloro che avevano già passato il ponte, tagliandone ogni via di ritirata. La confusione si diffuse fra gli Inglesi, e la disciplina svani. Wallace, appena visto il movimento, pressò con forza maggiore. Le colonne mezze-formate degli Inglesi sull'argine Nord del fiume cedettero, e molti dei cavalieri pesantemente armati caddero nel fiume ed annegarono.
Surrey, cercò di capovolgere le sorti della battaglia mandando oltre il fiume, in un momento nel quale il ponte era libero, un forte rinforzo con il suo stendardo; ma, incapaci di mantenere la formazione fra la porpia fanteria in ritirata, aggiunsero solo confusione e massacro, venendo assalite da ogni lato da lancieri Scozzesi (probabilmente schiltrons).
Gli schiltrons, secondo molti storici vennero usati per la prima volta con successo a Falkirk, non a Stirling. Ma è probabile che queste unità, inesperte come furono sempre, fossero già esistenti contro lo schiacciante numero di cavalieri e guerrieri a cavallo Inglesi. Accreditato dell'invenzione di questa formazione è lo stesso William Wallace.
Nel momento in cui i rinforzi di Surrey erano sul ponte, questo si sfasciò e cadde nel Forth sotto il peso delle truppe e della tensione della battaglia. Questo collasso, di cui esistono svariate versioni, fu una catastrofe per gli Inglesi, insieme con il passaggio del fiume di un corpo di Scozzesi dal guado, quando apparverò alle spalle del nemico, decidendo la vittoria per gli Scozzesi. Un gran numero di Inglesi annegò tentando di attraversare il fiume.
I baroni Scozzesi traditori che servivano nelle file di Surrey -- uno dei quali era il Duca di Lennox -- ora gettarono la maschera, e, con i loro seguaci, si unirono all'inseguimento, quando il combattimento divenne, come di norma in quei giorni, una scena di barbaro massacro. Era normale per l'esercito vincitore tentare di disarcionare quanti più nemici in ritirata possibile e passarli a fil di spada. Quello che spesso pensiamo come una guerra "cavalleresca" era in realtà uno dei più brutali e sanguinari modi di combattere corpo a corpo mai praticati dagli uomini di ogni era.
Surrey, dopo aver tentativo finale di riprendere il controllo dei suoi soldati battuti nel Torwood, ancora assalito da Wallace, si ritirò a Berwick e da qui mandò al suo padrone le notizie sulla sua umiliante disfatta.
Diverse fonti affermano che William Wallace cenò quella sera in una grande festa di vittoria con i suoi compagni nel castello di Stirling. Tutti tranne uno -- Sir Andrew de Moray, il più abile alleato ed amico di Wallace, venne mortalmente colpito e non si riprese mai dalle ferite ricevute nella battaglia. Morì di infezione in un letto alcune settimane dopo e Wallace fu solo nella difesa del regno di Scozia. Altre fonti affermano che venne fatto cavaliere da Roberto Bruce, nella foresta di Selkirk, e nominato "Guardiano del Regno di Scozia", una carica che tenne con onore, fedeltà e dignità.
Come risultato di questa battaglia gli Inglesi vennero cacciati dalla Scozia, tranne per Roxburgh e Berwick, nei cui castelli due forti guarnigioni Inglesi mantennero una caparbia resistenza, fino a quando vennero rimpiazzate da Surrey nel Gennaio 1298
venerdì 19 novembre 2010
I rospi animali stregati
I rospi non furono mai considerati oggetto di culto come i gatti, ma per lungo tempo furono loro attribuiti poteri arcani. All’incirca novemila anni fa la Dea Madre in statuette di argilla o pietra veniva proprio raffigurata come un rospo. Nell’antichità greci e poi romani, erano convinti che i rospi avessero la capacità di prevedere e anche influenzare la meterologia, ovvero il tempo.
Un importante soggetto del mondo antico, più precisamente del I secolo d.C., Plinio il Vecchio, aveva un concetto suo di queste creature e consigliava ai contadini di tenere nei campi dei vasi contententi terraglia e rospi per tenere lontani i temporali e tempeste che potevano rovinare il raccolto.
Ma era anche convinto che i rospi fossero pieni di veleno. Circa un secolo dopo, un altro personaggio, Eliano, nel suo “Della natura degli animali” scrisse che mescolando vino con il sangue di rospo si poteva ottenere una bevanda mortale. Questa non era solamente una credenza, aveva un fondo di verità.
Difatti i rospi, se stimolati, possono produrre una sostanza velenosa che negli animali quali i cani provoca febbre e bava. Sopraggiunge la morte sono in rari casi estremi. Fu proprio questo concetto che fece ottenere ai rospi la fama e l’immagine sinistra che si portano dietro, oltre al suo aspetto un pò repellente e alla sua predilezione per luogi umidi.
La sua notorietà crebbe nel Medioevo quando cominciò ad essere considerato un animale caro alle streghe che lo avevano al loro servizio e ne utilizzavano il veleno per le loro pozioni magiche. Per esempio la bava del rospo era considerata un ingrediente essenziale per una pozione che rendeva invisibile chi la beveva.
Si narra che le streghe, molto legate ai loro rospi, li trattavano come bambini, vestendoli di tutto punto con stoffe scarlatte e berretti di velluto verde, agghindandoli con campanelli attorno al collo. Così vestiti venivano battezzati durante i sabba nel nome di Satana.
SBF
giovedì 18 novembre 2010
MICILLINA che diventò strega per liberarsi dal marito manesco
Micillina visse e morì a Barolo, e diventò una strega una sera dopo aver ricevuto botte per l’ennesima volta da suo marito decise di chiamare in suo aiuto il Diavolo che arrivò in suo aiuto immediatamente consigliando a Micillina la vendetta.
Micillina uccise il marito facendolo cadere dall’albero su cui stava lavorando Diventò vedova e da quel giorno Micillina perfezionò rapidamente l’arte della magia e apprese tutto ciò che bisogna sapere sulle fatture, diventò molto abile e seminò morte ovunque finchè un giorno non fu arrestata e costretta a confessare attraverso la tortura della corda. Dopo un sommario e non proprio regolare processo fu bruciata al rogo come una strega.
Ancor oggi i contadini durante la raccolta delle olive gridano alle mogli :"non vorrai mica far come Micillina?"
SFB
L'Abazia di Cluny
Su tutta questa ininterrotta e crescente fioritura di fondazioni monastiche emerge la fondazione del monastero di Cluny in Borgogna (910), monastero libero da ogni ingerenza civile o ecclesiastica e posto direttamente alle dipendenze della Sede Apostolica. Esso intendeva reagire ai danni costituiti dalle intromissioni di laici, dalle rivendicazioni di signori feudali che avevano contribuito alle fondazioni, dall'imposizione di abati estranei, dalle usurpazioni di beni, dai danni dell'ospitalità obbligata a militari e funzionari imperiali. I primi abati furono San Bernone, Sant'Odone, San Maiolo, Sant'Odilone, Sant'Ugo, figure gigantesche che diffusero l'Ordo cluniacensis (prima immagine di un organismo monastico accentrato) in ogni regione d'Europa, con ramificazioni dirette o indirette (abbazia di Cava dei Tirreni) anche in Italia. A Cluny era esaltata soprattutto la celebrazione liturgica ed era ravvivata con particolare sensibilità la coscienza ecclesiale, anche se la lunghezza degli uffici in coro portava ad una riduzione del lavoro manuale. I motivi del successo furono dovuti all'esenzione papale, agli aiuti dei signori feudali, alla santità e longevità dei primi abati, pur non mancando resistenze e opposizioni di vescovi a causa dell'esenzione. L'influsso di Cluny sulla società medievale fu immenso, rialzando il livello spirituale sia nel clero che nel laicato e offrendo un'immagine precisa di osservanza monastica tutta incentrata sul primato del culto liturgico. Notevole fu anche, mediante lo splendore dei riti, l'influsso su popolazioni ancora primitive e grande l'esercizio della carità verso i poveri e i malati. Il prestigio derivava anche dal fatto che, di fronte alla diffusa anarchia contemporanea e ai disordini del "secolo di ferro", Cluny offriva l'esempio dei benefici derivanti dalla centralizzazione e dall'elevatezza dei suoi ideali. Estendendosi in ogni paese e accrescendo in maniera unica l'autorità dell'abate di Cluny, l'Ordo cluniacensis contribuì efficacemente al consolidamento della cristianità medievale e al rafforzamento dell'autorità papale. La lotta per la libertà della Chiesa dalle ingerenze imperiali, l'idea di crociata, la rinascita religiosa dopo il Mille, perfino una nuova concezione della storiografia sono strettamente legate alle motivazioni ideali che avevano dato vita alla grande abbazia borgognona, in cui la forte coscienza dell'unica comunità dei credenti aveva indotto l'abate Odilone ad istituire la commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti (2 novembre).
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