sabato 27 novembre 2010


Perchè i popoli non dimenticano


La battaglia di Washita


Era una notte di cielo terso, con un freddo intenso che faceva star male al solo pensarci. I cavalli dovevano essere spostati con grande prudenza e circospezione perché il terreno, ricoperto di ghiaccio, scricchiolava sotto i loro zoccoli e il rumore poteva essere udito a grande distanza nel silenzio.
Terminato il dispiegamento delle forze, ai soldati fu consentito di riposare un pochino dandosi il cambio nelle postazioni. Gli uomini avevano i nervi a fior di pelle e la paura che era quasi palpabile. Ovviamente quasi nessuno riuscì a dormire veramente e neppure a distendersi, perché ciascuno di loro sapeva bene che quelle ore di attesa potevano essere anche le ultime della vita. Gli indiani sarebbero stati sorpresi nel sonno, certamente, ma avrebbero poi venduto cara la pelle e una freccia poteva arrivare da qualsiasi parte.
Nel campo indiano quelle ultime ore della notte trascorrevano pigramente. Dai colmi dei tepee usciva un sottile filo di fumo che si disperdeva immediatamente nel freddo dell’aria. I cani, sempre così attenti a ogni minimo segnale di pericolo, non si accorsero della minaccia incombente. Anche i cavalli si scaldavano stringendosi l’uno all’altro senza un nitrito di inquietudine. Il capo Pentola Nera sapeva di poter dormire sonni tranquilli: lui aveva scelto, poco tempo prima, di porre il “segno” sui fogli di pace dei bianchi a Medicine Lodge.
Era sicuro di avere messo la sua gente al riparo dai guai, a rafforzare questa certezza c’era anche la tranquillità di sapere che nessuno tra i giovani si era reso colpevole di attacchi ai coloni o alle carovane o ai posti di scambio. Questa convinzione, nonostante l’attacco sconsiderato subito a Sand Creek da quell’assatanato di Chivington, gli consentiva di potere dormire senza ansiosi patemi… Ad ogni buon conto una bandiera bianca sventolava sul suo tepee.
Il primo raggio di sole mattutino vide i soldati del VII° Cavalleria ormai pronti all’attacco, tutti in postazione, i cavalli al fianco e i fucili con cento proiettili di riserva pronti all’uso.
Custer ordinò ai suoi ufficiali: “Gli uomini si tolgano i cappotti e appoggino le bisacce a terra” e questi si curarono di trasmettere prontamente quell’ordine perché fosse eseguito. La manovra serviva a liberare i soldati da ogni intralcio ritenuto superfluo nel corso della battaglia che stava per iniziare. I cappotti e le bisacce sarebbero stati raccolti dai soldati al seguito dei carri.



Si spara a tutto ciò che si muove

Improvvisamente esplose uno sparo. Era stato un indiano che aveva avvistato un soldato. Da quel momento gli eventi precipitarono, l’azione divenne rapidissima. Le forze di Custer assalirono il villaggio dai quattro punti in cui si disposti. Un gruppo di cavalleggeri, tra il furioso abbaiare dei cani, attraversò al galoppo il villaggio in direzione dei ponies indiani, per catturarli e impedire la fuga dei Cheyenne. A questi cavalieri il villaggio parve deserto perché tutti gli occupanti erano ancora all’interno delle tende.
I soldati sbucarono improvvisamente dai loro nascondigli, dalle forre circostanti, dai cespugli e dai macchioni di salvia gelata e si gettarono all’attacco coi loro enormi cavalli americani che tanto spaventavano gli indiani. La banda musicale prese a incitare i cavalleggeri suonando “Garry Owen”.
Il villaggio si animò di colpo in un inferno di spari, sciabolate, urla e pianti, cavalli al galoppo, gente che fuggiva da tutte le parti. I guerrieri non riuscirono ad organizzare una seria azione difensiva e il loro unico pensiero fu di agguantare qualunque arma e gettarsi nella mischia contro i soldati per consentire alle donne di scappare e portare in salvo i bambini. La battaglia si trasformò rapidamente in combattimenti corpo a corpo che impegnarono i cavalleggeri contro adulti e ragazzini, persino alcune donne che disperatamente tentavano di difendere la propria vita e i figlioletti. Le distruttive galoppate dei cavalieri attraverso il villaggio li portarono ad inseguire i fuggitivi in tutte le direzioni, fino nel fiume, tra i canneti, dentro i cespugli. Le “prede” venivano stanate e uccise sul posto, senza alcuna pietà. Ovunque si vedesse movimento iniziavano le sparatorie. Gesti nervosi, a volte disperati, tutto era concitato, frenetico. I soldati avevano ricevuto ordini precisi: tutti i guerrieri dovevano essere annientati senza alcuna pietà e la stessa sorte doveva essere riservata a chiunque mostrasse ostilità, uomini, donne e bambini. Accadde proprio così! Nonostante la bandiera bianca che sventolava sulla tenda del capo, gli indiani, colti alla sprovvista, in pieno inverno e nel chiaroscuro dell’alba, furono sconfitti senza aver potuto realmente combattere. Morti dappertutto e feriti moribondi, senza speranza di essere curati, si potevano trovare anche a molta distanza dal campo indiano.
Nel frattempo, mentre il grosso delle truppe di Custer prendeva possesso del villaggio, una parte dei soldati era andata a presidiare una collinetta vicina, dalla quale si poteva osservare tutta la zona circostante. “Ma è enorme – disse con stupore il Tenente Godfrey – saranno centinaia e centinaia!” Si riferiva alle tende dell’enorme villaggio indiano che si stendeva a pochissima distanza da quello di Pentola Nera. Come era consuetudine, gli indiani di diverse tribù condividevano parte dei mesi invernali ponendo gli accampamenti in zone contigue. Il campo di Pentola Nera era solo uno dei villaggi della zona. Da tutti gli altri stavano avvicinandosi al galoppo ingenti forze di guerrieri, armati di tutto punto, per tentare di soccorrere gli amici Cheyenne.
Contro queste centinaia di guerrieri andarono letteralmente a sbattere un manipolo di soldati guidati dal maggiore Joel Elliott, che nella foga di inseguire i fuggitivi si era allontanato troppo dal grosso delle truppe. Dopo una breve e disperata resistenza, vennero sterminati fino all’ultimo uomo dai guerrieri di Mano Sinistra.
Godfrey nel frattempo era corso al campo galoppando a rotta di collo e appena incontrato Custer gli fece una relazione dettagliata di quanto aveva potuto vedere. Custer si mostrò visibilmente preoccupato ma decise di non prestare soccorso a Elliott nonostante le critiche degli ufficiali, ordinò solamente di accelerare le operazioni.
Molti soldati mostrarono forte interesse per certi manufatti e capi di abbigliamento lasciati dagli indiani; venne loro consentito di prelevare dai tepee alcuni oggetti personali e altre cose utili per il viaggio di ritorno, poi parte delle tende venne smontata rozzamente dai soldati per accatastarle in un mucchio enorme al quale venne dato fuoco. Lo stesso fuoco fu esteso al resto delle tende e a tutti gli oggetti a cui si poteva appiccarlo. Niente che potesse aiutarli a riorganizzarsi doveva essere lasciato agli indiani. Ai prigionieri fu infine permesso di scegliere un pony ciascuno.
Dalle creste dei rilievi intorno al campo si affacciavano gli altri indiani, indecisi sul da farsi e incapaci a qualsiasi reazione, preoccupati per quanto era accaduto e per quanto stavano ancora facendo i soldati. Fremevano vedendo le loro donne e i bambini prigionieri dell’odiato nemico.
Custer decise un ennesimo gesto di sfida molto emblematico. Fece raggruppare in un corral improvvisato gli oltre 900 ponies indiani in maniera che non potessero sfuggire. Organizzò i soldati in più batterie e scatenò una gigantesca sparatoria contro quelle povere bestie indifese. Le file dei soldati sparavano a turno e non smisero di sparare finché anche l’ultimo cavallo non cadde a terra morente. Ci fu un caos di fumo e spari, nitriti disperati, neve che schizzava dappertutto, fango e sangue. Tanto sangue, al punto che la neve divenne presto rossa. Gli indiani assistevano da lontano disgustati, rabbiosi e impotenti.
Quando anche quest’ultimo eccidio venne completato le truppe iniziarono a muoversi. Per spaventare gli indiani che li stavano osservando, Custer simulò l’intenzione di voler rivolgere la sua cavalleria in direzione dei loro villaggi. I guerrieri fecero immediatamente dietrofront per avvisare la loro gente e organizzare la difesa. La manovra diversiva durò poco, quel tanto che bastò ad ottenere lo scopo. A quel punto le truppe puntarono decise verso il forte di provenienza. Fino a tarda notte i pellerossa seguirono i soldati ma non fecero gesti ostili. Era troppo forte la paura di fare del male, sia pure involontariamente, ai prigionieri tra i quali c’erano anche i propri cari .
La battaglia del Washita era finita. L’esercito riuscì a contare 103 nemici morti ma di questi solo 11 erano guerrieri.

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